artisti in viaggio

All’inizio del 1931, il giovane pittore Gabriele Mucchi scrive ai familiari che le «prime impressioni di Parigi sono paurose: ho percorso delle strade intere dove gli unici negozi sono gallerie d’esposizione di pittura moderna. E, se è vero quello che mi hanno detto, siamo in 50.000 a vivere d’arte in questa città». La sorpresa constatazione di Mucchi rivela, malgrado gli effetti della crisi finanziaria, il ruolo ancora fortemente attrattivo della capitale francese per gli immigrati, come centro cosmopolita e del commercio dell’arte, che offre condizioni adatte allo sviluppo di una carriera artistica spesso difficile nel paese d’origine; è quanto ricorda Tériade a proposito di Campigli, sottolineando che la sua pittura si è appunto sviluppata nell’ambiente parigino e non in quello italiano e fascista. A Parigi è, parimenti, il clima poetico e intellettuale a esercitare un forte richiamo sul gruppo degli Italiens de Paris: «Presso i giovani - scrive Campigli -, al bisogno di certezza è succeduto il bisogno del meraviglioso. Avidità dello sconosciuto, esotismo. Il film diventa il pane quotidiano. I bordelli di Sciangai son familiari a tutti quanto l’innocenza dell’Oceania. L’universo è divenuto permeabile a tutte le curiosità. Picasso s’appropria il Messico, Soupault surrealista scopre Paolo Uccello, The golden bough di Frazer diventa il vangelo dell’avanguardia intellettuale. Cose antiche e lontane si riavvicinano miracolosamente. Le affinità elettive annodano parentele bizzarre». In linea con tali aggrovigliate suggestioni, la pittura sua e di Paresce, Tozzi, de Chirico e Savinio si caratterizza per il montaggio e rimontaggio di elementi classici, arcaici e moderni, secondo una misteriosa e sospesa poetica del frammento. Anche Berlino - eccitante, 140 sofisticata, con una vita forse “più interessante” rispetto a Parigi, secondo i ricordi di un Mucchi che comincia a frequentarla dal 1929 - accoglie artisti italiani: tra essi, lo scultore Ernesto De Fiori, inviso ai fascisti e poi anche ai nazisti, che vi diventa più famoso che in Italia. Come per De Fiori, la posizione degli artisti italiani oltre confine appare spesso ambigua e complicata dalle non sempre chiare opinioni politiche, con il sospetto di antifascismo sempre in agguato. Nella seconda metà degli anni Venti alcuni italiani a Parigi, come de Pisis e de Chirico, subiscono una campagna denigratoria che li espone all’accusa, pesante, di fuoriuscitismo. Tuttavia, alla fine del decennio è il regime stesso a usare in senso propagandistico l’arte degli italiani all’estero. Nel 1929, Oppo scrive a Severini per creare nella capitale francese una sezione del sindacato fascista delle belle arti mirante alla diffusione della cultura italiana; e a Parigi si attende il Duce per inaugurare le mostre degli italiani lì residenti. Diverso è il caso di Carlo Levi, che affianca la ricerca artistica a frequentazioni antifasciste. Gli italiani che si trasferiscono all’estero, per brevi o lunghi soggiorni, cercano in realtà sia d’inserirsi in un mercato più dinamico, sia di entrare in contatto con realtà avanzate e sperimentali rispetto alla situazione nazionale. I casi del viaggio di Depero negli Stati Uniti, a vivere l’esperienza caleidoscopica di New York, e dell’incessante vagabondare di Paladini per i paesi europei, rappresentano un modello evoluto degli scambi tra cultura artistica italiana e centri stranieri. Depero coglie nelle architetture e nei grattacieli, e nel frenetico ritmo urbano, aspetti e forme in particolare sintonia con il culto futurista del dinamismo e della velocità. Paladini, già vivace animatore della corrente meccanico-immaginista del futurismo, negli anni Trenta è diviso tra Berlino, Bruxelles, New York e Parigi, e realizza una serie di opere sorprendenti e anticipatrici, ricche di allusioni al Bauhaus, al modernismo tedesco, al surrealismo francese. Di converso, artisti stranieri lavorano in Italia rivisitandone tradizioni e modelli: la scultrice tedesca Wiegmann contamina l’arcaismo italiano con un espressionismo goticizzante; Halliday, della British School of Rome, rielabora da attardato preraffaellita reminiscenze primitive e quattrocentesche, mentre Cheyssial,all’École de Rome, trova modo di aggiornare il classico tema del paesaggio romano. 



Grattacieli e tunnel viene realizzato nel 1930, durante il soggiorno a New York, come parte di una serie di tempere su carta e disegni a china preparatorî per le scene teatrali del balletto The New Babel, mai rappresentato, ideato dal ballerino e coreografo Léonide Massine per il Roxy Theatre. In particolare, la china acquerellata Grattacieli e Subway (Scudiero 1986, p. 198, n. 157) sembra essere uno studio per Grattacieli e Tunnel, dal quale si discosta solo per la differente impostazione della parte bassa della composizione, fornendo, grazie al titolo, la chiave interpretativa corretta del soggetto: i tunnel della metropolitana, cui alludono le frecce segnaletiche, le scalinate e le rotaie, che in questa versione a tempera s’intravedono con più chiarezza nella galleria di destra. Nella sezione superiore, invece, nettamente divisa in due dal piano stradale, domina l’elemento verticale dei grattacieli, la cui spinta è accentuata dalla disposizione diagonale: una soluzione ripetuta in seguito da Depero anche in ambito pubblicitario, nella resa delle matite-palazzi per la réclame della “Venus pencils”. La rappresentazione degli edifici e delle luci segue fedelmente, qui, la descrizione che ne dà Depero negli appunti stesi in vista di una pubblicazione mai realizzata, da corredare con una serie di disegni ispirati alle scenografi e per The New Babel: «Gli immensi parallepipedi abitati sono foracchiati da milioni di quadratini, tutti eguali di luce. Sui tetti, sulle guglie, sui più alti terrazzi vi sono proiettori potenti mobili, che simili a baffi di luce spazzolano l’oscura notte. Le parole “Paramount”, “Hôtel Manger”, “Hôtel Victoria”, “Roxy Theater” sono enormi, con le lettere una sopra l’altra, luminose, colorate, a volte ferme, a volte giranti» (MART - Dep.4.2.66 e Dep.4.315). Il fascino esercitato dalla caotica città americana sull’artista è del tutto esplicito nei progetti teatrali newyorkesi, che gli permettono di sperimentare idealmente quella sovrapposizione di piani dinamici alla base della scena mobile da lui stesso teorizzata. 
Silvia Vacca

Bibliografia
Depero 1966, n. 26; Depero 1969, n. 132; Depero 1970, p. 299, n. 334; Depero 1971, n. 38; Depero 1973a, n. 72; Depero 1973b, n. 71; Depero 197 3c; Depero 1975, n. 8 3; Biennale 1978, p. 229, n. 8; Passamani 1981, n. 287; Depero 1982, n. 91; Depero 1983a, n. 114; Depero 1983b, n. 113; Scudiero 1986, p. 199, n. 159; Scudiero 1987, p. 174, n. 69; De pero 1988, n. III.1; Depero 1989, n. 11.1. 


3.01 FORTUNATO DEPERO (FONDO 1892-ROVERETO 1960) Grattacieli e tunnel 1930 tempera su cartoncino; cm 68 x 102 firmato e datato a destra «Fortunato Depero New York 1930» Rovereto, MART - Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto, MD 0086-b Opera non in mostra

Arrivato a Parigi nel 1919 e inseritosi attivamente negli ambienti artistici di Montparnasse - durante gli anni Venti, con Campigli, de Chirico, de Pisis, Paresce, Savinio e Severini, fonda il Gruppo dei Sette, prima incarnazione degli Italiens de Paris -, nel 1929 Tozzi raccoglie i frutti della sua frenetica attività pittorica e organizzativa, allestendo una personale presentata da Waldemar George alla Galerie Georges Bernheim e facendo conoscere il proprio lavoro in tutta Europa attraverso le mostre di Novecento. «Costruire, occorre, e dominare la natura. Da Giotto, su su fino a Raffaello, la nostra arte è un atto di decisione e di volontà superba», scrive quell’anno in “La Fiera Letteraria”, mentre recensendo la Seconda Mostra del Novecento, Carrà loda, in Tozzi, l’«intelligenza organizzativa del quadro» (Carrà 1929). In quegli anni, quando la sua pittura fonde inquietudini metafisiche e plasticità novecentista, il tema del pittore e della modella è ricorrente: lo ritroviamo, per esempio, in Le peintre et sa femme (1928), che ripropone le due figure secondo un taglio compositivo più ristretto, con la modella vestita e senza l’elemento surreale dello sfondato prospettico con i portici e il lastricato di dechirichiana memoria. In opere del genere, un’aura di classica eternità dialoga novecentescamente con il moderno, mentre è dello stesso Tozzi il riferimento iconografico all’immagine biblica della moglie di Lot, trasformata in statua di sale, per spiegare le proprie figure femminili: «creature minerali, opere da scalpello più che da pennello» (Pasquali 1988, p. 167). Acquistata dal Kunstmuseum di Berna nel 1930 in occasione della collettiva Artisti della Nuova Italia, Figure e architetture sarebbe stata individuata da Lo Duca come il perfetto esempio di un carattere tipico della pittura tozziana: «il senso murale, l’anelito dell’affresco, unito a una calma invenzione e [a] un potere onirico che penetra ogni suo tratto» (Lo Duca 1951, p. 8).
Mariella Milan

Bibliografia
Artisti della Nuova Italia 1930, n. 220; Ausstellung Moderner Italiener 1930, n. 133; “La Rivista illustrata del Popolo d’Italia” 1930; Bovet-Grisel 1930; D’Ors 1932, n. 9; Lo Duca 1951, n. VIII; Pasquali 1988, n. 29/5, p. 236, tav. n.n.; Les italiens de Paris 1998, p. 149, n. 15. 


3.02 MARIO TOZZI (FOSSOMBRONE 1895-SAINT-JEAN-DU-GARD 1979) Figure e architetture 1929 olio su tela; cm 116,3 x 72,9 firmato in basso a destra «M. TOZZI» Berna, Kunstmuseum Bern, Staat Bern, inv. G 1128

Il critico d’arte Tériade, in “L’Intransigeant” del 10 giugno 1929, recensendo la personale di Campigli alla Galerie Jeanne Bucher di Parigi, rilevava il carattere autenticamente italiano delle opere in mostra e che tale pittura si era potuta sviluppare solo nell’ambiente parigino: «Campigli est certainement un des meilleurs représentants de la jeune peinture italienne d’aujourd’hui. On ne peut pas dire de cette dernière qu’elle est réfugiée à Paris; M. Mussolini, paraît-il, encourage beaucoup le jeune mouvement en Italie. Convenons seulement que le milieu parisien favorise son éclosion. L’art de Campigli est authentiquement italien». Gli zingari, probabilmente esposto in quell’occasione con il titolo Les Tziganes, appartiene a tale ciclo di opere caratterizzato dalle suggestioni della visita alle collezioni etrusche del Museo di Villa Giulia a Roma e della vacanza in Romania nell’estate del 1928 con la compagna Magdalena Radulescu, detta Dutza. Queste esperienze furono una sorta di catalizzatore per la nuova produzione dell’artista, contraddistinta, da un lato, da un progetto di rivisitazione archeologica e antropologica della realtà; dall’altro, da una definizione più precisa della superficie pittorica in un senso materico e ruvido, tendente a una coloritura chiara e vibrata simile ai toni dell’affresco. Il titolo del quadro, elusivamente scelto a rappresentare l’antico popolo dalle mitiche genealogie, è anche un esplicito omaggio alla compagna Dutza, romena e di schiatta tzigana, a parere di Campigli. Il soggetto, aderente a questa lettura favolosa della stirpe gitana, richiama le attività arcaiche degli zingari: l’allevamento dei cavalli, la chiromanzia e la ceramica. Tuttavia l’elemento qualificante del quadro appare il ritmico disporsi delle figure nel vuoto, in un gioco di simmetrie di orizzontali e verticali, entro una profondità gessosa. Lo schema compositivo dell’opera, infatti, vede due figure femminili in primo piano, di cui una in piedi e l’altra distesa; una figura maschile eretta sul cavallo sullo sfondo, a destra, mentre a chiudere il registro sinistro c’è un acquedotto. Espliciti risultano i riferimenti alla tradizione moderna della pittura europea, dalle Arianne dormienti sulle piazze dechirichiane al tema picassiano del ragazzo nudo a cavallo, laddove gli innesti di soluzioni primitiviste si riallacciano a certe formule che disciplinano «l’arte dei monelli in Toscana» e le «opere delle grandi epoche d’arte anonima» (Campigli 1931, p. 1). 

Paolo Rusconi 
Bibliografi a Campigli 1931, tav. 3; Costantini 1934, p. 165; Capolavori dell’arte contemporanea 1954, p.13, n. 2; Arte moderna in Italia 1967, p. XXI, n. 814; Rusconi 1998, p. 158-159, n. 51; Campigli 2001, pp. 19, 23, 24, 213, n. 6. 

3.03 MASSIMO CAMPIGLI (MAX IHLENFELDT; BERLINO 1895-SAINT TROPEZ 1971) Gli zingari 1928 olio su tela; cm 96,5 x 75,5 firmato e datato a destra «M. CAMPIGLI 1928» Rovereto, MART - Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto, Collezione Augusto e Francesca Giovanardi, MART 272

Fisico, pittore autodidatta e giornalista specializzato in politica estera - la firma «René» nasce dalla volontà di tenere separati questi ultimi due ambiti - nel 1928 Paresce, che a Parigi frequenta la cerchia degli artisti di Montparnasse e lavora al contempo come corrispondente per “La Stampa”, inaugura l’esperienza di gruppo degli Italiens de Paris. Il suo linguaggio maturo, messo a punto nella seconda metà del decennio, si applica a paesaggi cosmici e atemporali, composizioni fantastiche e marine d’invenzione che, tradotti sulla tela in tonalità smorzate e innaturali e impasti cromatici con tramature a canestro, si dispiegano in uno spazio mentale e scenografi co. Suggestioni metafisiche si fondono con la nostalgia per una classicità di repertorio i cui lemmi ricorrenti, spesso usati in senso decorativo, sono frammenti di statue, arcate cieche, scale di pietra, muri sconnessi e quinte architettoniche sospese nel vuoto. Statua, la cui figura monca torna in parecchie composizioni analoghe, riproposte con sottili varianti intorno al 1930, ben rappresenta la produzione di Paresce a questa data. Esposta insieme ad altre cinque tele al Salon parigino dei Surindépendants nell’ottobre-novembre 1930, nel 1937 viene acquistata dalle Civiche Raccolte d’Arte di Milano presso la Galleria del Milione. In un secondo tempo s’aggiungono al repertorio iconografico della pittura di Paresce altri elementi - scie luminose, orbite stellari, tronchi d’albero, fari, navi, tende mosse dal vento e donne manichino - amplificando l’ambiguità tra interni ed esterni. La realtà - scrive l’artista sul “Bollettino” del Milione in occasione della personale milanese del 1933 - è una disgrazia inevitabile, che «va messa da parte, ignorata se possibile, o abbandonata senza rimpianti a scienziati e fotografi» (Paresce 1933); «siccome la fantasia per un pittore - aggiunge nel 1935 - consiste nel creare nuove forme e nuovi colori, io fo mari del color che mi piace e case senza camere e senza tetto» (Mazza 1946, p. 12).
 
Mariella Milan 
Bibliografi a Surindépendants 1931, n. 367; Nicodemi-Bezzola 19351939, tav. 2860; Caramel-Pirovano 1973, p. 53, n. 906, tav. 893; Paresce 1992, n. 19; Les Italiens de Paris 1998, n. 55, p. 194. 


3.04 RENATO PARESCE (CAROUGE 1886-PARIGI 1937) Statua 
1929 olio su tela; cm 62 x 46 firmato e datato in basso a sinistra «René Paresce 29» Milano, Museo del Novecento, inv. 6003 

Raro caso di futurista antifascista (Carpi 1981), autore nel 1922 di dipinti perduti, dunque leggendari, come la costruzione meccanica Il proletario della III Internazionale e La nona ora (Lista 1980, p.n.n.) - sulla questione delle otto ore di lavoro, che di lì a poco in Germania porta alla pubblicazione di Acht Stunden, con contributi dei massimi artisti tedeschi (1924) - Paladini si misura subito con i centri artistici internazionali: nel 1924 è a Vienna con bozzetti di scene e costumi (Internationale Ausstellung Neuer Theatertechnik 1924), nel 1926 alla Biennale di Venezia, con Equilibrismi, e al Brooklyn Museum di New York, in compagnia di Kandinskij, Picasso, Mondrian (International Exhibition of Modern Art 1926). Nel 1927 pubblica il primo e unico numero di «La ruota dentata. Movimento Immaginista», dove l’estetica “meccanica” degli inizi e le ascendenze dadaiste berlinesi - dichiarate dal fotomontaggio in prima pagina - si aprono a prospettive tra surrealismo e metafisica, suscitate dalle frequentazioni parigine e dai contatti con de Chirico e Savinio. Viaggia in Germania, Belgio e Russia, sviluppa i suoi interessi per la scenografia e in Italia partecipa alla battaglia del modernismo, presentando disegni prospettici e assonometrie alle esposizioni di architettura razionale (Roma 1928 e 1931). Arriva a questo punto il Complesso onirico n. 1, dove un titolo freudiano introduce al muto conversation piece tra un Antinoo in gesso e l’audace nudo in calze nere, in una stanza con piastrelle da Istituto delle case popolari e arredi alla Bauhaus: sarà stata Gunta Stölzl, o una sua allieva, a disegnare e tessere tappetino e copriletto? La pianta grassa sul tavolino tubolare fa coincidere razionalismo e Neue Sachlichkeit, geometria e natura, progetto e passione, e vale da dichiarazione di poetica. Sono tedeschi, i contenuti, ma espressi con una pittura mentale e un po’ vache, sulla lunghezza d’onda del primo Magritte, il migliore, e in qualche anticipo sul Picabia erotico di fine decennio. 
Antonello Negri 

Bibliografia 
Cinque pittori milanesi e cinque pittori romani 1932; Spaini 1933, p. 3; Vinicio Paladini 1933; Retrospettiva Golfarelli, Cominazzini, Kiesler, Marini, Paladini 1958; Lista 1988, p. 84, n. 58; Vinicio Paladini 2006. 

3.05 VINICIO PALADINI (MOSCA 1902-ROMA 1971) Complesso onirico n. 1 1932 olio su tela; cm 110 x 135 firmato e datato in basso a destra «V. Paladini - 932» Collezione privata

Musicista per formazione ma anche scrittore, giornalista, critico e, dal 1925, pittore, l’eclettico Savinio, stabilitosi a Parigi nel 1926, elabora una poetica incentrata sul recupero del passato attraverso la creazione di una mitologia individuale e autobiografica, che s’innesta su miti greci come quelli dei Dioscuri e degli Argonauti o, come in questo caso, sul racconto evangelico del Figliol prodigo. Lavorando, a partire dal 1928, sul principio della metamorfosi, Savinio inventa iconografi e ricorrenti, orchestrate in interni dal sapore teatrale. Dal 1930, quando abbandona l’olio per la tempera - in linea con l’attualissimo dibattito sul recupero del mestiere e con il diffuso interesse, specie tra gli Italiens de Paris, per toni da affresco di sobrietà “pompeiana” - nascono i primi “uomini con teste bestiali”. Composti come collages di elementi iconografi ci eterogenei - le teste provengono da libri illustrati per l’infanzia, i corpi da foto di famiglia, acqueforti, cartoline e repertori fotografici e archeologici -, richiamano il linguaggio della satira senza condividerne le intenzioni. La donna con la testa di pellicano, presente in una ventina di opere, nasce da una fotografia della madre, Gemma Cervetto, seduta, secondo la classica iconografi a ottocentesca di coppia, accanto al padre in piedi, ritratto montando una testa di giraffa su una figura maschile tratta dalla Geschichte der Costüme, mentre lei è abbigliata con un tessuto decorato simile a quelli progettati da Savinio per l’Exposition Coloniale parigina del 1931. Esposta per la prima volta alla Promotrice di Torino nel 1932, l’opera viene poi inviata alle due personali allestite tra 1932 e 1933 a Firenze e Milano. In occasione della seconda tappa, alla Galleria Milano, è riprodotta sul “Corriere Padano” a corredo della recensione dell’amico Waldemar George, per il quale i «mostri verosimili» di Savinio, «nuovo Esopo», portano maschere che «hanno lo scopo di identificarli» riproducendo «l’infinita varietà di tipi individuali». 

Mariella Milan 
Bibliografia Del Massa 1932; Promotrice 1932, n. 184; George 1933; Savinio 1933; Arte moderna in Italia 1967, p. 242, n. 1322 (datato 1935); Savinio 1990, pp. 308-309, n. 91; Vivarelli 1996, p. 131, n. 1932 11; Roos 2002, p. 39. 


3.06 ALBERTO SAVINIO (ANDREA DE CHIRICO; ATENE 1891-FIRENZE 1952) Partenza del fi gliol prodigo 1932 tempera su carta; cm 81 x 64 firmato in basso a destra «Savinio» Santomato di Pistoia, Collezione Gori - Fattoria di Celle

Tornato a Parigi nell’autunno del 1925, alla fi ne degli anni Venti de Chirico produce un gran numero di opere - anche per via del doppio contratto con i mercanti Léonce Rosenberg e Paul Guillaume - e lavora a nuovi soggetti, come i paesaggi nella stanza, i mobili nella valle e i gladiatori, protagonisti della serie di tele destinata al salone di casa Rosenberg. La poetica del ritorno al classico, uno dei fattori alla base della rottura del 1928 con il gruppo surrealista, dà forma a una nuova variante di un soggetto già trattato nel periodo ferrarese, i manichini. Identificate come “archeologi”, “manichini” o “filosofi”, queste figure pensierose dalle teste polite e dalle proporzioni bizzarre - ricettacolo d’improbabili montaggi di architetture, elementi di paesaggio e solidi geometrici multicolori, in netto contrasto con la generale monocromia delle composizioni - compaiono, singole o in coppia, in una quarantina di quadri. Seduti su poltrone imbottite, davanti a templi e quinte di case borghesi o, come in questa Canzone, immersi in uno spazio indistinto, animato solo dai filamenti diagonali di una pennellata che si sfalda, i nuovi manichini indossano il peplo e, di volta in volta pittori, matematici, navigatori, villeggianti, fondono richiamo all’antico e memoria individuale, animando una tematica che si fa via via più illustrativa. Dipinto intorno al 1930, Canzone meridionale viene presentato alla grande personale fiorentina dell’aprile 1932 - circa quaranta opere esposte nella galleria di Palazzo Ferroni dell’antiquario Luigi Bellini e in gran parte provenienti dalla collezione dell’amico Giorgio Castelfranco, che per qualche tempo ospita il “ritornante” de Chirico a Firenze - ed è acquistato in quell’occasione dalla Galleria d’Arte Moderna. Qui gli “archeologi” eseguono alla chitarra una canzoncina folkloristica, cullando nel ventre metafisico una candida casetta marina e il sole del Sud, ripreso dalle recenti illustrazioni per i Calligrammes di Apollinaire.

Mariella Milan
Bibliografi a Castelfranco 1932; De Chirico 1932; Jahn-Rusconi 1934, 
p. 17; Brizio 1939; Bruni Sakraischik 1972, vol. VI, opere 1908-1930, n. 374 (1930); La Metafisica: gli Anni Venti 1980, p. 90; Fagiolo dell’Arco 1982, n. 108 e p. 119 (1929); Rivosecchi 1998, p. 118; Galleria di Palazzo Pitti 2008, n. 3394 (1930). 


3.07 GIORGIO DE CHIRICO (VOLOS 1888-ROMA 1978) Canzone meridionale 1930 circa olio su tela; cm 75 x 60 firmato in alto a destra «G. de Chirico» Firenze, Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti, inv. Giornale 15 – Gen. 463

Complice la vicinanza a Lionello Venturi e ai Sei di Torino, alla fine degli anni Venti Levi abbandona le volumetrie nette e i modellati taglienti della lezione casoratiana per passare a contorni fluidi e a una tavolozza più accesa, rimeditando linee modiglianesche, cromie postimpressioniste e decorativismi matissiani. Il tema del ritratto, centrale nella sua produzione, permette di tracciarne le ampie frequentazioni: gli antifascisti della Torino anni Trenta, i personaggi conosciuti durante il confino in Lucania nel 1935-1936, i letterati incontrati a Firenze tra 1941 e 1944 e gli amici critici e artisti. Nel 1968, in un testo pubblicato postumo, Levi spiega il proprio interesse per un genere che, oltre a offrirsi come metodo di conoscenza, permette di conservare le fattezze di persone che, «scomparse nella vita [...] restano, per le loro immagini dipinte, del tutto reali, in un’altra vita, completa, immune da perdite, mutilazioni, censure della memoria» (in Levi 2000, p. 85). Nei primi anni Trenta la pittura di Levi assume toni espressionisti e i ritratti diventano più antinaturalistici, stravolgendo talora la fisionomia dei personaggi. Questo ritratto di de Pisis, di cui esiste un’altra versione datata allo stesso anno - ma è incerto quale delle due sia stata esposta nel 1933 alla personale nella parigina Galerie Bonjean - è una delle poche testimonianze della frequentazione, da parte di Levi, dei cosiddetti Italiens de Paris. Inviato nel 1936 alla personale allestita al Milione di Milano, poi trasferita a Genova, il ritratto è punteggiato cromaticamente da una serie di dettagli decorativi. Contro il rosa pallido della tela fissata alla parete sullo sfondo e l’azzurro polveroso della giacca emergono nei loro toni squillanti - a tradurre la personalità eccentrica di De Pisis, appassionato collezionista di chincaglierie e curiosità da Wunderkammer - le medaglie, il monocolo, l’orecchino, gli anelli sopra il guanto di pelle, la cravatta a pois, il fiore sul risvolto e il pappagallo Cocò.

Mariella Milan 
Bibliografia 
C.B. 1933 (Portrait de Filippo de Pisis) (?); Levi 1933 (?); Levi 1936, n. 1 (Ritratto) o n. 9 (Ritratto d’uomo) o n. 51 (Figura); Podestà 1936; Ragghianti 1948, p. 40, n. 57 (Ritratto di Filippo de Pisis); Scontrino 1997, p. 65 (De Pisis col pappagallo); Les italiens de Paris 1998, p. 159, n. 25 (Ritratto di De Pisis col pappagallo); Levi 2000, n. 11 (Ritratto di De Pisis). 


3.08 CARLO LEVI (TORINO 1902-ROMA 1975) Ritratto di de Pisis col pappagallo 1933 olio su tela; cm 60,5 x 50 datato sul telaio «33630» Roma, Fondazione Carlo Levi, IF 11

Fin dagli esordi, nei primi anni Venti, il ritratto occupa uno spazio importante nella produzione di de Pisis. I soggetti preferiti sono familiari, amici, conoscenti e tipi umani dalla valenza letteraria: adolescenti, mendicanti, soldati, «i personaggi di una lunga “comédie humaine” cui l’artista attribuisce e impresta il destino, il dolore e le vocazioni del suo spirito inquieto di immagini» (De Pisis 1954). La profusione di arredi e quadri della casa parigina di rue Servandoni, dove de Pisis aveva stabilito la propria residenza dal 1930, inghiotte la figurina del ragazzo in divisa, in una concitazione pittorica che Raimondi accosta a quella di Manet, a lungo studiato dal maestro ferrarese, per un’analoga rapidità di visione, «qualcosa di brusco e violento nella presa»; «anche per de Pisis - osserva ancora il critico - la composizione deve essere affollata, gremita, brulicante, perché egli possa realizzare il problema della terza dimensione, anziché ubbidendo alle leggi tradizionali della prospettiva, con l’esaltare talune parti del quadro […] Lo spazio intorno viene ad acquistarne la necessaria degradazione dei piani» (Raimondi 1940). Proveniente dalla raccolta di Alberto Della Ragione, la tela viene esposta al pubblico per la prima volta alla Galleria La Zecca di Genova nel 1938; nel 1941 è alla Mostra delle collezioni d’arte contemporanea a Cortina d’Ampezzo, per poi passare a Mario Rimoldi - organizzatore della rassegna, presentato a de Pisis dall’amico scrittore Giovanni Comisso durante uno dei soggiorni a Cortina e diventato in seguito uno dei suoi maggiori collezionisti privati - e di lì all’attuale collocazione. Il soldatino francese è una delle opere più note di de Pisis, esposta, con lievi variazioni nel titolo, all’ampia personale ordinata nel 1948 alla Biennale di Venezia e alla grande retrospettiva veneziana del 1956 e, in quello stesso anno, riprodotta nelle principali monografie uscite subito dopo la morte del pittore. 

Mariella Milan 
Bibliografia “Il Frontespizio” 1938, p. 240-VIII; Pittura italiana d’oggi 1938; Barbaroux-Giani 1940, tav. 62; Mostra delle collezioni d’arte contemporanea 1941, n. 379; Podestà 1941a, p. 194; Solmi 1946, tav. XXVIII; Biennale 1948, sala Vb, n. 6; Biennale 1956, sala XIII, n. 35; Valsecchi 1956, tav. 38; Ballo 1956, tav. 49; De Pisis. Gli anni di Parigi 1987, n. 54; Briganti 1991, n. 1937 19, p. 405, fig. 1937 19; De Pisis 2005, n. 63, p. 178. 


3.09 FILIPPO DE PISIS (LUIGI TIBERTELLI; FERRARA 1896-MILANO 1956) Soldatino francese (Soldato nello studio) 1937 olio su tela; cm 99 x 73,5 firmato e datato in basso a destra «37 de Pisis» Cortina d’Ampezzo, Museo d’Arte Moderna “Mario Rimoldi” delle Regole d’Ampezzo

L’opera è stata eseguita durante il soggiorno in Italia di Cheyssial, vincitore della borsa triennale del Grand Prix de Rome nel 1932, ed è stata presentata a Villa Medici nel 1936. L’artista, allievo dell’École des beaux arts e salariato per qualche tempo di un fabbricante di vetrate, aveva già ottenuto il secondo posto nella competizione del 1929; quando nel 1932, grazie al dipinto L’enfance de Jesus si sposta a Roma, ha modo di affrancarsi dall’eccessiva dipendenza del suo stile da Renoir cercando una via del tutto personale.
In Bagno al Ponte Milvio Cheyssial utilizza un’ambientazione italiana, ma in Italia non subisce l’influenza né del Rinascimento né dell’arte contemporanea: fa eccezione Masaccio - unico pittore dal quale ricava una significativa ispirazione - che gli interessa per lo sviluppo tecnico dei mezzi d’espressione. L’attenzione per Masaccio è evidente anche nella definizione plastica dei nudi presenti in questo dipinto, che nella composizione rivela però l’ispirazione prettamente francese e poussiniana, rivista attraverso la Baignade di Seurat.
Acquistato dal Musée des Années Trente di Boulogne-Billancourt nel 1994 direttamente dall’artista, il Bagno al Ponte Milvio è considerato dallo stesso Cheyssial fondamentale per le ricerche sul paesaggio da lui avviate proprio in quegli anni; impostato su studi dal vero, poi rielaborati lentamente in studio, il dipinto s’inserisce nella tradizione della pittura di colore, con una stesura a grandi tacche che ne lascia trasparire l’intensa emotività.
Silvia Vacca

Bibliografia
Hugedé 2000, p. 48.


3.10 GEORGES CHEYSSIAL (PARIGI 1907-1997) Bagno al Ponte Milvio [Baignade au Ponte Milvio] 1936 olio su tela; cm 223 x 223 Boulogne-Billancourt, Collection du M-A30 Musée des Années 30, inv. 94.26.1 Acquis avec l’aide du F.R.A.M. (Fonds Régional d’Acquisition des Musées)

L’opera è stata esposta alla Royal Academy di Londra nel 1939 con il titolo Evening on the campagna; probabilmente in tale occasione Halliday ha apposto fi rma e data, successiva all’effettiva esecuzione del dipinto. La tela viene infatti realizzata nel 1928 (ma già nel 1927 l’artista compie alcuni studi preparatorî), a partire da una commissione per due lavori destinati a decorare le pareti della casa e della tintoria dell’imprenditore Sir Benjamin Johnson. Nei soggetti, sia Hypnos sia l’altro dipinto, San Paolo incontra Lidia di Titiara (Lidia era considerata la patrona dei tintori), tengono conto degli ambienti cui sono destinati. In particolare Hypnos, eseguito per il corridoio di una stanza da letto della casa di Johnson a Woolton, mostra un recupero di tematiche classiche per illustrare il soggetto: rappresenta infatti il dio greco del sonno che con la sua presenza fa cadere addormentati i contadini nella campagna romana. Dipinta in Italia durante il soggiorno premio di tre anni della British School, vinto da Halliday nel 1925, l’opera fa parte di un gruppo molto omogeneo di lavori di destinazione parietale, a tematica mitologica, tutti eseguiti con lo stesso stile e metodo di lavoro, basato sullo studio su modelli delle singole figure e sul saldo impianto della composizione complessiva. Un ruolo determinante nella defi nizione di contenuti del genere dev’essere stato d’altra parte giocato dalla presenza a Roma, in qualità di bibliotecaria della British School, della classicista e archeologa Dorothy Hatswell, fidanzata e poi moglie del pittore. In Hypnos si avverte anche l’influenza esercitata dai primitivi italiani, guardati in quel periodo da Halliday con particolare attenzione, mentre l’atmosfera sospesa e sognante e la prospettiva teatrale, ribaltata verso lo spettatore, rimandano a un certo suo interesse per i lavori di de Chirico. Dopo la morte del padre, la figlia di Sir Benjamin Johnson restituisce a Halliday il quadro. 

Silvia Vacca 
Bibliografi a Royal Academy 1939; Compton 1997, p. 20. 


3.11 EDWARD IRVINE HALLIDAY (LIVERPOOL 1902-1984) Hypnos, dio del sonno [Hypnos, God of Sleep] 1928 olio su tela; cm 74,7 x 134,7 firmato in basso a destra «Edward I Halliday 1930-39» Liss Fine Art

Il quadro fu esposto per la prima volta a Parigi, presso l’American Women Club, nell’aprile 1931 in una collettiva del Groupe de peintres et sculpteurs italiens residenti nella capitale francese. Alla mostra, patrocinata dall’Ambasciatore d’Italia, erano presenti opere di Brunelleschi, Bernardi, Corbellini, de Chirico, Medici del Vascello, de Pisis, Prampolini, Severini, Tozzi. Mucchi, a quella data, risiedeva nel capoluogo transalpino da qualche mese e la produzione di cui disponeva era soprattutto quella giunta da Berlino con una cassa di materiali da atelier, compreso il quadro Maschere, dipinto in Germania all’inizio del 1930. Questo spiega come Mucchi, invitato da Mario Tozzi alla mostra, scelse di presentare sia la produzione recente, caratterizzata da tempere di piccole dimensioni, sia un quadro finito a olio del periodo precedente vissuto in Germania. Sul soggetto dell’opera la memoria di Mucchi è precisa: esso rappresenterebbe una tranche de vie di una festa in maschera organizzata nello studio berlinese dello scultore Ernesto De Fiori. In una stanza spoglia appaiono due figure mascherate, una femminile e l’altra maschile in primo piano, mentre sullo sfondo accanto alla porta c’è una scultura su piedistallo, un autoritratto dello scultore, in smoking, cilindro e papillon. L’opera ha sicuramente un nesso con una puntasecca dello stesso anno, intitolata Carnevale; tuttavia, se un riferimento va dato, verosimilmente è da ricercarsi nella passione dell’artista per il teatro contemporaneo e per il rinnovamento che Massimo Bontempelli aveva avviato, in questo campo, in Italia. Non solo il clima bontempelliano del grottesco si evidenzia nelle figure-marionette della scena, ma l’interno “metafisico”, la posizione della figura mascherata maschile, rammentano uno dei cinque bozzetti eseguiti da Mucchi per Nostra Dea, la “commedia storica”, dove si racconta di una donna che non avendo una chiara personalità, ne assume di volta in volta una differente in base all’abito che indossa. Nel 1925 l’artista, dopo aver assistito alla rappresentazione teatrale della pièce, aveva eseguito dei disegni a tema, tra cui uno dedicato al monologo di Vulcano, protagonista maschile della storia e probabilmente antenato della figura virile di Maschere. Del resto Mucchi, avvezzo ai testi bontempelliani, fu chiamato due volte a illustrare le sue novelle per la rivista “Der Querschnitt” nel giugno e nel novembre 1929, mentre una buffoneria di maschere della commedia dell’arte uscì sulla stessa rivista in agosto. 

Paolo Rusconi 

Bibliografia Exposition 1931; Gabriele Mucchi 1983, p. 11, n. 4; Gabriele Mucchi 1999, p. 167, tav. 6; Gabriele Mucchi 2001, pp. 90-91, 114; Koslowski-Kreuzareck-Onken 2006, p. 49; Wegener 2006, p. 98. 


3.12 GABRIELE MUCCHI (TORINO 1899-MILANO 2002) Maschere 1930 olio su tela; cm 72 x 58 firmato e datato in basso a destra «Mucchi 30» Collezione privata

L’opera, originariamente collocata sulla tomba di Riccardo Birolli, padre di Renato, morto nel gennaio 1936, viene successivamente staccata dal monumento e fissata al muro d’una parete della casa milanese del pittore. In casa Birolli la scultura, familiarmente conosciuta come “San Zeno”, in omaggio a Verona, città natale di Riccardo e Renato, era adoperata come una sorta di altare dei lari, contornata dalle fotografie dei cari estinti. L’iconografia si direbbe piuttosto quella di san Giovanni Battista, per gli attributi del bastone sormontato dalla croce, della pelliccia e del gesto che indica colui che si deve seguire, Gesù. Tuttavia tale attribuzione iconografi ca sembra non accordarsi al tema commemorativo e può far pensare a un reimpiego della scultura, vale a dire a un’opera non eseguita appositamente per la tomba Birolli ma scelta tra quelle conservate in studio. Nella produzione attualmente conosciuta della Wiegmann degli anni Trenta, del resto, non mancano opere di soggetto sacro - si era convertita al cattolicesimo nel 1922 - caratterizzate da modi d’impronta primitivista e analogamente impostate a bassorilievo. Un’opzione spiegabile non solo con le frequentazioni del decennio precedente, ma con la condivisione a Parigi e poi a Milano, dal 1931, della vita professionale - e privata - di Gabriele Mucchi. La familiarità e lo stretto confronto con la pittura di Mucchi, vicina a Severini e Garbari, si risolve in opere come ques ta, la cui superficie, apparentemente dura e ruvida, può rappresentare il corrispettivo della tecnica aspra, arcaistica dell’affresco, impiegata dal pittore nei primi anni Trenta. Allo stesso modo, la fisionomia allungata del santo con il profilo retto dal naso camuso è analoga alle fattezze delle figure dipinte da Mucchi presso la casa paterna di Salò, nell’affresco Cristo e l’adultera. A questa sintassi primitivista con frequenti riferimenti all’iconografia cristiana si salda la ricerca tecnica dell’artista tedesca che allora, complici le sperimentali esperienze delle triennali milanesi, prova nuovi procedimenti di lavoro e inconsuete soluzioni materiali. Qui, per esempio, l’anima in terracotta è avvolta in uno strato di cemento e sabbia con la tecnica edilizia del rinzaffo, allo scopo di rendere più ruvida la superficie in vista di un effetto finale di spoglia espressività. 

Paolo Rusconi 

Inedito. 


3.13 JENNY WIEGMANN MUCCHI (BERLINO 1895-1969) San Giovanni Battista (?) anni Trenta terracotta, cemento e sabbia; cm 82 x 14 x 8,5 Zeno Birolli

Nei suoi lavori Ernesto De Fiori affronta esclusivamente i generi del ritratto (soprattutto nella forma del busto) e del nudo femminile e maschile, di solito stante e colto nell’immediatezza di azioni appena accennate. Il fuggitivo sviluppa un nuovo interesse per la restituzione plastica dell’idea di movimento, già manifestato nella Donna che fugge del 1927, la cui posa del braccio destro attorno alla testa viene ripetuta e amplificata attraverso l’impiego di entrambi gli arti superiori in questo bronzo. Il linguaggio pittorico del modellato vibratile della scultura accentua la sensazione di movimento; al tempo stesso rivela la mano, il “segno”, dell’artista e un procedimento operativo legato al lavoro diretto sul modello, che rifugge dalla tipizzazione dei soggetti per rivelare invece pienamente la pratica della posa in atelier, da cui deriva la marcata caratterizzazione individuale delle figure ritratte. Sebbene, infatti, siano riscontrabili riferimenti arcaicizzanti, legati in particolare alla plastica etrusca, nelle sculture di De Fiori prevale sempre l’aderenza a particolari che rivelino l’“attualità” dei personaggi; un’attualità, quella di figure che restano isolate nella sospensione del momento rappresentato, dalla quale si direbbe esclusa la partecipazione emotiva dell’artista. Scultore apprezzatissimo dai colleghi italiani, tedeschi e brasiliani, ma isolato (nel 1914 si trasferisce a Berlino e nel 1936 in Brasile, prima a Rio de Janeiro e poi a San Paolo), De Fiori non figura nelle maggiori esposizioni artistiche italiane ed europee degli anni Trenta e ben presto scompare dall’attenzione della critica, se si escludono le due monografie a lui dedicate nel 1927 e nel 1950, pubblicate da Hoepli, e la retrospettiva organizzata nello stesso 1950 nell’ambito della XXV Biennale di Venezia. Del Fuggitivo si conosce anche una versione in gesso, plasmata da De Fiori dopo il suo arrivo in Brasile nel 1936 (De Fiori 1975, n. XXIII, p. 63).

Silvia Vacca 
Bibliografia De Fiori 1935; De Fiori 1975; De Fiori 1992, p. 210, n. 78. 


3.14 ERNESTO DE FIORI (ROMA 1884-SAN PAOLO DEL BRASILE 1945) Il fuggitivo [Fliehender] 1934 bronzo; cm 104 x 30 x 52 Berlino, Staatliche Museen zu Berlin, Nationalgalerie, inv. B I 656

ANNI '30
ANNI '30
Arti in Italia oltre il fascismo
Nell'Italia degli anni Trenta, durante il fascismo, si combatte una battaglia artistica di grande vivacità, che vede schierati tutti gli stili e tutte le tendenze, dal classicismo al futurismo, dall'espressionismo all'astrattismo, dall'arte monumentale alla pittura da salotto. La scena era arricchita e complicata dall'emergere del design e della comunicazione di massa - i manifesti, la radio, il cinema - che dalle ''belle arti'' raccolgono una quantità di idee e immagini trasmettendole al grande pubblico. Un laboratorio complicato e vitale, aperto alla scena internazionale, introduttivo alla nostra modernità. Un'epoca che ha profondamente cambiato la storia italiana. Gli anni Trenta sono anche il periodo culminante di una modernizzazione che segna una svolta negli stili di vita, con l'affermazione di un'idea ancora attuale di uomo moderno, dinamico, al passo coi tempi e si definisce quella che potremmo chiamare ''la via italiana alla modernità'': nell'architettura, nel design, così come in pittura e in scultura, che si esprime attraverso la rimeditazione degli stimoli provenienti dal contesto europeo - francese e tedesco, ma anche scandinavo e russo -, combinata con l'ascolto e la riproposta di una tradizione - quella italiana del Trecento e Quattrocento. Pubblicazione in occasione della mostra: ''Anni Trenta. Arti in Italia oltre il fascismo'' (Firenze, Palazzo Strozzi, 22 settembre 2012 - 27 gennaio 2013). La mostra rappresenta quel decennio attraverso i capolavori (99 dipinti, 17 sculture, 20 oggetti di design) di oltre quaranta dei più importanti artisti dell'epoca quali Mario Sironi, Giorgio de Chirico, Alberto Savinio, Achille Funi, Carlo Carrà, Corrado Cagli, Arturo Nathan, Achille Lega, Ottone Rosai, Ardengo Soffici, Giorgio Morandi, Ram, Thayaht, Antonio Donghi, Marino Marini, Renato Guttuso, Carlo Levi, Filippo de Pisis, Scipione, Antonio Maraini, Lucio Fontana. Raccontando un periodo cruciale che segnò, negli anni del regime fascista, una situazione artistica di estrema creatività.