le esposizioni

INAUGURAZIONI

La presenza delle alte gerarchie fasciste e della famiglia reale alle inaugurazioni delle Biennali, delle Quadriennali e delle Triennali occupa le copertine delle riviste illustrate, dimostrando il rilievo che si vuol dare alla ritualità di queste manifestazioni artistiche nell’economia di un nuovo sistema dell’arte, organizzato capillarmente dal regime. A partire dalle prime mostre del Sindacato degli Artisti, che dal 1927 sostituiscono progressivamente le esposizioni accademiche e locali dei primi decenni del secolo, si costruisce una rigorosa struttura piramidale al vertice della quale stanno la Biennale di Venezia e la Quadriennale di Roma. A tali vetrine dell’arte italiana, destinate anche a un pubblico internazionale, si accede attraverso il filtro delle rassegne provinciali e regionali. 
La graduale fascistizzazione dei processi di promozione e diffusione dell’arte contemporanea garantisce il governo della situazione (anche in funzione propagandistica) ma al tempo stesso apre, inaspettatamente, nuovi spazi per tante opere di artisti più giovani o meno conosciuti. 
Alla definizione di questo nuovo assetto dà impulso, nel 1928, la nomina di Antonio Maraini a Segretario generale della Biennale: trasformata nel 1930 in Ente autonomo, la mostra veneziana dipende direttamente dallo Stato fascista. Ugualmente sotto un esplicito controllo del regime sono la Quadriennale, con la segreteria di Cipriano Efisio Oppo, e la Triennale, trasferita a Milano dal 1933 e guidata da un Direttorio (Mario Sironi, Gio Ponti, Carlo Alberto Felice). 


Il 3 gennaio si è svolta la cerimonia della “vernice” alla prima Quadriennale romana: il capo del governo esce dal palazzo della mostra.

I Principi di Piemonte hanno visitato a Roma la prima Quadriennale d’arte italiana. “Il Secolo XX”, 16 gennaio 1931. Accanto a Umberto e Maria José di Savoia si riconoscono il conte di San Martino e Oppo.


Il Principe Umberto alla Mostra del Sindacato Artistico Laziale. “Il Secolo XX”, 20 aprile 1929. Umberto di Savoia posa per i fotografi davanti a Il passero di Amleto Cataldi; lo scultore è al suo fi anco.



La terza Quadriennale romana d’Arte nazionale è stata solennemente inaugurata domenica 5 febbraio alla presenza di S.M. il Re Imperatore. Dopo il devoto ringraziamento rivolto al Sovrano dal Presidente della Mostra senatore Di San Martino, e il lucido discorso in tema di Arte e Politica del Ministro dell’Educazione Nazionale, Sua Maestà, accompagnato dalle gerarchie e dalle autorità presenti, ha visitato col maggiore interesse le sale, soffermandosi presso le opere più notevoli, delle quali S.E. Oppo gli dava particolari notizie, ed ha manifestato il suo augusto compiacimento agli organizzatori. “L’Illustrazione Italiana”, 12 febbraio 1939. Vittorio Emanuele III nella sala personale dello scultore toscano Italo Griselli; in primo piano il bronzo Romolo, acquistato dal Governatorato di Roma.


La Triennale di Milano è aperta. Alla presenza del Re, si è solennemente inaugurata il 10 maggio la Quinta Triennale internazionale delle arti decorative. “Il Secolo XX”, 13 maggio 1933.

LA BIENNALE DI VENEZIA

Nel Programma pubblicato a introduzione del catalogo della Biennale del 1930, Antonio Maraini contrappone alla «revisione» storica di un secolo d’arte italiana, offerta nell’edizione precedente, la necessità di presentare «l’opera ricostruttrice» delle nuove «generazioni dalle quali l’Italia attende il suggello nell’arte della sua rinata grandezza». Con atteggiamento un po’ ondivago, il Segretario generale si schiera contro il cosmopolitismo e l’elitario isolamento degli artisti, ma propone la retrospettiva di Amedeo Modigliani, ordinata da Lionello Venturi. L’artista simbolo dell’audacia del clima parigino diviene oggetto di un tentativo di riappropriazione anche nazionalistica, mentre il gusto corrente dell’epoca ne può bollare i nudi più espliciti con un drastico «che schifo!» ancora leggibile, scritto a matita da un anonimo lettore, nella prima pagina qui riprodotta del “Secolo XX” sotto l’immagine del Nudo sdraiato (allora nella collezione Gualino). 
«Questa diciassettesima Biennale è proprio spregiudicata», si legge nella stessa pagina dove, accanto ai due Modigliani, la Prua d’Italia di Thayaht esemplifi ca un’interpretazione futurista del fascismo. 
Le versioni della mitologia latina e dell’allegoria fascista offerte da Achille Funi e Lucio Fontana possono convivere, in mostra, con la “fusione coloristica” del modernismo neoromantico e anticlassico di Felice Casorati, ma anche con una Damina 800 di Bepi Fabiano o con la ripresa della tradizione della pittura di genere da parte di Leonardo Dudreville. Un’analoga varietà di stili e tendenze - ma tutta in chiave modernista - è comunicata, nella stampa più diffusa, dalle illustrazioni delle presenze straniere, dove la pittura alla moda del vecchio fauve Kees van Dongen si confronta con il realismo sintetico dell’inglese William Roberts, la pittura sacra anticonformista di Gustave van de Woestyne, l’arcaismo colto di Griffith M. Baldwin e il paesaggismo cubistizzato di Vilmos Aba Novák. 
D’altra parte, il tentativo di promuovere una nuova pittura di storia contemporanea, attraverso l’istituzione di ben diciotto concorsi a premio, si scontra - come ci ricorda Piero Torriano nell’“Illustrazione Italiana” del 20 maggio 1934 - con «la riluttanza dei giovani alla pittura di soggetto», già anticipata dal Referendum sul quadro storico lanciato l’anno precedente da Vincenzo Costantini in “Le Arti Plastiche”. 
Con l’edizione del 1934, il processo di selezione degli artisti, a partire dalle sindacali regionali e nazionali, favorisce anche l’ingresso dei giovani alla manifestazione veneziana. La presenza dei giovani «venuti a prendere il posto dei maestri più anziani ritiratisi ormai dall’agone», scrive Maraini nell’introduzione, intende mutare e rinnovare la Biennale. Nonostante questo indirizzo, le scelte illustrative dell’articolo di Torriano del 20 maggio favoriscono le opere di artisti nati tra 1879 e 1886 come Felice Carena, Ardengo Soffici, Carlo Carrà, Domenico Colao, Casorati. Testimoniano, d’altronde, il prevalere nell’esposizione dei dipinti di fi gura e, al contempo, l’ambizione di Maraini di chiudere un periodo, troppo lungo, di «artificiose novità», cioè di quanto egli stesso definisce «la pittura di Parigi», prospettando la visione di «una sensibilità rasserenata e aperta alla bellezza» e dunque di un processo di normalizzazione del linguaggio artistico nazionale nel quale recuperare anche la produzione dei più giovani. 


Raffaele Calzini, Cronache della Biennale veneziana. Prima giornata, “Il Secolo XX”, 5 maggio 1930.

Nella sala dei Futuristi: lo scultore 􀂄 Gli stranieri a Venezia, Thayaht, il pittore Prampolini “Il Secolo XX”, 20 maggio e l’accademico F.T. Marinetti, durante 1930. il vernissage. Piero Torriano, L’inaugurazione della XVII Biennale veneziana, “L’Illustrazione Italiana”, 11 maggio 1930.


Un gruppo di personalità: A. Wildt, l’on. Oppo, F. Casorati, Margherita Sarfatti, Ugo Ojetti, il Segretario A. Maraini e A. Cataldi. Piero Torriano, L’inaugurazione della XVII Biennale veneziana, “L’Illustrazione Italiana”, 11 maggio 1930.



Gli stranieri a Venezia "il Secolo XX", 20 maggio 1930.


Piero Torriano,
La XIX Biennale veneziana, “L’Illustrazione Italiana”, 20 maggio 1934. 

LA QUADRIENNALE



La Prima Quadriennale del 1931 ha un ampio consenso e accoglie, tra “invitati e accettati”, quattrocentottantasette artisti. Una disamina numerica che riassume il quadro delle scelte stilistiche dell’esposizione è presentata da Oppo nel discorso di chiusura della rassegna, non senza un certo rammarico per l’eccessiva indulgenza nella selezione, troppo eclettica. «Di questi artisti, poiché si è detto che sono tutti per la maggior parte novecentisti, 301 sono invece, al lume della più elementare valutazione critica, diciamo così, passatisti; una trentina appena, di cosiddetti novecentisti, 23 futuristi, e poco più di un centinaio gli artisti giovani né novecentisti né futuristi». 
La Seconda Quadriennale, inaugurata il 4 febbraio 1935, invece, si caratterizza per la presenza più audace di forze giovani. «Largo posto ai giovani artisti», scrive il redattore del “Corriere della Sera” nel 1934, promuovendo le personali di Francesco Messina, Mario Mafai, Fausto Pirandello, Quirino Ruggeri, dell’appena scomparso Scipione, di Enrico Paulucci, Marino Marini, Gisberto Ceracchini e la mostra degli aeropittori futuristi. 


Fra le opere degli artisti premiati alla Prima Quadriennale d’Arte Italiana a Roma, “Il Secolo XX”, 13 marzo 1931. Al centro il Pastor fi do di Arturo Martini, premiato per la sua sala personale.

A| Roberto Papini, La Triennale milanese delle arti, “L’Illustrazione Italiana”, 4 giugno 1933.


Alla Prima Quadriennale d’Arte Italiana, “Il Secolo XX”, 9 gennaio 1931. Ad Armando Spadini e Medardo Rosso sono dedicate due retrospettive.

La Sala degli Accademici: in primo piano sculture e disegni di Wildt. Piero Torriano, La prima quadriennale d’arte a Roma, “L’Illustrazione Italiana”, 11 gennaio 1931. Un’infilata di sale è dedicata agli accademici d’Italia: Adolfo Wildt, Pietro Canonica, Antonio Mancini, Giulio Aristide Sartorio. Le opere di Wildt sono sovrastate dalla grande statua del Puro folle.

Le eliminatorie per i premi della Quadriennale, “Quadrivio. Grande settimanale letterario illustrato di Roma”, 31 marzo 1935. Un fotomontaggio attribuibile a Vinicio Paladini rappresenta la competizione come un match di pugilato. Tra i boxeur, il Pugile (Frammento) di Marino Marini - che vince il Premio per la Scultura - colpisce con un gancio l’opera di Quirino Ruggeri, mentre il Bambino al mare di Francesco Messina sferra un colpo basso. Nel ring della pittura, si affrontano uno dei Ragazzi che giuocano al foot-ball di Mario Mafai, un atleta della Palestra di Fausto Pirandello e una figura di Gisberto Ceracchini. Il premio della pittura tuttavia va a Gino Severini.


L’organizzatore della Prima Quadriennale, on. C.E. Oppo, dà le ultime istruzioni per il collocamento delle opere nelle diverse Sale. Piero Torriano, La prima quadriennale d’arte a Roma, “L’Illustrazione Italiana”, 11 gennaio 1931.

Accompagnato dal Conte di San Martino e dall’on. Oppo, S.E. Mussolini visita l’esposizione nel giorno della “vernice” - 3 gennaio. Piero Torriano, La prima quadriennale d’arte a Roma, “L’Illustrazione italiana”, 11 gennaio 1931.

TRIENNALE

Per la prima edizione milanese della Triennale, sul piazzale verso il parco del Palazzo dell’Arte, appositamente progettato dall’architetto Giovanni Muzio, Sironi inserisce sei monumentali archi liberi in pietra di Vicenza, usati come elementi scenografici per parate o manifestazioni durante l’inaugurazione o i festeggiamenti. Nati come vere e proprie architetture effimere, verranno demoliti in vista della VI Triennale. 
Aldo Carpi, professore di pittura a Brera, è affascinato dalla loro visione notturna e nel maggio del 1933 così restituisce la sua meraviglia nella “Rassegna dell’Illustrazione Artistica”: «Avete veduto, dalla parte che guarda il parco, il Palazzo dell’Arte, dove è la Triennale, tutto illuminato la notte [...]; l’aspetto è fantastico, un po’ fi abesco, le linee che vivono sulle masse appiattite dalla luce, giganteggiano la loro spazialità e pare godano di quell’ora di festa, pare che le arcate siano  lunghe figure argentee in ritmica danza, unite per le mani, davanti al palazzo di un re!». 

Alla VI Triennale, nel 1936, l’accesso principale alle mostre non è nel Palazzo dell’Arte. Si entra, invece, «dalla parte di via Gadio, presso il Castello Sforzesco, e - cioè - dalla parte più vicina al centro della città. L’ingresso, dove hanno trovato posto le biglietterie, è protetto da una pensilina e annunziato, di lontano», dalla torre di vetrocemento disegnata da Giusep-199 pe Pagano. L’ossatura portante della torre «consiste in un grande pilastro angolare che costituisce i due lati della torre stessa. Gli altri due lati - visibili da via Gadio e da Viale Alemagna 
- sono interamante costituiti da pareti di vetrocemento armato» (Guida della VI Triennale, Milano, 1936). 

Raffaele Carrieri descrive ai lettori del “Secolo XX” una Triennale ancora deserta, illustrandola per contrasto con un’immagine della sala affollata alla cerimonia inaugurale, al cospetto del re Vittorio Emanuele: «Il teatro della Triennale non ha ancora inaugurata la sua prima rappresentazione. Il velario è chiuso e nessuno degli spettatori improvvisati ha il coraggio di sedersi per primo. Ci ritroviamo ancora nel vestibolo. Lo scalone monumentale ci serba una sorpresa. È il grande bassorilievo di Arturo Martini: Mosè salvato dalle acque. Di fronte a Martini, nella parete opposta c’è Marino Marini con un altro grande bassorilievo. Cinque minuti di riposo nel Salone delle cerimonie. Sembra di tornare ai fasti del Rinascimento. Sironi, Campigli, Funi, De Chirico vi hanno affrescato su ogni parete, una vasta allegoria. La pittura italiana non poteva avere un successo più lusinghiero di questo». 


C| L’inaugurazione della Triennale, il mattino del 10 maggio: la cerimonia alla presenza del Sovrano, nel salone d’onore del Palazzo dell’Arte. Raffaele Carrieri, La Triennale di Milano   aperta, “Il Secolo XX”, 13 maggio 1933.


B| La torre di vetro all’ingresso di via Gadio. F. F., L’Arte della Nuova Italia alla Sesta Triennale, “La Rivista illustrata del Popolo d’Italia”, giugno 1936. Fotografi a di Bruno Stefani.

C| L’inaugurazione della Triennale, il mattino del 10 maggio: la cerimonia alla presenza del Sovrano, nel salone d’onore del Palazzo dell’Arte. Raffaele Carrieri, La Triennale di Milano   aperta, “Il Secolo XX”, 13 maggio 1933.


D| A sinistra, Le madri, le contadine, le lavoratrici di Massimo Campigli; in fondo, Cultura italiana di Giorgio de Chirico e, nel vano, Le Arti di Gino Severini.

Un repertorio di scatti sull’esposizione, pubblicato nel numero speciale di “La Rivista illustrata del Popolo d’Italia”, documenta tutti gli interventi «delle arti decorative, dell’architettura, dell’abitazione moderna», presentando una spettacolare infilata di fotografie del Salone delle Cerimonie e della galleria adiacente. 
La decorazione astratta del soffitto scandisce l’architettura, mentre le pareti ovest e nord sono coperte dal ciclo delle pitture murali dedicato al tema dell’Italia nelle varie manifestazioni del lavoro, 201 dello sport, dello studio e della vita famigliare. 
Sulla parete est la serie dei grandi finestroni affacciati sulla terrazza è interrotta al centro dalla vetrata di Sironi; la sala è modulata dai lunghi lampadari in bronzo e vetro ondulato che scendono dal soffitto (Giorgio de Chirico li definisce «colossali scaldabagni»), realizzati da Venini su disegno di Angelo Bordoni, Antonio Carminati e Sironi stesso. Quest’ultimo disegna anche le sedie e il trono per Vittorio Emanuele, troppo grande per la piccola statura del re; così, il giorno dell’inaugurazione le sue gambe non toccano terra e qualcuno accorre con uno sgabello barocco che il sovrano allontana immediatamente con un calcio. 
Per alcuni critici, la «grande affermazione odierna» della V Triennale è data dalla Mostra Internazionale di Architettura Moderna, organizzata nel lungo emiciclo al piano terra del Palazzo dell’Arte. Essa deve rappresentare al pubblico «uno stile che ha la sua radice nella tecnica e il suo fi ore nella fantasia», scrive Roberto Papini in “Emporium” nel dicembre 1933. 
Al visitatore si presenta la visione di una grande galleria al cui centro si accampano una serie di “foto mosaici”, disposti a guisa di quinte teatrali, che offrono una panoramica dell’architettura recente di ciascun paese presente all’esposizione. Sui lati, altrettante gigantografie propongono le architetture italiane e straniere distribuite per soggetti; una terza sezione riunisce le opere costruite dagli architetti italiani negli ultimi anni; una quarta sezione è dedicata alle «più spiccate personalità dell’architettura moderna», come si legge nel catalogo. 
Nonostante la rilevanza della mostra, il pubblico risponde con una certa esitazione alle proposte visive della lunga sala; le ragioni sono da ricercarsi, secondo Papini, nella difficoltà a comprendere e giudicare l’architettura, mentre Ugo Ojetti, nel “Corriere della Sera” del 26 maggio 1933, si identifica con l’anonimo visitatore che, a dispetto del tedio provocato dalla successione delle fotografie, si rallegra per il refrigerio - siamo a fine maggio - di uno spazio poco affollato dell’esposizione: «Entriamo ad esempio nella lunga sala della Mostra d’architettura. È una mostra, purtroppo, di centinaia di fotografi e e perciò non molto frequentata. Ci si trova in pochi e al fresco: un riposo». Lo stesso Edoardo Persico, nell’“Italia Letteraria” del 2 luglio, rammenta che alla mostra di architettura, «i critici e il pubblico capitano, per lo più, dopo aver girato le altre sezioni e passeggiato per il parco. È una visita di rigore, sbrigata in fretta e furia con la testa confusa e le gambe stanche, tanto da poter dire che si è visto tutto...». 
Fuori, nel parco, l’allestimento della V Triennale è moltiplicato dalla Mostra dell’abitazione, con oltre trenta dimore esemplari: dei veri e propri padiglioni di architettura. Le case-padiglione, completamente arredate secondo il gusto moderno, sono affidate a giovani architetti e dedicate a problemi determinati da bisogni particolari: dalla casa di un conduttore di fattoria alla casa per le vacanze di un artista sul lago, dalla casa del sabato per i giovani sposi alla casa tutto acciaio, dal gruppo di cinque case per le vacanze 
alla villa studio per un artista. Il fine di queste tipologie è di collaudare nuove ricerche distributive e le applicazioni dei materiali moderni; inoltre, di conferire singolarità e privilegio a ogni ambiente, depurato da qualunque ridondanza decorativa. Anche in questo caso le critiche fioccano da parte dei più tradizionalisti. «Prima di tutto - scrive ancora Ojetti sul “Corriere della Sera” - si vede che tutti questi architetti hanno immaginato d’avere per committenti o per abitanti soltanto giovani di buona salute ai quali anche dormendo piaccia la luce o almeno la penombra data dalle tende e dalle cortine sulle grandi vetriate: giovani, s’intende, dei due sessi, e stagioni senza l’uggia della piova o del vento. Si tratta insomma di attendamenti in muratura, coi comodi che solo la tenda non può dare». 



F| Accanto a I giochi atletici italiani di Achille Funi s’intravede l’opera di de Chirico.

G| Nella galleria adiacente, sulla stessa parete sono collocati La quarta dimensione di Enrico Prampolini e Lavoro dei campi di Raffaele De Grada; di fronte, Ciclo della terra a Dio di Renzo Sosso e Bagnanti di Emilio Sobrero.

LA MOSTRA DELLA RIVOLUZIONE FASCISTA

Il 29 ottobre 1932 a Roma, la Mostra della Rivoluzione Fascista - organizzata per il decennale della Marcia su Roma - viene aperta nel Palazzo delle Esposizioni. Concepita come una presentazione della “storia in atto”, dall’interventismo alla marcia su Roma, ottiene un tale successo da rimanere aperta per due anni. Nella “Rivista illustrata del Popolo d’Italia” Margherita Sarfatti la definisce «una cattedrale, dove le mura parlano». 
Il contributo alla sua progettazione da parte di artisti di diverse tendenze italiane del momento - come gli architetti Mario De Renzi, Adalberto Libera, Giuseppe Terragni e i pittori Sironi, Funi, Nizzoli, Enrico Prampolini, Gerardo Dottori, Mino Maccari - conferisce alla mostra un carattere particolarmente avanzato di sperimentazione visuale-percettiva che la collega a precedenti esperienze marcatamente d’avanguardia, come la Mostra della Stampa di Colonia del 1928, dove il padiglione sovietico di El Lissitzky aveva rappresentato la punta “linguisticamente” più avanzata. La rappresentazione fotografica vi svolge un ruolo di primaria importanza: fotomontaggi, gigantografie, ingrandimenti - tutte forme particolarmente effi caci per una moderna comunicazione di massa - si mescolano alle parti grafi che e a testi e slogan, variamente composti e disposti, anche tridimensionalmente, rivestendo le pareti dal pavimento al soffitto. 

B | La guardia alla Mostra della Rivoluzione Fascista. Ottavio Dinale, La Mostra della Rivoluzione, “La Rivista illustrata del Popolo d’Italia”, maggio 1933. Fotografia di I. Bertoglio.

E | Mario Ferrigni, Offerta di fede, “La Lettura”, ottobre 1933. Il muro di fronte all’ingresso della Sala dell’Avvento del Fascismo è occupato per intero dal rilievo appena sbozzato dei due “fascisti guerrieri” nell’atto di alzare il vessillo della vittoria con accanto lo slogan nietzschiano “Volontà di Potenza”. La statua Dux di Quirino Ruggeri domina lo spazio dall’alto di una grande nicchia. Il Duce tiene libro e moschetto, simboli della vita attiva e contemplativa del “fascista perfetto”.


C | Ottavio Dinale, La Mostra della Rivoluzione: Milano, “La Rivista illustrata del Popolo d’Italia”, agosto 1933. La facciata degli architetti Mario De Renzi e Adalberto Libera s’impone come una fabbrica moderna con i suoi fumaioli; sulla struttura geometrica rossa «come il colore della rivoluzione e il sangue dei martiri», spiccano quattro fasci alti 25 metri.

F - Dalla Vittoria alla Fondazione dei Fasci Italiani di combattimento. Ottavio Dinale, La Mostra della Rivoluzione: Milano, “La Rivista illustrata del Popolo d’Italia”, agosto 1933. Questa sala è stata realizzata dal pittore Arnaldo Carpanetti sulla traccia elaborata dallo storico Giovanni Capodivacca. La statua rappresenta «la bestia ritornante del bolscevismo», della propaganda sovversiva, contro cui insorge l’azione del Duce con atti e parole memorabili e grazie all’azione del “Popolo d’Italia”.


A | P. M. Bardi, Alla Mostra nelle loro impressioni. Una vecchietta della Rivoluzione. I visitatori, “Il girava insieme col figlio, come Secolo Illustrato”, 22 aprile 1933. smarrita in mezzo allo scenario e il Uno spettacolo nello spettacolo della figlio le spiegava, con frasi semplici, Mostra è il pubblico: «Le masse i grandi fatti». Il numerosissimo sono le attrici. Quanti personaggi ne pubblico della mostra è rappresentato abbiamo seguiti, abbiamo udito il nell’articolo da un montaggio loro parlare, ci siamo immedesimati “moderno” di tagli fotografici.

D - Mario Ferrigni, Offerta di fede, “La Lettura”, ottobre 1933. Nel Salone d’Onore, inquadrato da due pareti laterali a forma di fasci, Mario Sironi ha ricostruito fedelmente, come in un tabernacolo, il primo ufficio di Mussolini, il “covo” di via Paolo da Cannobio a Milano, originaria sede del “Popolo d’Italia”: «è la stanzetta semplice, breve e disadorna, dalla quale il Duce diresse la campagna per l’Intervento, incitò alla resistenza durante la guerra, propugnò la difesa della Vittoria, organizzò la fondazione dei Fasci di Combattimento. Dalla fine del ’14 ai primi del ’20, quanta storia è passata per quella stanzetta rude come un posto di comando!» (Mostra della rivoluzione fascista. Guida storica, a cura di D. Alfieri e L. Freddi, 1933). 

G | Il Sacrario dei Martiri (architetti Adalberto Libera e Antonio Valente). Margherita Sarfatti, La Mostra della Rivoluzione, “La Rivista illustrata del Popolo d’Italia”, novembre 1932. I martiri, celebrati in sei gironi lungo le pareti circolari del Sacrario, rispondono: «Presente!» al tacito appello dei vivi. Al centro si erge una croce di metallo con la scritta «Per la Patria immortale».


H | La Galleria dei Fasci. Nel fondo l’Italia in cammino, di Mario Sironi. Luigi Bottazzi, La Mostra della Rivoluzione Fascista, “La Lettura”, dicembre 1932. Nella parete di fondo, inserita in una cortina di mattoni, è una statua dell’Italia (di Antonio Maiocchi e Quirino Ruggeri su disegno di Sironi) affiancata da un cavallo: «raffi gurazione sobria ed efficace della Nazione in marcia». Le due pareti laterali sono decorate da dieci elementi architettonici su ognuno dei quali spicca una data chiave della “rivoluzione” dal 1914 al 1922. Nei vani tra un elemento e l’altro trova spazio una selva di gagliardetti fascisti, di fiamme, di labari, di guidoni, di insegne: «simboli appassionati del Fascismo».

L’ESPOSIZIONE DELL’AERONAUTICA 

La consacrazione pubblica del mito dell’aviazione avviene a Milano nel giugno 1934, quando è allestita nel Palazzo dell’Arte l’imponente Esposizione dell’Aeronautica italiana, il cui successo è tale da farne posticipare la chiusura, da ottobre a dicembre. A volerla, il Podestà di Milano e presidente del Comitato organizzatore, duca Marcello Visconti di Modrone, già pilota di guerra. 
Annunciandone su “L’Ambrosiano” l’apertura il 16 giugno, Raffaello Giolli ne canta il carattere lirico: «Cieli rosso-fiamma e cieli ocra, cieli candidi e turchini sviano da sala a sala, come da mondi a mondi. Larghe pareti a curve su cui s’alzano come su schermi le proiezioni d’altri mondi, lontani da noi; 
improvvise pareti alte, trasparenti di brillanti fili metallici, argentei; vetrine in cui ondeggiano candidi paracaduti come meduse sotto un velo d’acqua; colori inattesi, piani chiari, cieli fotografici di nubi irreali». Il percorso espositivo si svolge in ventitré capitoli che raccontano la storia del volo, dalla mitologia all’attualità, con la partecipazione di artisti come Sironi, Pratelli, Munari, Martini e architetti in gran parte legati alle tendenze moderniste: Luciano Baldessari, Ernesto Nathan Rogers, Gian Luigi Banfi , Enrico Peressutti, Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Pagano, Ponti, Nizzoli, Luigi Figini, Gino Pollini, Franco Albini. 




Alla Mostra Aeronautica Italiana (particolare della facciata). “Rivista illustrata del Popolo d’Italia”, luglio 1934. La decorazione della facciata, su progetto di Erberto Carboni, trasforma la fronte del Palazzo dell’Arte in un infinito cosmico azzurro, su cui si stagliano uno stormo di aerei d’argento e fascio littorio.
Di notte, tutta la composizione è illuminata.

A. M. Mazzucchelli, Stile di una mostra, “Casabella”, agosto 1934. Sulla parete di fondo del Salone della Crociera del Decennale allestito da Pagano e dedicato alla trasvolata atlantica di Balbo, c’è la monumentale azzurro, su cui si stagliano uno Vittoria del Cielo di Martini, un attorniata da un corteggio di aeroplani-uccelli: è una Di notte, tutta la composizione gigantesca figura femminile in bronzo con le braccia semiaperte lungo il corpo, mentre alla base due delfini alludono alla traversata dell’oceano. La trasfi gurante narrazione storica è fondata sul documento fotografico, sul bianco e nero di ingrandimenti che rivestono quasi completamente le tre pareti libere del salone. Un ritmo di cornici d’argento divide i grandi scomparti e le illustrazioni si susseguono per associazioni d’idee: in alto a grandi dimensioni le macchine, in basso i documenti, le cerimonie, gli episodi gloriosi.

DUE MOSTRE AUTARCHICHE 

Con l’avvio delle mostre celebrative del Decennale nel 1932, il duce promuove, nell’intento di “fascistizzare le masse”, una serie di esposizioni strategiche per la politica del regime: dalla I Mostra Nazionale delle Bonifiche, Roma 1932, alla Mostra dello Sport, Milano 1935; dalla Mostra delle Colonie Estive e dell’Assistenza all’Infanzia a quella del Tessile Nazionale, entrambe a Roma, 1937; dalla Mostra autarchica del Minerale italiano e quella del Lavoro e del Dopolavoro, entrambe a Roma, 1938, alla Mostra Triennale delle Terre Italiane d’Oltremare, Napoli 1940.
Ognuna rappresenta un aspetto della vita pubblica dell’Italia fascista ed è basata su allestimenti spettacolari, aggiornati al più avanzato gusto internazionale nel campo del display, dove prodotti commerciali e industriali dialogano con opere d’arte, documenti, fotografie e fotomontaggi. 

Nel 1937 a Roma viene organizzata una mostra dedicata al settore del tessile, che ospita le produzioni di aziende esclusivamente italiane. Nella sala dei coloranti nazionali l’illuminazione, a luce riflessa mediante una grande curva, «è stata studiata con piena consapevolezza decorativa. Le luci colorate che, di notte, mutano ritmicamente il colore e il tono della sala e quindi della sua vasta fronte vetrata, giungono a dare un’aura di leggenda al padiglione e, per essere quello centrale, a tutta la mostra» (Agnoldomenico Pica, Mostra del tessile a Roma, “Casabella” gennaio 1938). 
Tra le uscite internazionali, nel 1937 è di particolare rilievo la partecipazione italiana all’Exposition International des Arts et Techniques di Parigi. Vi suscita grande impressione la Vittoria marinara, uno dei quattro gruppi scultorei in gesso colorato (gli altri sono Marinai che salpano, La rotta del sole e La Dea del Mare) commissionati dagli architetti BBPR a Fontana per il Padiglione delle compagnie di navigazione Italia, che viene installato su una zattera di 40 metri di lunghezza, galleggiante sulla Senna, di fronte al Padiglione Italiano progettato da Marcello Piacentini. Pagano è invece il responsabile degli allestimenti e autore del Salone d’Onore, dove viene collocato il mosaico di Sironi Il lavoro fascista (successivamente noto come L’Italia corporativa), la cui parte centrale era già stata esposta alla VI Triennale del 1936. La zattera, in cemento armato, consiste in un corpo basso, di pianta rettangolare, da cui si ergono venti pennoni pavesati, alti circa 20 metri, divisi in quattro gruppi. Ognuno, composto da cinque alberi, trattiene, sospesi a notevole altezza, i bassorilievi colorati in gesso di Fontana, fissati ai piloni con un sistema di lacci e funi.

L'ESPOSIZIONE DI PARIGI

A prua e a poppa del padiglione, due enormi fotomontaggi di diciotto metri quadrati danno l’illusione di un orizzonte marino. Il tema è quello dell’evocazione magica del mistero del mare, del viaggio, combinato alla celebrazione patriottica delle recenti imprese marinare d’Italia. 
La Vittoria Marinara - andata distrutta - era costituita da una fi gura bianca di Vittoria alata, trainata su un carro da una pariglia di cavalli scuri, anch’essi alati: recava in una mano un fascio, nell’altra un’icona di vittoria, ed era seguita da un personaggio di profilo, in movimento, con un braccio proteso in avanti verso il carro. 


Marcello Nizzoli e Angelo Bianchetti: Mostra del Tessile a Roma - i Coloranti Nazionali. Nel 1937 a Roma viene organizzata una mostra dedicata al settore del tessile, che ospita le produzioni di aziende esclusivamente italiane. Nella sala dei coloranti nazionali l’illuminazione, a luce riflessa mediante una grande curva, «è stata studiata con piena consapevolezza decorativa. Le luci colorate che, di notte, mutano ritmicamente il colore e il tono della sala e quindi della sua vasta fronte vetrata, giungono a dare un’aura di leggenda al padiglione e, per essere quello centrale, a tutta la mostra» (Agnoldomenico Pica, Mostra del tessile a Roma, “Casabella” gennaio 1938). 


Mario Paniconi e Giulio Pediconi: Mostra del Dopolavoro a Roma – sezione dell’Educazione Fisica. Queste illustrazioni sono tratte da: Alessandro Pavolini e Giovanni Ponti, Le arti in Italia, Edizioni Domus, 1939.




Una statua di Fontana sospesa fra le armature della maona "Italia" R. Zvetermich, Poesia del mare all'Esposizione di Parigi, "Natura. Rivista mensile illustrata", ottobre 1937. «Sospesi fra le bianche alberature, proiettati sul cielo vasto e mosso oppure, cambiando la visuale, sull’acqua viva della Senna i quattro gruppi plastici e policromi di Fontana, parlano della fantasia con un richiamo che insiste sui motivi lirici più puri».

GLI ARTISTI

Negli anni Trenta, l’immagine dell’artista al lavoro diventa un vero e proprio genere giornalistico, che inizia il pubblico delle riviste illustrate al “mistero” della creazione artistica, facendolo entrare direttamente nell’intimità dei pittori moderni. È un’attenzione che coinvolge sia i protagonisti della grande pittura italiana a cavallo dei due secoli, Antonio Mancini ne è l’ultimo rappresentante, sia interpreti dell’arte d’avanguardia come il futurista Dottori. 

ATELIERS
Commentando una scelta di fotografie che testimonia le consuetudini artistiche più attuali, Raffaele Carrieri osserva con occhio vigile gli ultimi mutamenti del gusto: «Cambia la moda, si ritorna a dipingere negli ateliers, modelle cambiate di colore, con sguardi di zolfo e braccia di liquerizia. Le sartine e le modiste, care alla fantasia di Murger, si sono tramutate in veneri negre. Le compagne fedeli dei pittori sono i manichini delle grandi sartorie, le stelle comete, gli idoli messicani [...] Il classico atelier, nido di baldorie e di malinconie, con i suoi tappeti di Smirne, le sue sciarpe sivigliane e le sue maschere di Beethoven in scagliola di Lucchesia non ornano più le pareti tappezzate di carta damascata [...] L’atelier subisce le stesse influenze e mutamenti dello stile del pittore». Lo studio di Arturo Tosi è «silenzioso, rettangolare, bianco»; ma per andare a trovare Sironi a Milano bisogna recarsi «verso Porta Genova; paesaggio di periferia solcato da ciminiere e da tetti rossi, color ruggine come in certe visioni metropolitane del pittore [...] Sironi indossa la blusa color sifone dei marinai marsigliesi [...] Su dei trespoli di ferro penzolano le padelle di stagno con le spalle bleu delle lampadine d’alta tensione; non sono né riflettori di teatro né lanterne di fari; Sironi se ne serve per creare il sole artificiale nelle foreste vergini». Diversamente, gli studi di Anselmo Bucci e Cesare Tallone presentano un décor più tradizionale. Con Bucci si ritorna al vecchio atelier romantico: «divani turchi e all’italiana, pareti foderate di libri legati in marocchino e tele nascoste da una serie di tendaggi in juta come i fondali di teatro». 


Un pittore futurista al lavoro. (Eppure tengono il pennello come gli altri!…). Alfredo Panzini, Ottocento, Novecento, Futurismo, Razionalismo, “La Lettura”, marzo 1934. Il pittore è Gerardo Dottori. 

Il 28 dicembre è morto a Roma il pittore Antonio Mancini, Accademico d’Italia: una recentissima fotografi a dell’artista eseguita mentre lavorava ad un quadro destinato alla prossima Quadriennale romana. “Il Secolo XX”, 2 gennaio 1931.


Raffaele Carrieri, Ateliers, “Il Secolo Illustrato”, 22 novembre 1931. Il carattere “magico” degli studi di Marino Marini e di Giacomo Manzù ne fa un soggetto di speciale fascino per la fotografia, mentre Gabriele Mucchi ricostruisce la stessa atmosfera sospesa fermando in uno scatto fotografico gli oggetti predisposti per una natura morta.


Leonida Rèpaci, Mito moderno di Marino, “Lo Stile nella casa e nell’arredamento”, gennaio 1941. «La vittoria di Marino è fissata in quell’ora, esattamente le 5 e 18 in cui gli venne la fama col Premio della Seconda Quadriennale Romana. [...] C’è intorno [...] ai pezzi più felici dello scultore pistoiese un’aura di mistero che li sottrae ai limiti dell’evidenza. C’è un di più che investe l’immaginazione e i suoi portenti».

Non è soltanto l’atelier il luogo della creazione artistica: anche gli interventi pubblici degli artisti nei cantieri dell’architettura moderna sono seguiti e descritti con cura dalla stampa. Martini è ripreso mentre completa il modello del Cristo, commissionato da Piacentini per la facciata del Tempio Votivo della Pace del Sacro Cuore di Cristo Re, inaugurato a Roma il 20 maggio 1934; Funi è colto sul ponteggio dell’affresco absidale per la stessa chiesa. 

“Lo Stile nella casa e nell’arredamento”, gennaio 1941. «Lo studio di Manzù è il più modesto che si abbia mai visto. Nessun oggetto vi è ammesso che non sia ‘necessario’ al lavoro. [...] Si sente l’odore della terra umida, pronta a essere modellata e quello della cera orientale che Manzù sa usare con perfetta sapienza». Fotografia di Alberto Lattuada.


Leonida Rèpaci, Mito moderno di Marino, “Lo Stile nella casa e nell’arredamento”, gennaio 1941. Si riconosce il gesso di un Cavallo del 1939.

Leonida Rèpaci, Mito moderno di Marino, “Lo Stile nella casa e nell’arredamento”, gennaio 1941. Dall’alto a sinistra, un San Giovanni, un nudo femminile e il gesso di un Ritratto di Paola del 1935.


“Lo Stile nella casa e nell’arredamento”, gennaio 1941. «Lo studio di Manzù è il più modesto che si abbia mai visto. Nessun oggetto vi è ammesso che non sia ‘necessario’ al lavoro. [...] Si sente l’odore della terra umida, pronta a essere modellata e quello della cera orientale che Manzù sa usare con perfetta sapienza». Fotografia di Alberto Lattuada.

Non è soltanto l’atelier il luogo della creazione artistica: anche gli interventi pubblici degli artisti nei cantieri dell’architettura moderna sono seguiti e descritti con cura dalla stampa. Martini è ripreso mentre completa il modello del Cristo, commissionato da Piacentini per la facciata del Tempio Votivo della Pace del Sacro Cuore di Cristo Re, inaugurato a Roma il 20 maggio 1934; Funi è colto sul ponteggio dell’affresco absidale per la stessa chiesa. 

Il “Cristo” di Arturo Martini, destinato alla facciata della Chiesa. Opere di arte sacra che adorneranno il Tempio della Pace, edificato in Roma da Marcello Piacentini, “Colonna”, febbraio 1934.


Il “Cristo” di Achille Funi, dipinto a fresco nell’abside della Chiesa. Opere di arte sacra che adorneranno il Tempio della Pace, edificato in Roma da Marcello Piacentini, “Colonna”, febbraio 1934.

Misteriose divinità dimorano nelle case degli scultori. Ecco Marino Marini accanto a una grande mitica testa muliebre. Raffaele Carrieri, Da Tranquillo Cremona ai manichini - Giro intorno agli “studi” dei pittori, “La Lettura”, febbraio 1936.


Arte dei giovani, “Aria d’Italia”, primavera 1941. Giacomo Manzù in grembiule da operaio nel suo studio all’Accademia di Brera – dove è titolare dal 1940 della cattedra di scultura – contempla il Ritratto di Ada.


Il Duce posa per il pittore Gaudenzi, “Documento. Periodico d’attualità”, febbraio-marzoaprile 1943.

ARTISTI DA ROTOCALCO

L’immagine dell’artista come celebrità, protagonista della società del tempo, trova spazio sui rotocalchi anche indipendentemente dalla presentazione del suo lavoro. Il pittore Pietro Gaudenzi conversa con il duce da pari a pari. Vincenzo Gemito posa ispirato per il fotografo appoggiato a una misteriosa concrezione minerale che sembra una specie di pietra lunare. «O’ scultore pazzo», appare ad Alberto Savinio - che ne scrive in “Colonna” nell’aprile 1934 - come il prototipo di una tradizione che si è guadagnata una “seconda vita”, scavalcando impressionismi e postimpressionismi in una fuga fuori dal tempo «verso i mari della Grecia. […] Le statue di Gemito sono i passatempi di un demiurgo». In una recensione al Salon d’Automne del 1931 apparsa sul “Secolo XX” il 20 novembre, Raffaele Carrieri rende partecipe il pubblico italiano della confusione mondana del vernissage, con la presenza di celebri artisti moderni all’inaugurazione: «ecco fra la folla, la barba bianca di Van Dongen, gli occhiali a tartaruga di Foujita, la chioma sivigliana di Picasso. I collezionisti di autografi rincorrono le celebrità, i reporters fotografici dei giornali illustrati aprono il mantice delle macchine da presa, facendo scattare, fra la paura generale, i lampi al magnesio». In quegli anni si diffondono abbondantemente sulle pagine di tutte le riviste illustrate europee, dalla francese “Vu” all’italiana “Il Secolo Illustrato”, le fotografie d’agenzia degli artisti “alla moda” in pose bizzarre o abbigliamento esotico, come Tsuguharu Foujita a Deauville o Van Dongen nello studio, favorendo ulteriormente l’elaborazione di un’immagine popolare dell’artista i cui stravaganti comportamenti sono elevati al rango di spettacolo. 
«È un errore credere che l’arte sia prodotta esclusivamente da chi fa dell’arte il mestiere abituale. Vi sono artisti di alto valore, come del resto esistono scrittori rinomatissimi, che producono arte a tempo perso, nei ritagli di tempo, liberi da altre occupazioni». Secondo Pietro Maria Bardi, mercante e giornalista, gli autentici artisti contemporanei non vanno ricercati nella gerarchia accademica ma piuttosto tra i pittori dilettanti, i veri interpreti del tempo. I pittori descritti da Bardi e rappresentati nella campagna fotografica del “Secolo Illustrato” risultano ben noti all’ambiente artistico milanese e romano: sono tutti artisti dilettanti che Bardi si vanta di aver scoperto e promosso a partire dalla cosiddetta Scuola di Legnano, il gruppo di “candidi” che fa la sua apparizione sul mercato milanese alla fine del 1931, con un’esposizione alla Galleria del Milione. Un «caso di cui si è parlato molto» è quello di Francesco Di Terlizzi, un carabiniere-pittore scovato da Tullio Garbari e Carlo Belli, mentre Grazio Orsetti è un impiegato del dazio di Milano. La fotografi a al vertice della pagina ha come protagonista il portiere della Lazio Ezio Sclavi, portato agli onori della cronaca dallo stesso Bardi, mentre nella sua cucina adibita ad atelier prende lezioni di pittura da Corrado Cagli. 


Vincenzo Gemito, morto a Napoli il 1 marzo. “Il Secolo XX”, 5 marzo 1929. 219 

Arte dei giovani, “Aria d’Italia”, primavera 1941. Eugen Haas ritrae Renato Guttuso nel 1939, con l’immancabile sigaretta in bocca, nello studio romano al sesto piano di un edifi cio popolare in via Melozzo da Forlì 1, dove ha dipinto Fuga dall’Etna.

“La donna perfetta”: così un pittore alla moda, Van Dongen, giudica la signorina Maureen Forrester Hagard, una bionda irlandese che ha posato per un ritratto esposto al salon con il titolo: “Venere moderna”. Le parigine ne hanno fatto un can-can. “Il Secolo XX”, 20 marzo 1930.


Il suo studio era una specie di palcoscenico metafisico. Raffaele Carrieri, Fantasia lunare, “La Lettura”, febbraio 1938. La pittrice triestina Leonor Fini, eccentrica figura del movimento surrealista internazionale, si specchia nel suo studio parigino.


Il pittore Giorgio De Chirico che reduce da una lunga permanenza nel Nord America, dove la sua arte ha ottenuto grandi riconoscimenti, è tornato in Italia. De Chirico terrà prossimamente una sua mostra personale a Milano.


Ultimi palpiti di vita balneare – Un pittore e una modella che gareggiano in eccentricità: Foujita il grande artista giapponese dalla stravagante acconciatura, sta ritraendo l’elegantissima Suzy Solidor, con una matita che non gli consentirà molte sfumature! “Il Secolo Illustrato”, 3-10 settembre 1927.

Raffaele Carrieri, F. T. M. ovvero: Vita privata di Sua Eccellenza, “Il Secolo Illustrato”, 18 novembre 1933. Alle spalle di Marinetti si riconosce Dinamismo di un footballer di Boccioni.


P.M.B. [Pietro Maria Bardi], I “pittori della domenica”, “Il Secolo Illustrato”, 5 agosto 1933.

MARINETTI IL FUTURISTA

Il futurismo - sempre molto presente nella vita artistica italiana, negli anni Trenta soprattutto con l’aeropittura - è raccontato ai contemporanei principalmente attraverso la figura di Filippo Tommaso Marinetti, dal 1929 Accademico d’Italia: esponente di punta dell’ufficialità nazionale ma al tempo stesso esplosivamente e caleidoscopicamente dinamico su tutti i fronti della creazione artistico-culturale del tempo. Carrieri ne segue una giornata tipo in un frenetico crescendo d’impegni promozionali e di rivisitazioni in chiave futurista di qualsiasi banale attività quotidiana: «Ieri dov’era? In cielo, in terra e da per tutto. Oggi, anzi in questo momento, è a Roma. Ha inaugurato con un discorso-bombarda la grande esposizione futurista. È apparso e scomparso. Fra questi due tempi […] ha risposto a sette telegrammi e a trentacinque telefonate. I secondi di Sua Eccellenza sono elastici».


I palati “ufficiali” si abituano ai bocconi futuristi. Raffaele Carrieri, Rivoluzione in cucina, ovvero: culinaria futurista, “Il Secolo Illustrato”, 24 giugno 1933. La rivoluzione futurista in cucina è piena di «trovate dinamiche» – Pranzo Astronomico, Boccone Squadrista, Garofani allo Spiedo, Antipasto Intuitivo.

Lukas [Raffaele Carrieri?], “Dal vero”? (come “vedono” i pittori moderni), “Il Secolo Illustrato”, 23 aprile 1932.


Il visitatore in grigio, “Arte degenerata”. La mostra dei mostri a Monaco, “Il Secolo Illustrato”, 11 dicembre 1937.

Manifesto antisemita per la difesa della maternità in Germania, “Omnibus. Settimanale di attualità politica e letteraria”, 22 maggio 1937.

BIZZARRIE E DEGENERAZIONI

Nel 1932, ancora Raffaele Carrieri, probabilmente, con lo pseudonimo di Lukas pone la questione dell’imitazione del “vero” nella pittura moderna: «La somiglianza fotografica di una volta, dicono i pittori dell’avvenire, non interessa più neanche i fotografi del formato gabinetto… L’invenzione, la fantasia, la magia; ecco le chiavi inglesi di una nuova estetica… De Chirico invece di volti dipinge uova di struzzo. Una donna innamorata? Ecco che al posto dei seni sbocciano capitelli jonici e colonne doriche, cimieri clipeati e batuffoli di stoppa colorata». Una serie di tableaux vivants fotografici reinterpreta scherzosamente i quadri che illustrano l’articolo: con una bella ragazza, lo stesso Carrieri mette in scena più prosaicamente la metafisica di de Chirico; lo slancio di due modelle nude replica due misteriose figure di Savinio; Prampolini appare molto più “bello” nella fotografia che nell’autoritratto… È bizzarra la visione dei pittori moderni, ma non ancora “degenerata”. Così viene definita qualche anno più tardi al tempo della mostra Entartete Kunst a Monaco (1937), dove si offre allo scherno del pubblico un’esposizione di pitture e sculture d’avanguardia messe al bando dai nazisti per l’allontanamento dai canoni dell’arte “classica”. La “corsa al brutto” di tanti pittori moderni, “ex geni”, è documentata in un articolo di costume di un anonimo “visitatore in grigio” attraverso le opere degli espressionisti Erich Heckel, George Grosz, Emil Nolde, Karl Schmidt-Rottluff, Karl Hofer. La questione è d’attualità e anche “Omnibus” riproduce con gran rilievo, in prima pagina, un pannello antisemita della manifestazione monacense, dove in primo piano si riconosce una scultura in legno colorato di Ernst Ludwig Kirchner. Dopo la mostra tedesca del 1937 e il varo - nel 1938 - di leggi razziali pure in Italia, i toni si fanno ben più aggressivi, con ricadute anche “artistiche”, negli articoli scritti da Telesio Interlandi e Giuseppe Pensabene per le riviste “Tevere”, “Quadrivio” e “La difesa della razza”. 

Un rito d’amore e di fede celebrato a Milano. Il Duca d’Aosta inaugura il Tempio della Vittoria, di cui vediamo qui uno dei due grandi gruppi equestri di Libero Andreotti: “Il ritorno dalla guerra”. “Il Secolo Illustrato”, 10-17 novembre 1928. Il gesso del gruppo monumentale del Ritorno dopo la Vittoria, commissionato a Libero Andreotti per il Tempio della Vittoria eretto da Giovanni Muzio a Milano (con la collaborazione di Alberto Alpago Novello, Ottavio Cabiati, Tommaso Buzzi e Gio Ponti e con la supervisione artistica di Ugo Ojetti e Margherita Sarfatti) è collocato sul sagrato del Tempio in occasione dell’inaugurazione, il 4 novembre 1928, ma non viene poi fuso in bronzo.


Raffaele Carrieri, Una statua e un popolo, “Il Secolo Illustrato”, 29 febbraio 1936. «In mezzo allo studio un blocco di pietra chiara coperto da una tenda; fui tentato, lo scoprii. Mi si parò dinanzi come una visione dantesca la statua del Caduto di Bligny: scatenandosi dal sepolcro, metà angelo e metà catapulta, sollevava la lastra funeraria…». Donato dalla Triennale al Comune di Milano, questo monumento – che illustra un celebre passaggio del discorso contro le sanzioni pronunciato da Mussolini il 26 ottobre 1935 – viene collocato nel cortile di Palazzo Marino, suscitando aspre polemiche. Martini infatti realizza la statua semplicemente ribaltando, con ardita noncuranza, la fi gura del suo Centometrista (1935) che proprio in quei giorni è esposto alla VII Sindacale lombarda alla Permanente.

I MONUMENTI PUBBLICI 

La celebrazione dei valori patriottici e la volontà di propaganda del regime trovano un terreno particolarmente fertile nella ancora dilagante retorica commemorativa dei Monumenti alla Vittoria e ai caduti della Prima Guerra mondiale. Sulle più tradizionali scelte classicheggianti, che riprendono senza apparente discontinuità il gusto storicistico d’inizio secolo, s’innestano però, talvolta, proposte più ardite, che dimostrano di saper mettere a frutto, tanto nell’architettura quanto nella scultura, la sintesi plastica e l’essenzialità strutturale del razionalismo, del primordialismo e del gusto moderno. 

Italo Balbo, Ministro dell’Aeronautica, ha inaugurato a Milano il Monumento all’eroico Francesco Baracca, “Asso degli assi” dell’aviazione italiana nella Grande Guerra.


Il bel Monumento alla Vittoria e ai Martiri, di Marcello Piacentini, inaugurato dal Re a Bolzano. “Il Secolo Illustrato”, 28 luglio 1928.


Mario Sironi, Arturo Martini, “La Rivista illustrata del Popolo d’Italia”, agosto 1934. Il gruppo La Forza e gli Eroi presentato da Martini al concorso per il monumento al Duca d’Aosta a Torino.

“Il Secolo Illustrato”, 10 luglio 1937. E. Baroni e P. Morbiducci, Monumento al Duca d’Aosta, Torino.


La vita del Fascista: dovere, elevazione, conquista. (Da un altorilievo di Arrigo Minerbi nell’Istituto Benito Mussolini a Roma). “La Rivista illustrata del Popolo d’Italia”, gennaio 1935.


Progetto degli architetti Del Debbio, Foschini, Morpurgo. Mario Sironi, Monumentalità fascista, “La Rivista illustrata del Popolo d’Italia”, novembre 1934.


Architetto L. Moretti: Particolare dell’Arengo del Duce. Mario Sironi, Monumentalità fascista, “La Rivista illustrata del Popolo d’Italia”, novembre 1934. Commentando i progetti presentati al concorso per il Palazzo del Littorio a Roma (al quale egli stesso partecipa col gruppo di Antonio Carminati, Pietro Lingeri, Ernesto Saliva, Giuseppe Terragni, Luigi Vietti e Marcello Nizzoli), Sironi rivendica la rinnovata centralità della «decorazione murale plastica e pittorica»: «Dopo la mostra della Rivoluzione, il Concorso del Littorio raccoglie il seme lanciato dalla Quinta Triennale milanese con un consenso pieno, preciso, inequivocabile. […] Si tratta di avere il coraggio di assumere la responsabilità di opere imponenti come tutte queste che gli architetti hanno seminate a piene mani in numerosissimi progetti».


«Qualche anno fa il sole, incendiato il serpe del Tevere, prima di mordere disperato le radio-antenne di Monte Mario e morire, si buttava, piastrellone di rame fracido, sulla piana paludosa della Farnesina. […] Anno undecimo: Due milioni di metri cubi di terra hanno ingozzato la palude ed elevato il piano di cinque metri, deludendo per sempre l’ingordigia dilagante del Tevere. Dove il malsano silenzio era solo striato dal gracchiare del mal augurio, oggi la gioventù canta inni di vita. Il sole contempla il miracolo e attende se mai la porpora di Cesare sorga alla tribuna imperiale e risponda al maschio saluto degli atleti» (Castello, Foro Mussolini, “Lidel”, 3 marzo 1933). Le sessanta statue colossali di Atleti, donate dalle Province italiane per lo Stadio dei Marmi di Enrico Del Debbio al Foro Mussolini (1928-1932), si prestano ad accostamenti non sempre rispettosi. In un fotomontaggio di Erberto Carboni, allusivamente dedicato ai Pericoli della scultura classica, la possente muscolatura dell’Ercole giovane di Silvio Canevari richiama gli sguardi maliziosi di quattro bellezze al bagno, mentre in una sorprendente commistione di discipline sportive antiche e moderne, le tenute e le uniformi degli allievi dell’Accademia Fascista d’educazione fisica, fotografati sotto i nudi degli Atleti, fanno da contraltare alla retorica da cinegiornale di molta stampa dell’epoca: «Sotto il segno del Littorio - proclama Quirinus - l’Italia intera è una palestra. […] Bisogna risalire ai migliori tempi delle età classiche se si vuole trovare un culto per gli esercizi ginnici e sportivi comparabile a quello che oggi è professato nell’Italia fascista. Il maggior tempio di tale culto è Roma, in quel mirabile complesso che è già, sebbene ancora in via di formazione, il Foro Mussolini». 

Erberto Carboni, I capricci della giovane scultura... e i pericoli della scultura classica, “Almanacco letterario Bompiani”, 1937.


Accademisti in tenuta di libera uscita. Quirinus, Il Foro Mussolini e la sua vita, “La Lettura”, febbraio 1934. Le nudità della statua dello Sciatore di Nicola D’Antino, offerta dalla Provincia dell’Aquila, sono state pudicamente mascherate prima dello scatto. La denominazione di “Stadio dei Marmi” «è ampiamente giustifi cata dalle candide gradinate e dalle statue di giganteschi atleti che, recando il nome della provincia donatrice, fanno intorno a essa poderosa corona. Con tanta ricchezza di materia e bellezza d’arte fa un contrasto, che riesce di singolare effetto, il terreno della pista: è questo come una fascia di fine sabbia rossigna, bordata di bianco, stesa sopra un erboso tappeto di tenerissimo verde».


Accademisti con sci (nello sfondo i colli con pittoresca pineta). Quirinus, Il Foro Mussolini e la sua vita, “La Lettura”, febbraio 1934. Si riconosce il Lanciatore del peso di Aroldo Bellini, offerto dalla Provincia di La Spezia.

LA CITTÀ MODERNA

In architettura, segna la maturità del decennio la nettezza geometrica dei volumi del palazzo Montecatini di Gio Ponti concluso a Milano nel 1938, con superfici in marmo, alluminio e cristallo che fanno da carter a un meccanismo interno in grado, grazie a un sistema di ascensori “ultrarapidi” e alla distribuzione degli uffici, standardizzati secondo un modulo tipo, di convogliare 1500 impiegati al posto di lavoro nel tempo massimo di una decina di minuti. L’idea di una nuova bellezza geometrica - «… al posto delle regolari orecchie alle finestre […] niente, al posto del cornicione con trabeazione […] il nudo trave del tetto o una semplice solettina, al posto dei conci di finta pietra […] la parete liscia di intonaco bianco», come reclamavano i futuristi in “Sant’Elia” nel 1934 - si manifesta in diverse tipologie edilizie. Nelle case popolari, per operai, standardizzate, «un campo adatto […] all’applicazione dei concetti razionalisti» per l’eliminazione di ogni «superstruttura decorativa inutile» e l’attuazione del progetto con «mezzi minimi», come si legge nel 1933 nei documenti dell’Istituto Case Popolari di Milano; in strutture di servizio pubblico come asili e colonie marine, con le loro estese superfici vetrate; in ville private; in architetture produttive d’impronta “macchinista”, che nel numero di novembre 1931 di “Architettura e arti decorative” Plinio Marconi riconduce a «formulazioni proprie delle costruzioni meccaniche e industriali (parabole, ellissi, catenarie, eliche, svariate superfi ci e solidi di rivoluzione, ecc.) o certe espressioni della loro visibilità, quali la liscia lucidità, la linearità essenziale o tagliente, lo splendore metallico»; in edifici per il tempo libero; negli uffici pubblici di alcune città di nuova fondazione. 
Di questa moderna architettura i nuovi materiali, sempre più diffusi, si chiamano termolux, vetroflex, anticorodal, intonaco Terranova, litoceramica, porfiroide, monalite, tecnolite, iperfan, un «diffusore in vetro speciale per strutture vetrocemento»… Ma l’uso di tali ritrovati non basta a creare uno “stile” moderno: sta al pensiero dell’architetto - secondo Giuseppe Pagano - di mettere in luce la “poesia del materiale” attraverso un impiego coerente con la specificità di ciascuno, combinato con la logica e soddisfacente risposta alla vita e al gusto del tempo da parte di tutte le diverse componenti funzionali costitutive di un’architettura complessiva. È il carattere “primitivo”, ma al tempo stesso sommamente raffinato, della cosiddetta architettura razionale. 
D’altra parte c’è chi pensa - come Piacentini - che il bello sia qualcosa di eccedente la pura necessità; e che soltanto in tale eccedenza si ritrovino idee e “spirito” del progettista. Anche gli impianti sportivi conoscono, in quegli anni, un grande impulso. Ippodromi, arene, stadi, palestre e piscine sono immaginati da Raffaele Calzini - in Ventennio, numero speciale di “Domus” del 1934 - come «fucine di vigoria e di sanità battagliere che preparano la gioventù italiana ai primati dei giochi olimpici internazionali. Gli architetti ritrovano le grandi armonie di queste costruzioni moderne e antiche». Una qualche “eccedenza”, declamatoria e monumentalista, caratterizza non poche realizzazioni; ma nell’“arte sportiva” non mancano esempi di nitido razionalismo. 


A| Gio Ponti, Palazzo per uffici della Montecatini a Milano.

B| F. Albini, R. Camus e G. Palanti, Quartiere di case popolari a Milano.

C| Giuseppe Terragni, Asilo d’infanzia in Como


D| Giuseppe Vaccaro, Colonia Marina “Sandro Mussolini” a Cesenatico.


E| Concezio Petrucci, Villa a Roma.


F| Baldessari, Figini, Pollini, Fabbricato per uso industriale (Milano).

G| Mantero, Sede della Società Canottieri Lario (Como).


H| Mazzoni, Ufficio poste e telegrafi di Littoria – Facciata.


I| Piacentini e Vaccaro, Palazzo delle Corporazioni – Roma (particolare della facciata).


J| La nuova stazione di Firenze, sorta nella stessa posizione della antica, sul progetto del “Gruppo Tosc. Architetti” (Baroni, Berardi, Guarnieri, Gamberini, Lusan e Michelucci). Veduta d’insieme presa dal campanile di Santa Maria Novella. La nuova stazione Santa Maria Novella a Firenze, “L’Illustrazione Italiana”, 3 novembre 1935.


K| Giuseppe Nicolosi e Giorgio Calza Bini, Municipio e palazzo degli uffi ci di Guidonia. Alessandro Pavolini e Giovanni Ponti, Le arti in Italia, I, Edizioni Domus, 1939.


L| Bonadè-Bottino, Torre albergo del Sestrières.


M| Bonadè-Bottino, Torre Balilla (Colonia Fiat a Marina di Massa).


N| La nuova stazione ferroviaria di Firenze, “Rivista illustrata del Popolo d’Italia”, novembre 1935. Italo Griselli, L’Arno e la sua valle, 19331935, prospetto del Padiglione Reale della stazione di Santa Maria Novella a Firenze.


O| Del Debbio, Stadio Mussolini, Roma.


P| Nervi, Stadio Giovanni Berta, Firenze; Martini, Vittoria. «Accanto al grande sbalzo dell’audace pensilina di questo stadio dedicato in Firenze al martire Berta una bella Vittoria di Martini… La Vittoria fascista agita gloriosamente due bandiere come per salutare l’arrivo di un maratoneta». La scultura fu realizzata in due esemplari in terracotta, dispersi. Il gesso si trova nella Casa Museo Boschi Di Stefano


Q| Lingeri, Architettura di trampolino a Como; Lorenzetti, Ragazzo che si tuffa. Il Ragazzo che si tuffa di Clinio Lorenzetti si trova nella Galleria Comunale d’Arte Moderna di Roma.


R| Arata, La Torre Maratona del Littoriale di Bologna.

Le immagini F-I e L-M e O-R sono tratte da: Raffaele Calzini, 1914-1934 Ventennio, numero speciale di “Domus”, Natale-Capodanno 1934. 

S| Arch. Virginio Vallot: Negozio Giacomelli, in Venezia. Si noti l’effetto delle vetrine in cui le macchine fotografi che sono un’apparizione assai suggestiva. “La Casa Bella”, febbraio 1931.


T| Arch. Pietro Lingeri: Galleria e Libreria del Milione in Milano. L’ingresso, con una vetrata per piante grasse, ha due porte che disimpegnano la libreria e la galleria. Ai lati, due colonne luminose in ottone nichelato e vetri opalini. “La Casa Bella”, gennaio 1931.


U| Arch. Meyer-Gasters: la Casa dell’Indanthren a Milano. “La Casa Bella”, gennaio 1931


V-W| Arch. Baldessari, Figini, Pollini: Caffè-Bar Craja in Milano. L’ambiente interno del Bar Craja era strutturato sulla base di un rigoroso assetto geometrico di linee e piani ortogonali convergenti, secondo un ideale punto di vista prospettico, nella fontana in metallo nichelato di Fausto Melotti collocata nella parete di fondo. Il caffè «rappresenta a Milano l’ultima espressione del gusto moderno». «Ne è risultato una bottega, in cui la precisione della forma si accorda ad una sorta di fantasia contenuta e “impassibile” che costituisce il maggior pregio di questo locale, dove pare che la ruota del tempo debba girare in un’atmosfera di sogni astrali e di splendori incantati» ([Edoardo Persico], La città che si rinnova, “La Casa Bella”, aprile 1931).

V-W| Arch. Baldessari, Figini, Pollini: Caffè-Bar Craja in Milano. L’ambiente interno del Bar Craja era strutturato sulla base di un rigoroso assetto geometrico di linee e piani ortogonali convergenti, secondo un ideale punto di vista prospettico, nella fontana in metallo nichelato di Fausto Melotti collocata nella parete di fondo. Il caffè «rappresenta a Milano l’ultima espressione del gusto moderno». «Ne è risultato una bottega, in cui la precisione della forma si accorda ad una sorta di fantasia contenuta e “impassibile” che costituisce il maggior pregio di questo locale, dove pare che la ruota del tempo debba girare in un’atmosfera di sogni astrali e di splendori incantati» ([Edoardo Persico], La città che si rinnova, “La Casa Bella”, aprile 1931).


X| Arch. Melchiorre Bega: Bar Mokador in Milano. «…da notarsi l’estrema distinzione e la spiccata modernità raggiunta da Bega nel Bar Mokador, con la maggior semplicità di mezzi» ([Edoardo Persico], La città che si rinnova, “La Casa Bella”, giugno 1931).


Y| Arch. Peressutti, Rogers: un bar a Milano alla Città degli Studi.

«Ormai, le nostre città accennano a cambiare sotto l’impulso di una vita più febbrile e moderna», scrive nel dicembre 1930 Edoardo Persico aprendo la rubrica La città che si rinnova sulla rivista “La Casa Bella”. Il critico napoletano si riferisce soprattutto a quegli spazi del commercio e del tempo libero che, a suo parere, rappresentano i segnali tangibili del nuovo gusto moderno nelle città italiane, poiché nella continua trasformazione delle vetrine e degli interni, lontani dai vecchi fronzoli storicistici e umbertini, si rivela un’estetica astratta dei cristalli e del metallo, del vuoto e della smaterializzazione. Le vetrine moderniste diventano un elemento decisivo del nuovo arredo urbano, mentre gli interni di negozi, uffici e gallerie sviluppano un’organizzazione spaziale finalizzata alla mostra del prodotto. L’entusiasmo per questi nuovi ambienti e forme di progettazione si esprime nel linguaggio dei sostenitori dell’architettura razionale, attraverso un gergo dai toni a volte profetici a volte beffardi e polemici nei confronti della passata architettura eclettica e della pur moderna architettura novecentista. Il caso di Pietro Maria Bardi che spiega la sua repulsione per i vecchi caffè di Milano è esemplare del modo d’esprimersi engagé di questi critici: Bardi si rifiuta di andare al Caffè Cova per paura che gli cada in testa il soffi tto, per timore di sorbire bevande decrepite, per avversione verso i bicchieri non lavati nello sciacquatore elettrico, per lo sconcerto d’imbattersi 237 negli amici del nonno e per la mancanza di comunicazione dei risultati sportivi. Modernità e pulizia devono essere i caratteri dei nuovi bar. «Se un amico mi invitasse domani al Cova», scrive, «gli direi - no, caro, andiamo al Craja», il leggendario bar dell’avanguardia milanese degli anni Trenta, progettato da Luciano Baldessari con l’aiuto dei giovani architetti Figini e Pollini. 


Bramante Buffoni, Anticorodal, 1933, 1914-1934 Ventennio, numero speciale di “Domus”, Natale-Capodanno 1934.

ANNI '30
ANNI '30
Arti in Italia oltre il fascismo
Nell'Italia degli anni Trenta, durante il fascismo, si combatte una battaglia artistica di grande vivacità, che vede schierati tutti gli stili e tutte le tendenze, dal classicismo al futurismo, dall'espressionismo all'astrattismo, dall'arte monumentale alla pittura da salotto. La scena era arricchita e complicata dall'emergere del design e della comunicazione di massa - i manifesti, la radio, il cinema - che dalle ''belle arti'' raccolgono una quantità di idee e immagini trasmettendole al grande pubblico. Un laboratorio complicato e vitale, aperto alla scena internazionale, introduttivo alla nostra modernità. Un'epoca che ha profondamente cambiato la storia italiana. Gli anni Trenta sono anche il periodo culminante di una modernizzazione che segna una svolta negli stili di vita, con l'affermazione di un'idea ancora attuale di uomo moderno, dinamico, al passo coi tempi e si definisce quella che potremmo chiamare ''la via italiana alla modernità'': nell'architettura, nel design, così come in pittura e in scultura, che si esprime attraverso la rimeditazione degli stimoli provenienti dal contesto europeo - francese e tedesco, ma anche scandinavo e russo -, combinata con l'ascolto e la riproposta di una tradizione - quella italiana del Trecento e Quattrocento. Pubblicazione in occasione della mostra: ''Anni Trenta. Arti in Italia oltre il fascismo'' (Firenze, Palazzo Strozzi, 22 settembre 2012 - 27 gennaio 2013). La mostra rappresenta quel decennio attraverso i capolavori (99 dipinti, 17 sculture, 20 oggetti di design) di oltre quaranta dei più importanti artisti dell'epoca quali Mario Sironi, Giorgio de Chirico, Alberto Savinio, Achille Funi, Carlo Carrà, Corrado Cagli, Arturo Nathan, Achille Lega, Ottone Rosai, Ardengo Soffici, Giorgio Morandi, Ram, Thayaht, Antonio Donghi, Marino Marini, Renato Guttuso, Carlo Levi, Filippo de Pisis, Scipione, Antonio Maraini, Lucio Fontana. Raccontando un periodo cruciale che segnò, negli anni del regime fascista, una situazione artistica di estrema creatività.