arte pubblica

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Nel Foro Mussolini, nell’Arco di Bolzano, nella Casa Madre dei Mutilati, nel Palazzo delle Corporazioni, negli stadi, nelle case del fascio, nelle stazioni, nelle scuole, negli edifici innumerevoli degli enti statali in Roma e nelle altre città italiane, […] fin nei nuovi centri agricoli delle zone bonificate a Littoria e Sabaudia, è qui in tutto questo meraviglioso germogliare di palazzi, di piazze, di vie aperte alla vita, allo studio, al traffico della nazione, che si è andata principalmente formando un’arte fascista. In quanto gli artisti, strappati finalmente dal ritiro dei loro studi e dal piccolo compito del quadretto da cavalletto o della statuetta senza scopo preciso sono stati messi di fronte a grandi problemi decorativi da risolvere in connessione con l’architettura e le sue destinazioni». Così si legge nell’articolo di Maraini Arte e artisti, pubblicato nell’ottobre 1933 sull’“Illustrazione Italiana”. L’auspicata collaborazione di architetti e artisti diventa, nel corso del decennio, uno dei cardini di quell’idea di arte pubblica che prepotentemente si afferma nell’Italia del tempo, riguardando sia la committenza (comunale, provinciale o statale), con dichiarata funzione sociale e di propaganda, sia la destinazione delle opere, progettate per spazi aperti a tutti e di solito con una precisa corrispondenza tra scelte tematico-iconografiche e specifica funzione e identità dei luoghi: municipi, palazzi di giustizia, stazioni, uffici postali. Un futurista della prima ora, Gino Severini, è tra i primi a criticare il carattere individualista del quadro da cavalletto nell’articolo del 1926 Pittura decorativa e pittura da cavalletto, poi ripubblicato in Ragionamenti sulle arti figurative: «Per ridare all’arte tutta la sua purezza e nello stesso tempo il suo contenuto sarebbe 146 meglio risalire dalla pittura da cavalletto alla pittura murale». La questione esplode nel maggio 1933 alla V Triennale di Milano, dove in dichiarata polemica contro il “passatismo” borghese e piccolo-borghese della pittura da cavalletto si tiene la prima grande manifestazione di pittura murale pubblica, che riempie le sale del palazzo con dipinti e mosaici, tra gli altri, di Severini (la sua è l’unica opera ancora esistente), Sironi, Carrà, Cagli, Funi, de Chirico. Contemporaneamente, Cagli pubblica in “Quadrante” il manifesto Muri ai pittori - «quanto si fa in pittura oggi al di fuori dell’aspirazione murale (che ha mutato persino lo spirito della pittura da cavalletto influenzandone l’impianto e la materia) è fatica minore e storicamente vana. A convogliare le forze della pittura contemporanea occorrono i muri, le pareti» - mentre in dicembre, sulla rivista di Alberto Savinio “Colonna”, Sironi pubblica il Manifesto della pittura murale, firmato anche da Funi, Campigli, Carrà. L’arte murale vi è definita fondamentale strumento di educazione delle masse, di decisivo valore formativo e sociale. Si delineano tre principali tipologie di arte pubblica: monumenti per spazi urbani, pitture murali e altorilievi, concepiti, questi ultimi, in dialogo con l’architettura, con la funzione di farla “parlare” con immagini - scolpite o dipinte - capaci di trasmettere messaggi. Come la prima comunicazione di massa vera e propria, che comincia ad affermarsi anche in Italia, l’arte pubblica, pur mantenendo gli specifici caratteri di “unicità” della creazione artistica, intende rivolgersi a tutti, offrirsi al giudizio collettivo e rispondere audacemente ad attese generali, mettendosi «in piazza», come scrive nel 1940 Martini a proposito del suo lavoro all’Arengario di Milano. Le committenze per interventi del genere, in gran parte assegnate per concorso, costituiscono un’importantissima fonte di lavoro artistico, cui cercano di attingere anche i protagonisti del rinnovamento del linguaggio pittorico e plastico. Fenomeno essenzialmente “quantitativo”, l’arte pubblica presenta, infatti, non pochi esempi di alta e raffinata qualità tecnico-esecutiva e di originalità linguistica e d’invenzione. Questo aspetto dell’arte italiana degli anni Trenta - documentato da innumerevoli “monumenti” bidimensionali e tridimensionali diffusi in tutto il territorio nazionale - viene qui testimoniato attraverso una scelta di progetti e bozzetti dei suoi interpreti più originali: Fontana, Funi, Severini, Carrà e naturalmente Sironi e Martini. 



Parma, CSAC - Centro Studi e Archivio della Comunicazione, Università di Parma, sezione arte, inv. 6362 Nel maggio 1934, alla V Mostra del Sindacato Interprovinciale delle Belle Arti di Lombardia, dove espone la Signorina seduta, Fontana vince - tra le polemiche perché ha superato per meno di un mese il limite di trentacinque anni stabilito dal bando - il primo premio al concorso Tantardini per i giovani scultori lombardi, che ha come tema per quell’anno «la realizzazione di una o più statue decorative di fontana per un mercato del pesce» a Milano. Secondo il diritto del Comune di trarre una copia, a luglio viene eseguita, dal gesso presentato - che rimane di proprietà dell’artista -, una fusione in bronzo, attualmente conservata nelle Civiche Raccolte milanesi. Per la scultura ha posato Gianni Clerici, amico di Jole Bonifacini Fontana, cognata dell’artista: «Un uomo nudo al vero, eretto, stringe con la destra una fiocina. Ai suoi piedi sono alcuni pesci» (Nicodemi-Bezzola 1938). Il tentativo di astrazione della forma è ottenuto attraverso l’uso del colore oro e con un modellato “vibrante”, nei capelli e nella base, che si ritrova più insistito nella Vittoria dell’Aria - esposta nel giugno dello stesso anno a Milano alla Mostra dell’Aeronautica italiana - che ne riprende la posizione dei piedi e lo sbilanciamento in avanti. Edoardo Persico descrive il Pescatore come «ben piantato e tornito», eseguito per strappare l’ammirazione della giuria (Persico 1936a), mentre Giulio Carlo Argan lo colloca nelle ricerche fontaniane di equilibrio e di assoluta uguaglianza di volume e colore: «Nella fluidità di quel corpo liscio, levigato dall’acqua nell’esercizio del nuoto, nel movimento che prolunga e affusola la figura, nella continuità della superficie sentita, al modo greco, come fascio di linee avvolgenti ed elastiche è presente la stessa idea di spazio che c’era negli Amanti» (Argan 1939). Prima della sua morte nel 1988, l’architetto Renzo Zavanella, amico e collaboratore di Fontana, regala la scultura al suo portinaio, Luciano D’Alessandro, per ricompensarlo dell’assistenza: quest’ultimo la donerà nel 1992 allo CSAC di Parma, d’accordo con la vedova di Fontana, Teresita Rasini.

Silvia Bignami

Bibliografia
Sindacale Lombarda 1934, p. 102, n. 8; Persico 1936a; Nicodemi-Bezzola 1938, pp. 101-103; Argan 1939, pp. 293-295; Crispolti 2006, p. 150, nn. 33-34 SC1; Fontana 2007, pp. 55-58; Fontana 2010; Nove100 2010, p. 57, n. I.6. 


4.01 LUCIO FONTANA (ROSARIO DE SANTA FÉ 1899-VARESE 1968) Il fi ocinatore (Pescatore di fi ocina; Pescatore) 1934 gesso colorato, oro, argento, bianco e nero; cm 183 x 82 x 63 firmato sulla base «L. FONTANA»

Dopo la V Triennale, un importante cantiere di decorazione murale, realizzato a Milano tra 1929 e 1940 - ideatore del progetto architettonico e iconografico e regista dell’impresa è Marcello Piacentini - è quello del nuovo Palazzo di Giustizia. Carrà, che ha alle spalle l’esperienza della V e della VI Triennale, è tra i molti artisti chiamati a realizzare le opere decorative, ufficialmente nel 1936, in realtà già nel 1932-1933. Ultima prova murale di Carrà, l’unica sopravvissuta fino a oggi, gli affreschi - il Giustiniano che libera lo schiavo, a rappresentare la giustizia terrena, e il Giudizio universale, simbolo della giustizia divina - sono destinati a spazi pubblici, dunque al grande pubblico, e hanno un impianto volutamente semplice, che si riduce ulteriormente durante l’iter progettuale. Donati da Massimo Carrà nel 1969, i grandi disegni chiaroscurati su carta da spolvero, quadrettati e dunque realizzati a ridosso della versione finale ma non utilizzati effettivamente per lo spolvero, sono eseguiti tra 1938 e 1939, mentre la datazione al 1933 qui leggibile viene probabilmente aggiunta negli anni Sessanta, quando i cartoni, per ragioni conservative, sono incollati su tela e intelaiati. La scelta del nudo - che nel 1940 sarebbe costata a Carrà, come anche a Campigli, Semeghini, Penagini e Cadorin, l’accusa di “sconvenienza” da parte dei censori e la successiva copertura con pesanti teli grigi fino al 1942 - si richiama alla grande tradizione rinascimentale dell’affresco e, al contempo, è funzionale a una rappresentazione astorica della giustizia, schivando i goffi simboli della romanità di regime. La posizione di profilo con la gamba piegata della Figura femminile - uno dei risorti che escono dai sepolcri alla destra del Cristo nel Giudizio universale - rimanda ad altre opere degli anni Trenta, ai gesti masacceschi dei pescatori e dei nuotatori che popolano le marine versiliesi care all’artista e, in particolare, alla donna seduta di Modelle in riposo (1932).

Mariella Milan
Bibliografia Gli anni Trenta 1982; Carrà 1994, n. 35; Carrà 1996, n. VII, 49; Allodi 2004, fi gg. 1-2; Carrà 2004, n. 4; Pugliese 2004, fi g. 34. 


4.02 CARLO CARRÀ (QUARGNENTO 1881-MILANO 1966) Figura femminile che esce dalla tomba 1938-1939 carboncino su carta da spolvero incollata su tela; cm 181,5 x 99,5 firmato e datato in alto a sinistra «Carlo Carrà 1933» Milano, Museo del Novecento, inv. 8018

Tra i protagonisti del dibattito sulla rinascita della “grande decorazione” - nel 1933 firma con Sironi, Carrà e Campigli il Manifesto della pittura murale - dal 1930 Funi è impegnato in un gran numero di cantieri, tra cui la IV Triennale a Monza, la V Triennale e il Palazzo di Giustizia a Milano, la chiesa del Cristo Re e la Banca Nazionale del Lavoro a Roma, la chiesa di San Francesco a Tripoli e la sala della Consulta del Palazzo Comunale di Ferrara. Quest’ultimo ciclo, realizzato tra 1934 e 1937 e considerato il suo capolavoro a fresco, è commissionato nel 1934 dall’amico ferrarese Italo Balbo - nella seconda metà del decennio l’allora neogovernatore della Libia progetta, con la supervisione di Funi, la trasformazione della Tripoli coloniale in una novella Ferrara - e costituisce una vera e propria dichiarazione di poetica. Avviati dopo la pubblicazione, su “La Colonna”, dell’articolo Rientriamo nella Storia, dove l’artista ribadisce l’importanza della pittura murale e dell’esempio dei classici con un «richiamo alla nostra civiltà artistica», gli affreschi rievocano i fasti rinascimentali dell’Officina ferrarese fondendo poesia, religione, mito e storia nel clima eroico di un unico - eclettico e sincronico - programma iconografi co, Il mito di Ferrara, elaborato insieme agli intellettuali del “Corriere Padano” di Nello Quilici. Episodi della Gerusalemme liberata e dell’Orlando furioso - tra i crociati spuntano ritratti dei protagonisti della nuova “rinascenza” fascista ferrarese - convivono con la vicenda di Ugo e Parisina, tratta dalla storia civica quattrocentesca, con la raffigurazione dei segni zodiacali e dei mesi, esplicito omaggio al Salone dei Mesi di Palazzo Schifanoia, con donne alla balaustra in abiti moderni, con leggende della cristianità come quella di san Giorgio e il drago e con dèi pagani e figure mitologiche come Fetonte, che Zeus, nel cartone preparatorio qui in mostra, destinato alla parete ovest della sala, scaglia nell’Eridano.

Mariella Milan

Bibliografia Milano, Finarte, Asta 746 del 12 giugno 1990, n. 312; Prato, Farsetti, Asta 38 del 6 giugno 1992, n. 197; Colombo 1996b, p. 113, n. I.73; Agnellini 1997, p. 99; Pugliese 1997, p. 90; Muri ai pittori 1999, n. 61; Pontiggia 2001b, p. 132, n. 57. 


4.03 ACHILLE FUNI (VIRGILIO SOCRATE FUNI; FERRARA 1890-APPIANO GENTILE 1972) Il mito di Fetonte 1936 pastelli colorati e carboncino su carta intelata; cm 170 x 151,5 firmato e datato in basso a destra «A. Funi 1936» Milano, collezione privata Courtesy Studio d’Arte Nicoletta Colombo

Collezione privata Il mosaico noto come L’Italia corporativa è una delle opere più complesse e rappresentative tra quelle che Sironi, nel corso degli anni Trenta, realizzò su vasta scala e a destinazione pubblica. Concepito per lo Scalone d’Onore del Palazzo dell’Arte nel corso della VI Triennale di Milano del 1936, non fu tuttavia per quella occasione portato a termine e se ne espose allora solo la parte centrale. Il mosaico non venne eseguito direttamente sulla parete ma applicato a pannelli mobili di circa un metro quadrato, così che ne fosse possibile il trasporto. Fu presentato al pubblico nella sua completezza per la prima volta nel Padiglione Italiano all’Esposizione Internazionale di Parigi del 1937. Successivamente fu portato al Palazzo del Popolo d’Italia di Milano (successivamente Palazzo dei Giornali e oggi dell’Informazione), sede nella quale si trova ancora attualmente. Del mosaico, realizzato dalla ditta veneziana Salviati, si sono conservati quasi tutti i cartoni autografi di Sironi (Braun 2004, pp. 345-353, con ampia bibliografia sull’opera). Quello che qui si presenta, relativo alle figure allegoriche della Giustizia e della Legge, fornisce un esempio chiaro dell’idea sironiana di pittura murale: «Quando si dice pittura murale non si intende dunque soltanto il puro ingrandimento sopra grandi superfici di quadri che siamo abituati a vedere, con gli stessi effetti, gli stessi procedimenti tecnici, gli stessi obiettivi pittorici. Si prospettano invece nuovi problemi di spazialità, di forma, di espressione, di contenuto lirico o epico, o drammatico. Si pensa ad un rinnovamento di ritmi, di equilibri, di uno spirito costruttivo» (Sironi 1932, p. 3). Riprendere la decorazione di grandi superfici murarie non significava per l’artista un ritorno al passato, ma il realizzare arte moderna, con tecniche, ubicazione e destinazione che erano state centrali nelle epoche più gloriose della pittura italiana. La celebrazione del fascismo fu soggetto di tutte le sue opere pubbliche; tuttavia gli ambienti più retrivi del regime, proseguendo la polemica antinovecentista, videro nelle sue opere murali una riprovevole tendenza alla deformazione “espressionistica”.

Andrea Sironi-Straußwald

Bibliografi a Sironi 1932, p. 3 (poi Sironi 1980, p. 114, e Sironi 2000, p. 22); Sironi 2004, p. 121; Braun 2004, pp. 345-353. 


4.04 MARIO SIRONI (SASSARI 1885-MILANO 1961) La Giustizia e la Legge (cartone per il mosaico L’Italia corporativa) 1936-1937 tecnica mista su carta da spolvero (riportata su tela); cm 340 x 230 Collezione privata

Alla metà degli anni Trenta Martini, che nel 1933 si è trasferito a Milano aprendo uno studio «grande come una stazione di tramway» (Carrieri 1936) in un capannone alla periferia nord, è il più celebre scultore italiano vivente. All’epoca della rinascita della “grande decorazione” e del massimo sforzo propagandistico del regime, l’artista riceve un gran numero di commissioni pubbliche, dalla Vittoria per il Foro Mussolini a Roma, mai realizzata, al gruppo degli Sforza per l’Ospedale Maggiore di Niguarda. Nel 1937 realizza il gesso della Giustizia corporativa, un monumentale altorilievo per il nuovo Palazzo di Giustizia, seguendone poi la traduzione in marmo a Carrara. Impostato come una narrazione polifonica sulle opere dell’uomo, sottoposte al giudizio della Legge, si articola in cinque blocchi, nei quali l’artista, abolendo la prospettiva classica, adotta una strutturazione policentrica, mutuata dalla spazialità romanica e analoga a quella teorizzata da Sironi nello stesso anno. Tra i vari episodi estrapolati come opere a sé stanti, la Testa di Vittoria è un frammento del gruppo degli Eroi in alto a sinistra - che comprende anche Bellerofonte con la testa di Medusa, Dedalo e Icaro e il corpo senza vita di un soldato trasportato al sacrario - replicato per gli amici Maria Calzavara e Natale Mazzolà, che lo doneranno ai Musei Civici di Treviso in occasione della grande retrospettiva del 1967. Da una lettera che Martini scrive a Mazzolà il 16 luglio 1938, avvertendolo che «la testa che ti è tanto piaciuta per ragioni romantiche per ricordi del sasso, te l’ho fatta in bardiglio e Nicoli te la spedirà in settimana» (Lettere di Arturo Martini 1992, p. 187), si deduce che l’amico avesse visto il particolare alla mostra fotografi ca dei trentuno dettagli della Giustizia, allestita nella milanese galleria del Milione nel maggio-giugno 1937, riscontrando una somiglianza tra il volto della Vittoria e quello del cosiddetto «sasso», un Busto di fanciulla eseguito da Martini nel 1920, regalato ai Mazzolà e poi distrutto.

Mariella Milan

Bibliografia Arturo Martini 1937; Bacchelli 1937; Bontempelli 1939, pp. 11-12; Perocco 1966, n. 421 (Testa di donna); Arturo Martini 1967, n. 144, fig. 146; Lettere di Arturo Martini 1992, p. 187; Arturo Martini 1993, pp. 107-108, n. 21; Vianello-Stringa-Gian Ferrari 1998, p. 302, n. 454. 


4.05 ARTURO MARTINI (TREVISO 1889-MILANO 1947) Testa di Vittoria 1937-1938 marmo bardiglio; cm 38,5 x 62 x 24,5 Treviso, Musei Civici, inv. AMS 12

Bozzetto generale dell’intervento sul Viale del Monolite per il Foro Italico (prima versione) 1937 tempera e biacca su cartoncino; cm 118 x 158 ai margini note manoscritte dell’artista Roma, Romana Severini Brunori Atleti e natura morta per il Foro Italico (lato sinistro del Viale del Monolite) 1937 tempera e matita su cartoncino; cm 38 x 56 firmato in basso a destra «G. Severini» con varie note manoscritte dell’artista Roma, Romana Severini Brunori Atleti e cronometro per il Foro Italico (lato destro del Viale del Monolite) 1937 tempera e matita su cartoncino; cm 47,7 x 56 firmato al verso «Gino Severini»; al margine e al verso, note manoscritte dell’artista Roma, Romana Severini Brunori


4.06-4.07-4.08 GINO SEVERINI (CORTONA 1883-PARIGI 1966)


Per il Foro Mussolini (ribattezzato nel 1943 Foro Italico), Gino Severini riceve dall’architetto Luigi Moretti l’incarico per due cicli di mosaici: quello della palestra del Duce - «uno specialissimo dono a Mussolini» - e quello del grande viale delle adunate, il piazzale dell’Impero, tra il Monolite e la Sfera. Nella seconda impresa sono coinvolti anche Achille Capizzano, Angelo Canevari e Giulio Rosso: Severini esegue la zona di raccordo con l’anello mosaicato della fontana e i due riquadri terminali disposti simmetricamente. L’artista ha già alle spalle quasi un decennio di prove e di scritti teorici sulla rinascita della pittura murale e del mosaico: a quest’ultimo ha dedicato il capitolo XIII di Ragionamenti sulle arti fi gurative del 1936, in cui reimposta il discorso sulla tecnica. Nel 1935 è tornato da Parigi a Roma - dove vince il Primo Premio per la pittura alla Seconda Quadriennale - anche per ottenere, grazie all’interessamento di Cipriano Efisio Oppo, pubbliche committenze in patria. Il piazzale viene inaugurato il 16 maggio 1937 - nel primo anniversario della proclamazione dell’impero - alla presenza di Mussolini e dei principali esponenti del partito fascista, da Ciano a Bottai. La bicromia e la scansione figurale dei mosaici riecheggia quella dei lisostrati bianco-neri delle pavimentazioni romane, da mettere in collegamento non solo con la pittura vascolare a figure nere, ma anche con i coevi e celebrati ritrovamenti di Ostia Antica e, più in generale, con la colta conoscenza, da parte dell’artista, della cultura greca e romana. La serie dei disegni preparatori e dei bozzetti, tre dei quali presenti in mostra, risulta fondamentale per ricostruire le varianti dei soggetti proposti e la composizione originaria, oggi perduta (testata orizzontale) o in parte danneggiata (riquadro di sinistra) da incuria e vandalismo. Un bozzetto rappresenta la prima versione generale poi molto modificata dell’intervento complessivo. Il gruppo centrale riprende i temi sviluppati nel mosaico delle Arti per la V Triennale di Milano del 1933, ma con un afflato molto più classicheggiante. Nella versione finale è invece rappresentata, secondo modalità di impronta cubista-sintetica, la personificazione del Fascismo, circondata a raggiera dalle Arti e dai simboli della forza (leone), dell’impero (aquila) e di Roma (lupa). Gli altri due bozzetti rappresentano la versione definitiva dei riquadri sul lato sinistro e destro del viale del Monolite. Rispetto all’astrattezza ritmica dei primi studi, Severini utilizza schemi più narrativi con l’introduzione di cornici a triangolo, a losanga e a fogliame stilizzato che ripartiscono gli episodi e avvicendano scene di atleti in movimento (corsa, salto agli ostacoli, lancio del giavellotto, del disco), o in riposo, a immagini bucoliche tratte dall’iconografia paleocristiana, e a nature morte, mentre un’enorme mano con un cronometro, tra il metafisico e «il ricordo di quella colossale di Costantino», accentua la spaesante sospensione atemporale delle composizioni. 
Silvia Bignami 

Bibliografia 
Bompiani 1937; Sgarbi 1985, pp. 54-55, 133; Greco 1991, pp. 40-43; Gino Severini 1992, pp. 72-83; Pirani 1998, pp. 27-37. 

ANNI '30
ANNI '30
Arti in Italia oltre il fascismo
Nell'Italia degli anni Trenta, durante il fascismo, si combatte una battaglia artistica di grande vivacità, che vede schierati tutti gli stili e tutte le tendenze, dal classicismo al futurismo, dall'espressionismo all'astrattismo, dall'arte monumentale alla pittura da salotto. La scena era arricchita e complicata dall'emergere del design e della comunicazione di massa - i manifesti, la radio, il cinema - che dalle ''belle arti'' raccolgono una quantità di idee e immagini trasmettendole al grande pubblico. Un laboratorio complicato e vitale, aperto alla scena internazionale, introduttivo alla nostra modernità. Un'epoca che ha profondamente cambiato la storia italiana. Gli anni Trenta sono anche il periodo culminante di una modernizzazione che segna una svolta negli stili di vita, con l'affermazione di un'idea ancora attuale di uomo moderno, dinamico, al passo coi tempi e si definisce quella che potremmo chiamare ''la via italiana alla modernità'': nell'architettura, nel design, così come in pittura e in scultura, che si esprime attraverso la rimeditazione degli stimoli provenienti dal contesto europeo - francese e tedesco, ma anche scandinavo e russo -, combinata con l'ascolto e la riproposta di una tradizione - quella italiana del Trecento e Quattrocento. Pubblicazione in occasione della mostra: ''Anni Trenta. Arti in Italia oltre il fascismo'' (Firenze, Palazzo Strozzi, 22 settembre 2012 - 27 gennaio 2013). La mostra rappresenta quel decennio attraverso i capolavori (99 dipinti, 17 sculture, 20 oggetti di design) di oltre quaranta dei più importanti artisti dell'epoca quali Mario Sironi, Giorgio de Chirico, Alberto Savinio, Achille Funi, Carlo Carrà, Corrado Cagli, Arturo Nathan, Achille Lega, Ottone Rosai, Ardengo Soffici, Giorgio Morandi, Ram, Thayaht, Antonio Donghi, Marino Marini, Renato Guttuso, Carlo Levi, Filippo de Pisis, Scipione, Antonio Maraini, Lucio Fontana. Raccontando un periodo cruciale che segnò, negli anni del regime fascista, una situazione artistica di estrema creatività.