giovani e "irrealisti"

ugo Ojetti solleva la questione dei giovani e le arti in un articolo sul “Corriere della Sera” del 15 ottobre 1933 rivolto a Maraini, organizzatore della Prima mostra interregionale dei sindacati, tenutasi a Firenze in primavera. «Raramente - denuncia il critico fiorentino - si sono veduti tanti quadri e sculture lontane […] dalla bellezza, dal vigore e dalla salute; e, ahimè, le più erano opere di giovani […] cerebrali e disumane […] raccolte in un padiglione separato, come in tempo d’epidemia». Con una metafora sanitaria, Ojetti si riferisce alla presenza di sculture e dipinti radicalmente lontani dalle forme più tradizionali e novecentiste: dall’Uomo nero di Fontana alla Ragazza di Bagheria di Guttuso. Considerate acerbe e urtanti nei colori, sommarie e improvvisate nell’impostazione, opere del genere alimentano, tuttavia, la convinzione critica della coraggiosa autenticità dell’esperienza artistica della “nuova generazione”.
L’esposizione è anche l’occasione per assestare e rinsaldare una rete di relazioni tra i diversi gruppi di “giovani e giovanissimi”, già avviata nei centri di Milano e Roma. Protagoniste di questo asse Milano-Roma, negli anni 1932-1933, sono la Galleria del Milione dei fratelli Ghiringhelli e la Galleria d’arte di Roma guidata da Pietro Maria Bardi e finanziata dal Duce, secondo un modello in linea con un orientamento più generale teso ad avviare politiche di sostegno, promozione e divulgazione dell’arte contemporanea nazionale.
La Galleria del Milione, seguendo un programma di superamento del policentrismo dell’arte italiana, in una prospettiva “giovane” di unificazione, organizza nel 1932 la mostra di un gruppo di “giovanissimi” attivi a 132 Milano - con i suoi ventisette anni Birolli è il più vecchio - con la partecipazione anche del romano Cagli. A seguire, arrivano gli altri romani Capogrossi e Cavalli e il friulano Afro Basaldella, quindi i siciliani Barbera, Franchina e Pasqualino Noto, condotti da Guttuso, pure attivi tra Milano e Roma. Nella galleria milanese trova altresì ampio spazio la componente “irrealista” delle ultime generazioni, astrattista secondo la terminologia critica attuale: da Prampolini a Licini, da Radice a Melotti. Quanto alla Galleria d’arte di Roma, nello stesso 1932 vi si inaugura un’esposizione-incontro tra cinque pittori romani (Cagli, Cavalli, Capogrossi, Paladini, Pirandello) e cinque milanesi (Birolli, Bogliardi, Ghiringhelli, Soldati, Sassu).
L’anno dopo, ulteriori occasioni e luoghi d’incontro per pittori e scultori delle ultime leve sono la Triennale milanese e la redazione della rivista “Quadrante”. Né dev’essere dimenticato il ruolo delle riviste d’avanguardia e dei G.U.F. (Gruppi Universitari Fascisti) per la circolazione di idee e opere dei giovani. All’inizio degli anni Trenta, “Fronte” di Mazzacurati e “Belvedere” di Bardi diffondono un repertorio di immagini nuove della pittura italiana contemporanea, a partire dai lavori di Scipione e Mafai; intanto, “Il ventuno” pubblica i testi di Birolli su temi generazionali e di sintassi pittorica, mentre Cagli, dalle pagine di “Quadrante”, riveste le proposte artistiche di tanti suoi coetanei di un signifi cato mitico, originario e primordiale.
Nel 1935, la partecipazione dei giovani alla seconda Quadriennale fa emergere sul piano nazionale i romani Cavalli, Capogrossi, Mafai, Pirandello e Ziveri; nel contempo, il critico Dario Sabatello organizza al Los Angeles Museum e a San Francisco un’esposizione di pittura moderna italiana con una trentina di espositori, in maggioranza giovanissimi: è il lancio internazionale della pittura più aggiornata delle ultime generazioni.
Poco più tardi, il poeta Libero de Libero, insieme a Cagli, va a dirigere, a Roma, la Galleria della Cometa tendente, ancora una volta, a unificare le forze emergenti dell’arte contemporanea italiana. Si è ormai creato, a livello nazionale, un drappello di critici - Alessandro Bini, Beniamino Joppolo, Raffaele De Grada, Giuseppe Marchiori, Antonello Trombadori - che condivide idee e propositi degli artisti coetanei, impegnandosi in una serie d’iniziative editoriali diversificate ma unite nel sostegno “milita nte” della nuova produzione. 


I Dioscuri sono i gemelli Castore e Polluce, secondo il mito - è immaginabile che Sassu attingesse a una fonte come la Mitologia classica illustrata di Felice Ramorino, pubblicata per la prima volta nel 1897 - nati dall’unione di Leda con Zeus in forma di cigno: guerriero e domatore di cavalli il primo, pugilatore il secondo, partecipano anche alla spedizione degli Argonauti. Tali loro inclinazioni - in questo dipinto non esplicitate - riflettono il doppio registro della pittura di quel Sassu, che nel connubio metastorico di uomo e cavallo e nel tema di epici combattimenti di cavalieri antichi si proietta nell’immaginazione di tempi perduti, mentre si ancora alla contemporaneità, e ai suoi miti, quando raffigura i boxeur (e i ciclisti), spostando in una figurazione programmaticamente “candida” fisicità e “dinamismi” di ricordo ancora futurista. Insieme ai cacciatori di nidi, ai giocatori di dadi e ai musicanti, gli Argonauti e i Dioscuri danno luogo alla serie di dipinti nota come degli “uomini rossi”, principale e più conosciuto soggetto di Aligi Sassu nei primi anni Trenta. In questa versione del tema, i pochi elementi che suggeriscono una minima localizzazione reale - una ringhiera, un vaso di fiori - non riescono a dissolvere la dimensione mitica della scena che, in generale, condivide quell’aspirazione al ”primordio” già diffusa fra tanti artisti intorno al 1930 e, in particolare, fa pensare ad altre invenzioni di spazi mentali e figure leggendarie: in primo luogo al perduto Uomo nero di Lucio Fontana scultore, che ancora in sintonia con Sassu si misura - per esempio nella tavoletta di cemento graffita e colorata del milanese Museo del Novecento - con l’idea di mitici e primitivi cavalieri. Come tutti gli “uomini rossi”, anche questi Dioscuri sono interpretabili in chiave antinovecentista: per il soggetto sfuggente, ambiguo, non catalogabile entro le consolidate categorie artistiche allora dominanti, e per la maniera pittorica, maleducatamente elementare.
Antonello Negri

Bibliografia
Carrieri 1971, n. 261; Barletta 1983, n. 45; Aligi Sassu 1983, n. 19; Aligi Sassu 1984, n. 1.21; Corrente 1985, n. 6; Sassu 1985, n. 261; Aligi Sassu 1987, n. 17; Immagini e figure 1988, n. 54; Sassu. Obras 1988, p. 20 / p. 49; Aligi Sassu 1993, n. 6; Aligi Sassu 1994, n. 4; Sassu 1995, p. 23; Negri 1995, n. 75; Arte per immagini 2004, p. 33; Negri-Pirovano 2011, p. 85, n. 1931. 


2.01 ALIGI SASSU (MILANO 1912-POLLENÇA 2000) I Dioscuri 1931 olio su tela; cm 100 x 80 firmato e datato in basso a destra «31 / SASSU» Chieti, Museo Barbella, Collezione Alfredo e Teresita Paglione

Il 18 agosto 1934, il quotidiano milanese “L’Ambrosiano” pubblicava un celebrato testo di Carlo Carrà, Il segreto professionale, accompagnato dalla riproduzione dell’opera di Birolli I giocatori di polo, quasi a saldare l’esperienza della generazione precedente con quella dei «pittori estremisti della giovane scuola lombarda» (Bonardi 1933). L’opera, dopo la pubblicazione, fu considerata la meglio riuscita del Birolli dei primi anni Trenta per il «raggiunto equilibrio estetico» (Bonardi 1935). Il quadro si caratterizzava per un formato imponente, per la ricerca di una «correlazione di ritmi nel moto» (Marchiori 1935b, p. 20) e di riferimenti alla Battaglia di San Romano di Paolo Uccello. Questa nuova maniera di Birolli era debitrice, probabilmente, del fitto scambio di relazioni con l’ambiente romano di Corrado Cagli, presenza assidua a Milano in quel 1933, presso la Galleria del Milione, la Triennale e la redazione della rivista “Quadrante”. La proposta di questo nuovo sodalizio era di creare un’asse Milano-Roma per superare il policentrismo dell’arte italiana e il “novecentismo”. Tuttavia il quadro, al richiamo delle sirene “primordiali”, arcaiche e misteriche di Cagli, opponeva un progetto di creazione “fantastico e poetico”, “fiabesco”, saldamente ancorato a un complesso profilo di riferimenti personali, letterari e anche di cronaca contemporanea. Il ritrovamento di una lettera scritta dall’amico veronese Lorenzo Lorenzini del 29 ottobre 1933 (Archivio Birolli, Gabinetto G.P. Vieusseux di Firenze) fornisce l’indicazione di un terminus ante quem per la datazione. Lorenzini ricorda l’opportunità di vedere nello studio di piazza Susa il «tuo ultimo quadro dei giocatori di polo (o di Hockey)». Se poi fosse ipotizzabile identificare la fonte del soggetto - una scena sportiva inconsueta per la società e l’arte italiana - in una fotografia pubblicata il 21 agosto del 1933 in “L’Ambrosiano”, dove Birolli lavorava come correttore di bozze, avremmo anche un terminus post quem. Lo scatto, che riprendeva «una fase di gioco animatissima sui campi di polo», rammenta l’interesse del pittore per istantanee di cronaca o riproduzioni di opere d’arte, collezionate nello studio e impiegate, talvolta, come suggerimenti per la pittura.
Paolo Rusconi

Bibliografia
Marchiori 1935b, pp. 19-20; Podestà 1938; Bini 1941, pp. 22-23, 81; Biennale 1952, p. 158, n. 3; Marchiori 1963, p. 56, n. 7; De Luca 1989, pp. 53, 142, n. 15. 


2.02 RENATO BIROLLI (VERONA 1905-MILANO 1959) I giocatori di polo 1933 olio su tela; cm 142 x 13 2 firmato e datato in basso a sinistra «R. Birolli 933» Roma, GNAM - Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, inv. 8877

Il Nuotatore (figura seduta, come una serie di altre inaugurata dall’Ersilia nel 1931) rivela l’influenza antiaccademica esercitata sull’opera di Marino, in quel periodo, dagli esempi di Ernesto De Fiori e Arturo Martini, ma anche la tendenza a guardare a modelli desunti dall’arte etrusca, egizia e soprattutto romana. In particolare, quest’ultima lo porta a elevare i suoi soggetti alla potenza del tipo, partendo proprio dall’accentuazione dei caratteri individuali. Lo scultore taglia le forme plebee del giovane magro e pensieroso in maniera netta, semplificata, generalizzando l’espressione ma rimanendo aderente al vero, in un insieme monumentale risolto per grandi blocchi. Nella sua concretezza, la figura mantiene una certa sospensione, accentuata dal rigore geometrico e dalle vibrazioni luminose rese possibili dal materiale, sulle quali Marino si direbbe indulgere. Il legno, utilizzato anche per altre sculture dell’inizio degli anni Trenta come il Torso di pugile (1934) e l’Icaro (1933), risulta una scelta programmaticamente forte, che impone una modellazione semplice ed essenziale ma permette di ottenere trapassi sottilissimi che attirano espressivamente la luce sulla forma, pur senza indulgere in virtuosismi. Nello stesso tempo, il materiale si delinea come antiaccademico per eccellenza, povero, adatto a fissare i particolari della spoglia semplicità delle figure in una prosa calma e chiara.
Silvia Vacca

Bibliografia
Fierens 1936, tav. 29; Vitali 1937, tav. XIII; De Pisis 1941, tavv. 49-50; di San Lazzaro 1970, pp. 26-27, n. 25 e 35; Pirovano 1972, figg. 11-12; Pirovano 1990, p. 51; Marino Marini 1998, p.59, n. 79. 


2.03 MARINO MARINI (PISTOIA 1901-VIAREGGIO 1980) Il nuotatore 1932 legno scolpito e intagliato; cm 113,5 x 43,2 x 50 Firenze, Museo Marino Marini

Tornato a Milano dall’Argentina nel 1927, intorno al 1930 Fontana elabora un primitivismo plastico e materico che, ricorrendo agli allora recenti modelli di sintassi postcubista - Zadkine, Archipenko - si distacca sia dalla lezione wildtiana, sia dalla monumentalità neoquattrocentesca di gusto novecentista. Dopo il dirompente Uomo nero, in gesso ricoperto di catrame, definito da Edoardo Persico «il primo segno della liberazione» (Persico 1936a, p.n.n.), col Campione olimpico, ritratto del fiorettista abruzzese Ciro Verratti - «un “superman”, una specie di mostro fisico», avrebbe scritto Dino Buzzati nel necrologio del 1971 - Fontana abbandona gli accenti più fortemente espressionisti e, procedendo in parallelo con i primi esperimenti astratti, lavora a una scultura pittoricista che, anche sull’onda della frequentazione di Persico, privilegia il modellato sulla costruzione e predilige soluzioni policrome. Nei ritratti eseguiti tra 1931 e 1932, dal gesso dipinto d’azzurro del Campione olimpico all’oro della Signorina seduta, il colore è usato in funzione antinaturalistica e, come annota Persico nella prima monografia su Fontana, «la vivacità dell’espressione è fermata soltanto dalla programmaticità della colorazione: nero e argento, nero e oro» (Persico 1936a, p.n.n.). Esposto alla III Sindacale Lombarda nel febbraio-marzo 1932 e poi inviato a rappresentare la produzione recente di Fontana a una rassegna importante come la II Quadriennale romana, il Campione olimpico svolge un tema, quello dell’atleta a riposo, che aveva interessato l’artista fin dagli esordi, e che negli stessi anni trova realizzazione anche nell’Atleta in attesa o Discobolo. Rimasta per molti anni nella collezione di Ciro Verratti, l’opera è giunta all’attuale collocazione dopo essere stata battuta all’asta nel 2003. Ne esistono tre versioni in bronzo non autografe e non autorizzate, fatte eseguire dallo stesso Verratti, una per ognuno dei suoi tre figli.

Mariella Milan
Bibliografia Carrà 1932; Sindacale Lombarda 1932, pp. 51, 52, n. 207; Quadriennale 1935, p. 52, n. 27; Persico 1936a; Zocchi 1946, fig. 5; Buzzati 1971; Crispolti 2004, pp. 409-411; Carriera “barocca” di Fontana 2004, pp. 379381; Milano Anni Trenta 2004, p. 294; Crispolti 2006, I, tav. V, 32 SC 8, p. 149. 


Pirovano 1972, figg. 11-12; Pirovano 1990, p. 51; Marino Marini 1998, p.59, n. 79. 2.04 LUCIO FONTANA (ROSARIO DE SANTA FÉ 1899-VARESE 1968) Campione olimpico (Atleta in attesa) 1932 gesso colorato; cm 121 x 92 x 70 firma sul retro, incisa «L. Fontana» Bologna, Collezioni d’arte e di storia della Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna

L’opera entra nelle collezioni civiche romane nel 1935 quando, esposta alla II Quadriennale d’Arte Nazionale, viene acquistata dal Governatorato romano. La grande tela segna il momento di maggior avvicinamento di Gentilini alla poetica espressa dalla pittura di Corrado Cagli, esponente di quel versante della Scuola romana che guarda al mito come fonte d’ispirazione, in un fare pittorico costruito attraverso calibrati e scanditi rapporti tonali. Giunto a Roma nel 1929, dopo il soggiorno parigino, Gentilini è diviso fra l’influenza esercitata dai lavori di Cagli, Cavalli e Capogrossi e le suggestioni espressionistiche e visionarie della pittura di Scipione, di Mafai e della Raphaël. Tuttavia, Giovani in riva al mare è soprattutto improntato a un arcaismo dai toni chiarissimi che viene dalla formazione faentina dell’artista sulle riproduzioni delle opere di Giotto, Paolo Uccello e Piero della Francesca (i nudi del Battesimo di Cristo), alla cui misura la composizione si ispira anche per la vocazione architettonica. Prospettiva, luce, geometria e senso dello spazio permeano il dipinto che, come lo stesso Gentilini ricorda nel 1984, a proposito della propria pittura del tempo (Giacomozzi 1984), irrigidisce, secondo una maniera chiara e naturale (alla quale si sostituiranno a partire dagli anni ’40 modi altrettanto “scuri”), i nudi, togliendo loro l’emozione perché diventino “simboli”, “allegorie”, simili alle figurazioni dei frontoni delle cattedrali romaniche, al di fuori dello scorrere del tempo e distaccate dalla fragilità dei sentimenti umani.
Silvia Vacca

Bibliografia
Quadriennale 1935, n. 13, tav. LII; Arte moderna in Italia 1967, p. 379, fi g. 1863; Gentilini 1985; Jouffroy 1987, p. 52, tav. 6; Gentilini 1991, p. 61, n. 5, tav. 5; Appella 2000, p. 152-153, n. 115, tav. XVIII; Gentilini 2009, p. 62, n. 10. 


2.05 FRANCO GENTILINI (FAENZA 1909-ROMA 1981) Giovani in riva al mare 1934 tempera su tela; cm 162 x 130 Roma, Galleria d’Arte Moderna di Roma Capitale, inv. AM 1042

Grande sperimentatore, che sin dagli esordi unisce alla pittura da cavalletto ceramica, arti applicate e pittura murale, nel 1935 Cagli ottiene una sala personale alla II Quadriennale romana, cui partecipa con quattro pannelli murali e un cospicuo numero di opere, tra cui I neofiti, esposto per la prima volta. Nella tavola, una delle più note e rappresentative del periodo “romano”, le anatomie sono antinaturalistiche ed espressionisticamente allungate sullo sfondo di un paesaggio sommario e atemporale. L’antica tecnica della tempera encaustica, veloce e compendiaria - la pittura pompeiana era allora al centro dell’acceso dibattito sulla riscoperta del mestiere - offre qui un saggio delle tonalità calcinate e della dominante «citrina» (Melli 1936) che l’artista aveva applicato, l’anno precedente, ai Preludi della guerra, la grande pittura murale realizzata per il vestibolo del nuovo Palazzo dell’Arte in occasione della V Triennale milanese. Se all’epoca aveva scritto su “Quadrante” delle «aspirazioni all’arte murale, all’affresco» della pittura contemporanea, nell’autopresentazione nel catalogo della Quadriennale Cagli indica come obiettivo la «creazione di nuovi miti», esprimendo una cultura del primordio legata alla vicinanza ai due direttori di “Quadrante”, Bontempelli e Bardi, il quale ultimo aveva allestito nel 1932 la sua prima personale alla Galleria di Roma e nel 1933 la mostra Cagli, Capogrossi, Cavalli al Milione di Milano. La ripresa dell’antico si traduce, oltre che in composizioni di misura rinascimentale, nella riproposizione di figure e posture ripescate dal Quattrocento italiano, come il personaggio a sinistra nei Neofiti, citazione testuale del Battesimo di Piero della Francesca (Fagiolo dell’Arco 1991), la cui opera, dopo la celebre monografia di Longhi del 1927, era diventata per molti artisti un gran serbatoio d’immagini. Il titolo di sapore esoterico e rituale, allusivo a un’umanità primigenia, era già stato usato l’anno prima, nel più scopertamente erotico Il neofita.

Mariella Milan
Bibliografia Quadriennale 1935, sala VI, n. 18, tav. XCI; Crispolti-Marchiori 1964, p. 99; Omaggio a Cagli 1977; Cagli 1982, p. 84, n. 11; Fagiolo dell’Arco 1986, p. 59; Fagiolo dell’Arco 1991, p. 48; Piero della Francesca e il Novecento 1991, pp. 180-181; Cagli 2006, p. 97, n. 11. 


2.06 CORRADO CAGLI (ANCONA 1910-ROMA 1976) I neofi ti 1934 tempera encaustica su tavola; cm 61 x 61 firmato in basso a destra «Cagli» Roma, collezione privata

Macerata, Fondazione Carima - Museo Palazzo Ricci Prima dell’attuale collocazione, l’opera transita nella raccolta della Lanterna a Genova (1939), da Carlo Cardazzo a Venezia (1941) e Mimì Pecci Blunt a Roma (1954). Se ne conosce anche il disegno preparatorio (Fagiolo dell’Arco-Rivosecchi 1988, n. 112) pressoché identico alla versione definitiva a olio negli elementi costitutivi e importante per comprendere le ricerche formali messe in atto dall’artista. La piovra fa parte di una serie di nature morte dipinte a Roma dopo l’estate del 1929, trascorsa a Collepardo: è un momento dell’attività artistica di Scipione particolarmente felice, poiché la malattia polmonare che lo affligge (e lo porterà alla morte nel sanatorio di Arco nel 1933) sembra recedere, permettendogli di lavorare intensamente. In tutte queste opere egli mantiene non solo lo stesso soggetto - un tavolo dove sono collocati diversi oggetti, alcuni dei quali (come pettini e piume) specialmente legati al mondo femminile - ma anche la stessa impaginazione dell’immagine, vista dall’alto, e lo stesso piano compositivo. Nella Piovra, in particolare, tutti gli elementi presenti concorrono a creare un’ambigua rete di analogie che tende a sottolinearne le componenti simboliche: l’occhio dell’animale - i cui colori costituiscono l’unica variazione cromatica, che accende di toni acidi l’immagine - corrisponde esattamente a quelli della donna nella fotografia, cartolina di un’amante occasionale; mentre l’intreccio delle due anguille sembra rimandare all’idea del rapporto consumato fra l’uomo e la donna. Nell’u so del colore si avverte la «costante barocca» dell’opera di Scipione (Marchiori 1939, p. 15), caratterizzata da una pittura fluida e nervosa che si risolve nella scelta tonale del rosso e del nero, con risultati sontuosi. D’altra parte, la maniera del suo dipingere rimanda al clima dell’espressionismo europeo, senza tuttavia implicare riferimenti diretti ad artisti precisamente determinabili.
Silvia Vacca

Bibliografia
Scipione e Mafai 1930; Marchiori 1939, tav. IV; Collezione Cardazzo 1941, n. 62; Mostra delle Collezioni d’arte contemporanea 1941; Dell’Acqua 1941, p. 7; Scipione 1941, n. 6; Trombadori 1941; Scipione 1945, n. IV; Arte moderna italiana 1948; Pittura italiana contemporanea 1949, n. 2; Scipione 1950; Scipione 1954, n. 14, fig. 2; Arte moderna in Italia 1967, p. 424, fig. 2089; Scipione 1985, n. 11; Fagiolo dell’Arco-Rivosecchi 1988, tav. IV; Scipione 2007, p. 39, n. 8. 


2.07 SCIPIONE (GINO BONICHI; MACERATA 1904-ARCO 1933) La piovra (I molluschi; Pierina è arrivata in una grande città) 1929 olio su tavola; cm 60 x 71 Macerata, Fondazione Carima - Museo Palazzo Ricci

Esposto per la prima volta nel 1936 alla XX Biennale di Venezia, è un dipinto emblematico della produzione di Guttuso degli anni Trenta. Dallo sfondo scuro, caratterizzato da una pennellata mossa e avvolgente, emerge la figura del chirurgo palermitano Guglielmo Pasqualino, marito della pittrice Lia Noto con la quale (e con gli scultori Giovanni Barbera e Nino Franchina) Guttuso aveva fondato il Gruppo dei Quattro. La figura del medico sembra fondersi, in un vortice, con lo spazio circostante. Il carattere serpentinato, che caratterizza molti dipinti di Guttuso dello stesso periodo, prevale nettamente «in un continuo spezzato che accelera ansiosamente la ritmica complessiva, che indiavola ogni figura, quasi rispondesse a un soprassalto di richiamo interiore, a una voce intima che insorga, in quel clima di turbine avvolgente» (Crispolti 1983). La pennellata sinuosa e l’intensità cromatica, determinata da contrasti netti fra colori più cupi e colori brillanti, costruiscono la volumetria interna dell’opera. Ormai del tutto padrone del proprio linguaggio, Guttuso intavola qui una muta conversazione con l’amico medico, il cui ruolo è dichiarato dal camice che indossa. L’indumento, dai toni cromatici chiari e luminosi, sembra parte integrante della figura stessa: ne escono, come per magia, mani tese e nervose che, muovendosi su diversi piani prospettici, conferiscono alla composizione la sua profondità spaziale. Una maschera dall’enigmatico sorriso appare, come librata in aria, sopra la spalla sinistra del medico: allusione a uno strumento del mestiere - la mascherina operatoria - ma anche a uno specifico modello pittorico, quello dell’espressionismo di Ensor, nella cui pittura l’iconografi a della maschera è ricorrente. L’opera, «di evidente, e tributario, dialogo leviano» (Crispolti 2001, p. 19), rivela altresì tutta l’attenzione del pittore siciliano nei confronti dei romani Cagli e Mafai.
Valentina Raimondo

Bibliografia
Biennale 1936, p. 87, n. 23; Rizzo 1937; Morosini, 1960, p. 3; Moravia-Grasso, 1962, p. 37; Guttuso 1971, n. 20; Crispolti 1983, pp. CIX, 35; Frazzetto 1988, p. 134, tav. 72; Arte in Sicilia 1996, p. 125, n. 62; Zumbo 1999a, p. 123; Renato Guttuso 2001, p. 136. 


2.08 RENATO GUTTUSO (BAGHERIA 1911-ROMA 1987) Ritratto del chirurgo Guglielmo Pasqualino 1935 olio su compensato; cm 98 x 66 firmato e datato in basso a destra «Guttuso 35» Palermo, collezione privata

Dopo il grande successo della sala personale alla II Quadriennale romana, che frutta all’artista il terzo premio di 10.000 lire, la pittura di Pirandello entra nel vivo del dibattito artistico nazionale. In una produzione giocata su una monumentalità primitiva e anticlassica, sulla contaminazione di realtà e sogno, tra un realismo allucinato, denso di arcani simbolismi, e stesure “ad alta pasta” di estrema fisicità, la natura morta è presente in tutto l’arco creativo dell’artista e nel dopoguerra diventerà il principale campo d’applicazione delle sue nuove ricerche neocubiste. Se la scelta dei soggetti esprime subito uno sguardo puntato su una prosaica quotidianità, dai primi anni Trenta Pirandello - che comincia a interessarsi al genere durante il soggiorno parigino sotto l’influenza di Picasso, Braque, Gris e degli Italiens de Paris, mutuando da metafisica e surrealismo la poetica degli accostamenti incongrui - sostituisce all’espressione “natura morta” il titolo ricorrente Oggetti, dalla più marcata valenza esistenziale. Cose povere, frammenti di interni improbabili affastellati senza una logica apparente - se non quella tonale, puramente pittorica - sono tradotti in un linguaggio tendente al monocromo, con una tavolozza composta prevalentemente di terre e ocra. Esposta per la prima volta nel 1938 alla VIII Sindacale del Lazio e lì acquistata dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, l’opera in mostra ben rappresenta quelle che Benso Becca, introducendo nel 1944 la personale di Pirandello alla Galleria del Secolo di Roma, definisce «nature morte di oggetti occasionali [...] tornati al caos di cose: forse gli scarti del mondo» (Becca 1944). Sul piano diagonale si riconoscono alcuni oggetti ricorrenti in quegli anni, dal sonaglino - il 18 gennaio 1937 era nato il secondogenito Antonio - alla scatola vuota di cioccolatini e al parallelepipedo a sagome irregolari, che compare in più composizioni a partire dalla Natura morta con scatola di fiammiferi del 1935.
Mariella Milan

Bibliografia
Pensabene 1938; Sindacale Lazio 1938; Saini 1939, p. 13; Pirandello 1976; Gli anni Trenta 1982, p. 118, fig. 3; L’Italia quotidiana 2006; Gian Ferrari 2009, p. 117, n. 146. 


2.09 FAUSTO PIRANDELLO (ROMA 1899-1975) Oggetti 1937 olio su tavola; cm 50 x 75 firmato in basso a destra «Pirandello» Roma, GNAM - Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, inv. 3571

Nel gennaio 1937 Mafai espone, in una personale alla Galleria della Cometa di Roma, le serie dei Fiori secchi e delle Demolizioni. Consistente in una decina di opere, il gruppo delle Demolizioni, cui Mafai lavora dal 1936, è ispirato dagli sventramenti urbanistici avviati in quel periodo dal regime fascista nella zona dell’Augusteo, nella “spina” dei Borghi - l’isolato compreso tra il Tevere e piazza San Pietro, abbattuto per aprire via della Conciliazione - e intorno al Colosseo, durante i lavori per la creazione di via dei Fori Imperiali, quando anche la vecchia casa dell’artista, nell’attuale largo Corrado Ricci, viene distrutta. Emilio Cecchi, che lo presenta alla Cometa, introduce i nuovi quadri come l’apice del suo percorso espressionista. Dopo una fase più intimista, concentrata sui meccanismi interni alla pittura, Mafai punta nuovamente lo sguardo su Roma e recupera una tavolozza più accesa, piegata, nelle Demolizioni - «dove i muri pendenti come stracci sono a condanna d’un mondo che andrà a fuoco e rovina» (De Libero 1949, p. 19) - a esprimere allarme e denuncia, come avverrà con i corpi straziati delle Fantasie dipinte nei primi anni Quaranta. Per Brandi «erano le rovine di Mafai, non i nobili acquedotti o i gruppi di sulfuree colonne, ma povere stanzucce borghesi sviscerate nella carta di Francia a brandelli, nelle fumate a cono dei camini; erano cellule infrante, ma ancora calde d’abitato, così da parere una delicatezza sbirciarle, così sventrate, dal di fuori» (Brandi 1939b). Esposta insieme ad altre due versioni omonime alla personale veneziana dell’agosto 1939, allestita alla Galleria dell’Arcobaleno, nel 1940 la tela viene inviata alla prima personale milanese dell’artista, alla Galleria Barbaroux (Appella 1986, p. 196) e, in base al cartellino sul retro, anche alla XXII Biennale di Venezia, nel cui catalogo non è però elencata. Anche per il suo significato documentario viene poi acquistata nello stesso anno dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna.
Mariella Milan

Bibliografia Mafai 1939; Mafai 1940; Biennale 1940; Mostra del rinnovamento dell’arte 1960; Martinelli 1967, p. 118, n. 58; Fagiolo dell’Arco-Rivosecchi 1986, p. 60; Mafai 1986; La pittura in Italia. Il Novecento/1 1991, tomo I, p. 538, fig. 743; Mafai 2004, p. 77, n. 27.


2.10 MARIO MAFAI (ROMA 1902-1965) Demolizione dei Borghi 1939 olio su tela; cm 49x 62 firmato in basso a sinistra «Mafai 39» Roma, GNAM - Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, inv. 3867

La storia del dipinto, eseguito nel 1935, è tuttora poco conosciuta: non si hanno infatti notizie di mostre alle quali possa essere stato esposto. La tavola appartiene da moltissimi anni alla famiglia dello scultore Nino Franchina, effigiato nell’opera insieme allo stesso Guttuso, in primo piano, e allo scultore Giovanni Barbera, al centro della composizione. Non è escluso che l’opera, di sapore intimistico, sia stata realizzata in seguito alla morte prematura di Barbera, avvenuta proprio nel 1935. I tre amici, che insieme alla pittrice Lia Pasqualino Noto avevano fondato il Gruppo dei Quattro, muovevano i primi passi nel contesto artistico nazionale, collocandosi tra i fautori di una modernizzazione dell’arte italiana in radicale divergenza rispetto a un novecentismo ormai diventato maniera. Le tre figure maschili sono distese su un letto a riposare, dopo una giornata di lavoro; ciascuna è rivolta in direzioni diverse, gli sguardi non s’incrociano, le mani si dispongono e intrecciano variamente. Nonostante pochi elementi lo lascino intuire, i tre amici si trovano nello studio di corso Pisani a Palermo, l’atelier che Barbera e Franchina avevano preso in affitto e dove vivevano un po’ romanticamente secondo i canoni della bohème. Le figure occupano tutto lo spazio del dipinto, protagoniste assolute. Nell’angolo a destra, una porzione di ringhiera del letto copre in parte Guttuso: unico elemento di concretezza in un’atmosfera di sogno, si direbbe quasi voler distinguere il mondo reale, dell’osservatore, da quello un po’ visionario, malinconico e incerto degli artisti. Accolte in pieno le influenze dei pittori della Scuola romana, Guttuso calibra la propria pennellata secondo «un movimento compositivo sempre più avvolgente e inquietante» (Crispolti 1983), sostenuto da tonalità cromatiche cupe ma calde.
Valentina Raimondo

Bibliografia
Pasqualino Noto 1962, p. 74; Crispolti 1983, p. 35; Guttuso 1971, n. 21; Renato Guttuso 2001. 


2.11 RENATO GUTTUSO (BAGHERIA 1911-ROMA 1987) Amici nello studio (Ritratto di Guttuso, Franchina, Barbera nello studio di Corso Pisani a Palermo) 1935 olio su tavola; cm 62 x 77 firmato e datato in basso al centro «Guttuso 35» Collezione privata

Esponente di spicco del movimento di rinnovamento artistico siciliano, Pippo Rizzo vive tra gli anni Venti e i Trenta un momento di grande fervore, prima da futurista, poi come esponente siciliano del Novecento italiano. Quest’opera, realizzata nello stesso anno in cui il pittore viene chiamato a svolgere il ruolo di Segretario del Sindacato Regionale Fascista di Belle Arti di Sicilia, si colloca esattamente nel momento di passaggio dialettico dal futurismo al Novecento. Eseguita nel 1929, nello stesso anno viene esposta a Palermo alla II esposizione promossa dal Sindacato degli Artisti e, a Roma, alla mostra Due futuristi siciliani: Pippo Rizzo e Vittorio Corona, ordinata presso la Camerata degli Artisti. Si tratta del ritratto quasi a piena figura di Guido Cesareo, amico del pittore, che si staglia in atteggiamento spavaldo davanti a un treno, rappresentato - come il personaggio - per sintesi di piani che s’incontrano; pur di matrice dichiaratamente futurista, la maniera si direbbe sfumare nei modi della cartellonistica déco di quegli anni. L’adesione di Rizzo al futurismo era stata mediata, in particolar modo, da Giacomo Balla, conosciuto anni prima a Roma, dalle cui suggestioni deriva ancora, in questo dipinto, la frammentazione geometrica del piano dell’opera. La forte presenza della figura in primo piano, la solidità con cui è costruita, la staticità solenne della posa, tendente al monumentale, preludono agli sviluppi in direzione novecentista della pittura di Rizzo: «un dipinto come “Il nomade” di futurista ha ormai ben poco: rimangono, è vero, le sezionature geometriche, ma ogni elemento di decorazione è scomparso in favore di una monumentalità solenne e bloccata, di una semplificazione ancora più accentuata delle linee portanti della composizione» (Troisi 1989, p. 32).
Valentina Raimondo

Bibliografia
Due futuristi 1929, p. 26; Guttuso 1929; Sindacale siciliana 1929, pp. 45-46, n. 26; Maraini 1929; Pippo Rizzo 1929; “Il Giornale d’Italia” 1929; Mignosi 1936; Il ritratto palermitano 1966; Pippo Rizzo 1975; Frazzetto 1988, pp. 66, 78, 80; Pippo Rizzo 1989, p. 189, n. 21; Troisi 1989, p. 32; Arte in Sicilia 1996, p. 150, n. 83; L’idea del sacro 2000, pp. 19, 30, 58, n. 16; Imbellone 2007a, pp. 390-391, n. XIV. 2.


2.12 PIPPO RIZZO (CORLEONE 1897-PALERMO 1964) Il nomade 1929 olio su tela; cm 161 x 99 firmato e datato in basso a destra «Pippo Rizzo/1929» Palermo, Galleria d’Arte Moderna “Empedocle Restivo”, inv. 1325

Nel 1932, al Teatro Massimo di Palermo, si svolge la III Esposizione del Sindacato Regionale Fascista delle Belle Arti di Sicilia, organizzata dal pittore Pippo Rizzo. L’evento porta l’arte siciliana, per la prima volta dopo tanti anni, all’attenzione nazionale. Per l’occasione, la giovane Lia Pasqualino Noto, considerata all’epoca una delle promesse della pittura regionale, espone una decina di opere, tra cui questa tavola. L’infermiera si colloca nella fase iniziale della carriera della pittrice, durante la quale è principalmente la lezione di Casorati a caratterizzare il suo stile, allora collocabile nel generale contesto di un Novecento italiano ormai nella fase discendente della propria parabola. Il dipinto raffigura una donna, in primo piano, seduta a una scrivania: le mani sono appoggiate su un libro aperto, il capo appena reclinato e lo sguardo perduto in lontananza, rivolto a un punto oltre il dipinto, invisibile all’osservatore. La figura si trova in una stanza dall’arredo spartano, asettico; sullo sfondo s’intuisce la presenza di un altro locale, altrettanto essenziale. I caratteri d’impronta novecentista della composizione - un impianto fortemente architettonico, delineato da contorni netti e nitidi; toni pittorici cromaticamente algidi e tendenti al grigio, suggestivi di una sensazione di distacco e di un’atmosfera d’attesa; la costruzione geometrica del gioco prospettico dei punti di fuga - dimostrano un ormai raggiunto controllo del mestiere. Peraltro, tali elementi stilistico-formali, tipici della pittura della Pasqualino Noto all’inizio degli anni Trenta, cominciano a modifi carsi notevolmente a partire dal 1932, quando fonda insieme a Renato Guttuso, Nino Franchina e Giovanni Barbera il Gruppo dei Quattro: un raggruppamento artistico, ispirato ai Sei di Torino e alla pittura dei ”romani” Cagli, Scipione e Mafai, che fa proprî - e con originalità elabora e svolge - modelli linguistici di netta opposizione alla tradizione novecentista. 
Valentina Raimondo 

Bibliografia
Gurrieri 1932, p. 47; Sindacale siciliana 1932 (esposta con il titolo Ritratto); Di Stefano 1984, p. 19; Pasqualino Noto 1984, pp. 64, 147, n. 6; Segreto 1991, p. 31; Purpura 1999, pp. 120-121; Zumbo 1999b, p. 124; Il Gruppo dei Quattro 1999, p. 50, n. 2; Imbellone 2007b, pp. 398-399, n. XIV.6. 


2.13 LIA PASQUALINO NOTO (PALERMO 1909-1998) L’infermiera 1931 olio su tavola, cm 100 x 65,5 firmato e datato in basso a sinistra «Lia Pasqualino Noto 1931 X» Palermo, Galleria d’Arte Moderna “Empedocle Restivo”, inv. 291

Esposta per la prima volta nel 1935 alla VI Esposizione del Sindacato Regionale Fascista delle Belle Arti di Sicilia presso il Teatro Massimo di Palermo, nel cui catalogo è però un’altra scultura dell’artista a essere riprodotta con il titolo Donna seduta, l’opera fu cominciata probabilmente nel 1934; risulta donata, nel 1936, dal padre dello scultore alla Galleria dove è ancora conservata. È una delle ultime sculture eseguite dall’artista prima della morte, sopraggiunta all’età di ventisei anni. Barbera può essere considerato uno degli scultori più promettenti del contesto artistico siciliano degli anni Trenta. Esponente del Gruppo dei Quattro insieme a Renato Guttuso, Lia Pasqualino Noto e Nino Franchina, connota la sua opera di forti accenti lirici, attraverso un linguaggio che con personalità filtra e interpreta l’influenza di Arturo Martini. Insieme agli altri membri del Gruppo, Barbera espone a Milano nel 1934 nella Galleria del Milione, collocandosi in quell’ambiente culturale e artistico che si oppone al Novecento italiano attraverso la ricerca di un linguaggio più “moderno” e internazionale. La Donna seduta è improntata a un forte gusto per l’arcaismo, di carattere antiretorico e decisamente antimonumentale. La figura di terracotta colorata, con capo reclinato e sguardo fisso, come assorto in meditazione, dimostra una grazia propria, frutto della mediazione fra la ricerca di un linguaggio nuovo e originale, evidente soprattutto nel modellato, e il recupero della tradizione, dichiarato dalla costruzione generale. La tradizione, scrive Barbera, «non sta a ripetere le forme esteriori dell’arte del passato, bensì a trovarne le ragioni spirituali e tecniche che hanno tenuto vive queste forme attraverso i secoli» (Barbera 1933). Il bel panneggio nella parte inferiore della figura - che richiama il “serpentinato” di alcuni coevi dipinti di Guttuso - evidenzia le finezze di un controllo del “mestiere” ormai saldamente posseduto dal giovane artista.
Valentina Raimondo

Bibliografia
Barbera 1933, p. 3; Sindacale siciliana 1935, p. 24, n. 212; Villa 1949, p. 7; Bica 1994, p. 20; Zumbo 1999c, p. 122; Il Gruppo dei Quattro 1999, p. 69, n. 21; Imbellone 2007c, pp. 412-413, n. XIV.16.


2.14 GIOVANNI BARBERA (PALERMO 1909-1935) Donna seduta 1934-1935 terracotta colorata; cm 110 x 96 firmato sul lato destro «Barbera» Palermo, Galleria d’Arte Moderna “Empedocle Restivo”, inv. 39

Collezione privata Dopo una formazione tra lo studio torinese di Pietro Canonica e i corsi di Wildt all’Accademia di Brera, Melotti avvia una proficua collaborazione con Gio Ponti, che lo chiama a realizzare piccole sculture decorative in ceramica e porcellana a stampo per la Richard-Ginori, con il conterraneo Luciano Baldessari e con gli architetti razionalisti Figini e Pollini; per questi ultimi esegue una fontana in ferro nichelato per il Bar Craja, nuovo punto di ritrovo dell’avanguardia milanese. L’amicizia e la stretta collaborazione con un altro architetto, collezionista e frequentatore del Craja, Alfonso Orombelli, è all’origine di diverse opere di soggetto religioso cui l’artista lavora nei primi anni Trenta: sculture, ma anche olî e pastelli dove figurine panneggiate si muovono su ariosi sfondi paesaggistici. Rimeditando le esperienze di “Valori Plastici” e la lezione del primitivismo di Carrà, Melotti - che nel 1932 tiene un corso di Plastica moderna alla Scuola Professionale del Mobile di Cantù da lui fondata, esponendo i saggi finali in una collettiva nella Galleria del Milione nel giugno 1934 - esegue bassorilievi e un fregio in bronzo per la tomba della famiglia Orombelli al cimitero di Cantù, mentre tra 1933 e 1934 realizza, per il nuovo battistero della basilica milanese di San Babila, progettato dallo stesso Orombelli, il grande bassorilievo in bronzo con la Predicazione del Battista, il fonte battesimale e i piedistalli dei candelabri. La Cena in Emmaus va inquadrata in questo contesto, oltre che nell’ambito dei tentativi di rinnovamento dell’arte sacra fra le due guerre. Primitivista nel trattamento grafi co delle superfici, nella resa dei volti, negli arti tubolari, nel precario equilibrio spaziale e nella prospettiva ribaltata della tavola, il gesso viene esposto nel 1933 alla Mostra d’Arte Moderna curata da Bardi al Dopolavoro del Cotonificio Fratelli dell’Acqua di Legnano, mentre una versione in bronzo viene inviata nello stesso anno alla I Sindacale fiorentina.
Mariella Milan

Bibliografia
Celant 1994, tomo I, p. 11, n. 1933 3; Melotti e la scuola di Cantù 1999, p. 48, n. 33 (bronzo). 


2.15 FAUSTO MELOTTI (ROVERETO 1901-MILANO 1986) La cena in Emmaus 1933 gesso; cm 92 x 65 x 28 iscrizione sullo zoccolo: «RESTA SIGNORE CON NOI PERCHÉ SI FA SERA E IL GIORNO DECLINA» Collezione privata

L’opera Josephine Baker viene esposta per la prima volta a Varese nel 1929 in occasione della mostra del gruppo Radiofuturista Lombardo, fondato nel 1928 dallo stesso Gambini insieme a Munari, Andreoni, Merli, Duse e Strada. Più volte presentato in esposizioni successive, il dipinto è realizzato con la tecnica dell’aerografo, sperimentata da Gambini in ambito grafico e poi utilizzata ampiamente nelle sue aeropitture per gli effetti di velatura e leggerezza permessi dalla diffusione a spruzzo della tempera sul supporto. Del soggetto dell’opera è nota una variante eseguita a olio su tela, che elimina completamente l’ambientazione di sfondo, pur presentando pressoché identico il motivo centrale della danza. Nella realizzazione, l’autore sembra essersi ispirato a diverse fonti visive: inserisce infatti gli stessi motivi rosati delle piume, presenti nell’affi che della Baker per le Folies Bergères di Michel Gyarmathy del 1927, ma include, stilizzato, il costume di banane disegnato appositamente per la ballerina da Paul Seltenhammer e riprodotto in numerose foto d’epoca e nelle litografie di Paul Colin. Gambini coglie la Baker nella gestualità scatenata del charleston della sua famosa Danse sauvage, introducendo nella composizione - sulla sinistra - anche il partner di lei, Joe Alex. Quanto allo sfondo di questa versione realizzata ad aerografo, vi si trovano riecheggiate sagome di edifici e onde che si diffondono nell’atmosfera, come nelle scene della Revue nègre alle Folies Bergère fotografate da Lucien Walery; qui sono però scomposte in dinamici fasci di luce che, unitamente alla stilizzazione delle forme e dei volumi, caratterizzano il soggetto - ricco di fascinazione sia in ambito déco, che in ambito futurista - per la lettura stilisticamente aggiornata.
Silvia Vacca

Bibliografia
Mostra d’arte futurista 1929, n. 1; Trentatre futuristi 1929; Artisti bustesi 1930; Biennale 1930 (fuori catalogo); Scudiero 1991, p. 9; Arte a Busto Arsizio 1995, p. 147; NAF. Cataloghi 2010. 


2.16 IVANHOE GAMBINI (BUSTO ARSIZIO 1904-1992) Josephine Baker 1929 tempera a spruzzo con aerografo su carta; cm 62,5 x 48 Eredi Gambini

Protagonista dell’astrattismo lombardo degli anni Trenta e dell’intensa collaborazione tra pittori e architetti che caratterizza in quegli anni la scena artistica comasca, Radice si dedica professionalmente alla pittura dopo il rientro a Como da Buenos Aires nel 1930, abbandonando l’impiego nel settore della fabbricazione cartaria. Tra i fondatori della rivista “Quadrante”, l’artista non abbandona mai completamente la fi gurazione, coltivata secondo modi inizialmente novecentisti in parallelo alla produzione astratto-geometrica, nel cui ambito porta avanti una ricerca sempre più svincolata dal rigore dell’architettura razionalista e della lezione neoplastica. Sperimentando una pluralità di registri e di strutturazioni spaziali, in un continuo dialogo tra griglia ortogonale e tagli in diagonale che mostra tangenze con le ricerche di Friedrich Vordemberge-Gildewart, visto alla Galleria del Milione nell’ottobre 1934 (Caramel 2002), Radice, che nel febbraio 1936 riceve l’incarico di eseguire le pitture murali per la Casa del Fascio di Como progettata da Terragni, mantiene spesso un richiamo al reale anche nei lavori astratti. Il meccanismo è ben visibile nei Ritratti segreti, R.S., che prendono forma intorno al 1939, e nelle Composizioni G.R.U. - una delle tante sigle, non tutte sciolte, che l’artista dichiara di introdurre nelle titolazioni «solo per distinguere un quadro dall’altro» (Maugeri 1986, p. 144) - nate nel 1937. L’opera in mostra è riprodotta, col titolo Composizione n. 85 e la data 1937, nel primo e unico numero di “Valori Primordiali” - la rivista comasca diretta da Franco Ciliberti e pensata inizialmente come quaderno trimestrale - stampato nel febbraio 1938. Una versione a olio su cartone telato di dimensioni più ridotte e con qualche differenza cromatica (Caramel 2002, n. 1938 1) viene donata nel 1941 da Radice a Ivanoe Furiosi, medico dell’Ospedale Militare di Bolzano, come ringraziamento per una licenza che gli aveva evitato la campagna di Russia.
Mariella Milan

Bibliografia
Sindacale Como 1937, n. 44 (Composizione n. 85); “Valori Primordiali” 1938, p. XXV (Composizione n. 85); Arte astratta 1939; Radice 1943; Arte moderna in Italia 1967, p. 329, n. 1621; Di Salvo 1987, p. 75; Il mondo di Belli 1991, pp. 108, 238; Caramel 2002, p. 142, n. 1937 5; Radice 2002, p. 80, n. 33.


2.17 MARIO RADICE (COMO 1898-1987) Composizione G.R.U. 35/B (Composizione n. 85) 1937 olio su cartone; cm 76 x 66 firmato in basso a destra «Mario Radice» Como, Pinacoteca Civica, P18

Nel 1931, non volendo più dedicarsi a quella che considera «pittura in ritardo», Licini si lascia alle spalle esordi futuristi e meditazioni morandiane e attua una radicale revisione del proprio passato fi gurativo, passando a una ricerca astratta che propone al pubblico per la prima volta nel 1935, alla II Quadriennale, dove Castello in aria viene esposto insieme ad altri due quadri - Bilico e Stratosfera - dipinti, come scrive l’artista al critico Giuseppe Marchiori, «a 500.000 metri d’altezza, nella zona siderale» (in Baratta-Bartoli-Birolli 1974, pp. 205-206). Proveniente dalla galleria Apollinaire, la tela, una delle opere più note e fortunate di Licini, viene sfregiata da ignoti vandali nel 1936 durante un’esposizione d’arte astratta alla Galleria Bragaglia di Roma. A questo episodio risale il motivo verticale biforcato - dipinto con una diversa qualità di nero, probabilmente per coprire parte dello sfregio - già impiegato in precedenza nei quadri figurativi (Fossati 1971, p. 160) e non presente, tuttavia, nello studio del 1932, già in collezione Giovanardi. Vorace lettore di riviste e bollettini d’arte e reduce da una serie di soggiorni parigini, dal vigile isolamento di Monte Vidon Corrado Licini riversa in Castello in aria la propria versione “irrazionale” della cultura astratta europea, da Kandinskij a Klee e Sophie Täuber-Arp, componendo nella tela una serie di motivi che ricorrono nella sua prima produzione astratta, dalle linee parallele piegate ad angolo alle linee-fulmine, dalla fascia cromatica alla struttura a triangoli. L’estrema libertà nel costruire equilibri sempre precari e il gusto ironico per una geometria eretica, lirica e umanizzata - in occasione della sua prima personale al Milione, nel 1935, Licini dichiara in una Lettera aperta al Milione che «la geometria può diventare sentimento» - separano l’artista marchigiano dal razionalismo astrattista del gruppo comasco e dalle auree armonie mediterranee propugnate da Carlo Belli in Kn.
Mariella Milan

Bibliografia
Marchiori 1935a; Quadriennale 1935, n. 22; Scheiwiller 1935, p. 18; Arte astratta 1936, n. 22; Licini 1958, p. 57, n. 18; Marchiori 1968, n. 160, tav. LXXXVII; Fossati 1971, p. 167; Capolavori del ’900 italiano 2005, n. 59; Scatturin 2005, pp. 154-155. 


2.18 OSVALDO LICINI (MONTE VIDON CORRADO 1894-1958) Castello in aria 1933-1936 tecnica mista su tela; cm 66,5 x 90 firmato in basso a destra «O. Licini» Rovereto, MART - Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto, Collezione Augusto e Francesca Giovanardi, MART 287

Il dipinto Vite orizzontale, esposto alla Mostra Futurista di Aeropittori e Aeroscultori organizzata da Marinetti nell’ambito della III Quadriennale di Roma nel 1939, è acquistato dal Governatorato e destinato alle collezioni capitoline, insieme ad altre due aeropitture di Osvaldo Peruzzi (Aeropittura 1934) e Sante Monachesi (Sogno di motore 1938). Nell’occasione, a fronte del centinaio esposte, solo tre opere futuriste entrano nelle collezioni civiche, ma è interessante notare come la scelta cada su differenti interpretazioni dell’aeropittura da parte degli artisti. Alla dimensione lirica del soggetto restituita - pur secondo gli stili propri a ciascuno - da Peruzzi e Monachesi nelle rispettive opere, si contrappone la soluzione maggiormente illustrativa impiegata da Crali in Vite orizzontale. Basata sulle esperienze di volo, anche acrobatico, da lui stesso compiute fra 1938 e 1939, la veduta di città è resa attraverso una prospettiva aerea colta dalla carlinga del velivolo, complicata però dall’effetto ottico percettivo di avvitamento dovuto alla manovra del pilota, che sembra trascinare verso l’alto il piano dell’abitato avvolgendolo intorno all’unica via di percorrenza possibile per l’aereo, costituita da quel centrale spazio di cielo dove le nuvole si aprono lasciando filtrare squarci di luce. La scelta di una visione “soggettiva” nel dipinto accentua la componente di coinvolgimento emotivo, nella pur puntuale restituzione della distorsione prospettica, con un effetto amplificato dal calibrato rapporto di luci e ombre all’interno dell’opera. Per Crali, «l’aeropittura dimostra come nel volo (lotta di uomini, macchine, elementi) si generi l’atmosfera più adatta a sviluppare ogni più piccolo e nascosto sentimento» (Crali 1940, pp. 41-43).
Silvia Vacca

Bibliografia
Quadriennale 1939, p. 192, n. 34; Aeropittura. Crali 1940, n. 10; Biennale 1940, p. 185, n. 21; Bonasegale 2008, p. 80; Futurismo 1909-2009 2009, n. 236; NAF. Cataloghi 2010. 


2.19 TULLIO CRALI (IGALO 1910-MILANO 2000) Vite orizzontale 1938 olio su compensato; cm 80 x 60 Roma, Galleria d’Arte Moderna di Roma Capitale, AM 1247

Osvaldo Peruzzi realizza Aeropittura nel 1934, due anni dopo l’adesione ufficiale alla compagine futurista e il trasferimento da Milano a Livorno. È per lui un momento L’opera, da datare al 1930, come confermato dalla sua partecipazione alla I Quadriennale di Roma del 1931 di pieno sviluppo dell’attività artistica - nello stesso (iniziata a gennaio) e dallo stesso Prampolini, che nella anno dipinge Aeroarmonie e Autoritratto - e di pubblico Mostra futurista di Aeropittura del 1931 la assegna a riconoscimento, grazie alla partecipazione alla XIX Biennale quell’anno (Prampolini 1931, p. 11), è molto simile, per di Venezia. soggetto e impaginazione, a Immagine futurista illustrata sul Presentato alla III Quadriennale romana del 1939 (insieme catalogo dell’esposizione romana. Rispetto a quest’ultimo ad altri suoi lavori come Simultaneità di battaglia aerea e dipinto, però, la figura femminile di Analogie cosmiche Ritratto cosmico) nelle sale allestite da Marinetti con il titolo si presenta molto più stilizzata, non lasciando nemmeno Mostra futurista di Aeropittori e Aeroscultori, il dipinto entra intuire il volto che, insieme agli arti, come atrofizzati, immediatamente a far parte delle collezioni civiche romane come acquisto del Governatorato, per mille lire, insieme viene eliminato dalla composizione, per lasciar spazio unicamente agli elementi caratterizzanti della donna: i 139 a due altre opere futuriste, esposte nella stessa occasione: seni e il ventre, che genera una sfera simile a un pianeta Vite orizzontale di Tullio Crali e Sogno di motore di Sante come in Maternità cosmica (1930), presentato alla seconda Monachesi. edizione della Quadriennale romana nel 1935. L’opera Aeropittura, in precedenza proposto alla VI Mostra può essere considerata un’aeropittura, ma basata su sindacale livornese del 1934-1935 e alla XXI Biennale una personale rielaborazione immaginativa, lontana da di Venezia del 1938, evidenzia l’originale impronta qualsiasi intento illustrativo. Quanto viene rappresentato dell’adesione di Peruzzi alla tendenza aeropittorica che, è infatti lo spazio-tempo metafisico, del quale la forma sviluppatasi in ambito futurista già alla fine degli anni diviene un’immagine assoluta e stabile. Linee e colore Venti, vede la sua ufficializzazione con la pubblicazione sono impiegati in maniera simbolica: curve e sinuosità del Manifesto, da parte di Marinetti, in “La Gazzetta del alludono liricamente all’elemento organico che si trasfigura Popolo” del 22 settembre 1929 e nel catalogo della I metamorficamente in pura energia, mentre i contrasti Mostra di Aeropittura alla Camerata degli Artisti di Roma coloristici sottolineano il movimento, ormai completamente all’inizio del 1931 (Crispolti 2008). Nel quadro emerge la spirituale. Per Prampolini, l’aeropittura diviene pura formazione macchinista di Peruzzi, retaggio degli anni di «sensibilità aerea», volta a creare un nuovo «organismo studio milanesi, che in combinazione con un sintetico senso plastico» che deve orientarsi verso «l’analogia plastica, di tensione lirica, costante nel suo linguaggio pittorico e ossia verso la metamorfosi nel mistero fra la realtà concreta vera e propria cifra stilistica, lo distingue dal versante più e quella astratta» (Prampolini 1931, p. 12); si tratta di un illustrativo dell’aeropittura. tipo di sperimentazione che lo porta a breve a ricercare Silvia Vacca nuovi mezzi espressivi con i polimaterici. 
Silvia Vacca 

Bibliografia
Biennale 1934, n. 50; Sindacale livornese 1934, n. 7; Bibliografia Biennale 1938, n. 49; Quadriennale 1939, p. 196, n. Quadriennale 1931, p. 85, n. 29; Prampolini 1932, n. 5; 80; Peruzzi 1998, p. 70; Bonasegale 2008, p. 81; NAF. Biennale 1932, p. 172, n. 46; Menna 1967, p. 237, n. Cataloghi, 2010 107, fig. 179; Prampolini 1992, p. 318; Crispolti 2008, p. 23; NAF. Cataloghi 2010. 


Cataloghi 2010. 2.20 OSVALDO PERUZZI 2.21 ENRICO PRAMPOLINI (MILANO 1907-LIVORNO 2004) (MODENA 1894-ROMA 1956) Aeropittura Analogie cosmiche (Apparizione cosmica) 1934 1930 olio su cartone; cm 64,5 x 80,5 olio su compensato; cm 80 x 65 Roma, Galleria d’Arte Moderna di Roma Capitale, firmato in basso a destra «PRAMPOLINI» AM 1291 Venezia, Fondazione Musei Civici di Venezia, Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro, inv. 902

ANNI '30
ANNI '30
Arti in Italia oltre il fascismo
Nell'Italia degli anni Trenta, durante il fascismo, si combatte una battaglia artistica di grande vivacità, che vede schierati tutti gli stili e tutte le tendenze, dal classicismo al futurismo, dall'espressionismo all'astrattismo, dall'arte monumentale alla pittura da salotto. La scena era arricchita e complicata dall'emergere del design e della comunicazione di massa - i manifesti, la radio, il cinema - che dalle ''belle arti'' raccolgono una quantità di idee e immagini trasmettendole al grande pubblico. Un laboratorio complicato e vitale, aperto alla scena internazionale, introduttivo alla nostra modernità. Un'epoca che ha profondamente cambiato la storia italiana. Gli anni Trenta sono anche il periodo culminante di una modernizzazione che segna una svolta negli stili di vita, con l'affermazione di un'idea ancora attuale di uomo moderno, dinamico, al passo coi tempi e si definisce quella che potremmo chiamare ''la via italiana alla modernità'': nell'architettura, nel design, così come in pittura e in scultura, che si esprime attraverso la rimeditazione degli stimoli provenienti dal contesto europeo - francese e tedesco, ma anche scandinavo e russo -, combinata con l'ascolto e la riproposta di una tradizione - quella italiana del Trecento e Quattrocento. Pubblicazione in occasione della mostra: ''Anni Trenta. Arti in Italia oltre il fascismo'' (Firenze, Palazzo Strozzi, 22 settembre 2012 - 27 gennaio 2013). La mostra rappresenta quel decennio attraverso i capolavori (99 dipinti, 17 sculture, 20 oggetti di design) di oltre quaranta dei più importanti artisti dell'epoca quali Mario Sironi, Giorgio de Chirico, Alberto Savinio, Achille Funi, Carlo Carrà, Corrado Cagli, Arturo Nathan, Achille Lega, Ottone Rosai, Ardengo Soffici, Giorgio Morandi, Ram, Thayaht, Antonio Donghi, Marino Marini, Renato Guttuso, Carlo Levi, Filippo de Pisis, Scipione, Antonio Maraini, Lucio Fontana. Raccontando un periodo cruciale che segnò, negli anni del regime fascista, una situazione artistica di estrema creatività.