ALL'OMBRA DELLA MONTAGNA.
IL SEGRETO DELLE COSE

... per dire così, come mai le cose stesse intimamente sapevano d’essere. 
Rainer Maria Rilke 

L’istante del mondo che Cézanne voleva dipingere [...] ci viene ancora incontro dalle sue tele, e la sua montagna Sainte-Victoire si crea e si ricrea da un capo all’altro del mondo, in maniera diversa, ma non meno energicamente che nella dura roccia sopra Aix. 
Maurice Merleau-Ponty 

1. Ho passato un lungo periodo delle mia vita con Rainer Maria Rilke, da quando lo avevo incontrato con Freud e con Lou Andreas Salomé protagonisti di un breve ma straordinario racconto dello stesso Freud, Caducità.1 Poi è stata la traduzione e il commento delle Elegie duinesi e dei Sonetti a Orfeo, che mi hanno a lungo impegnato, e infine la traduzione delle lettere che Rilke scrive alla moglie Clara nell’ottobre del 1907, lettere che sono la testimonianza dell’incontro di questo immenso poeta con un immenso pittore, con Cézanne.2 Un incontro che ha lasciato un segno nella vita di Rilke, tanto che a lungo, fino alla fine, egli ha pensato di scrivere un libro su Cézanne. Il libro non è mai stato scritto. L’incontro con Cézanne era stato per lui una esperienza decisiva, così grande, che probabilmente egli non si è mai sentito in grado di affrontarla in un libro, ma il suo impatto attraversa per intero la sua opera e tocca in profondità la poesia dei Sonetti e delle Elegie che sono tra i grandi monumenti poetici del Ventesimo secolo. Di quel momento rimane la testimonianza delle lettere che egli scrive alla moglie, Clara ogni giorno - tutti i giorni -, che egli si porta davanti a Cézanne durante l’esposizione che ha avuto luogo nell’autunno dle 1907 a Parigi, nel Salon d’Automne del Grand Palais. Mi accosterò a questo momento e a questa testimonianza, che finisce per essere uno dei grandi testi sulla pittura di Cézanne, seguendo le lettere di Rilke e facendomi guidare da esse. 

 
È Clara, la moglie, che propone una sua edizione dei Briefe über Cézanne limitata alle lettere che le erano state indirizzate. Come scrive Heinrich Wiegand Petzet, come le Elegie portavano in dedica Dalla proprietà di Marie Thurm und Taxis-Hohenhole, Clara ha voluto che i Briefe über Cézanne fossero Dalla proprietà di Clara Rilke.3 

2. Cézanne è entrato in me come “una freccia fiammeggiante” accendendo “un incendio di chiaroveggenza”, così Rilke scrive all’amante, a Baladine Klossowska,4 il 16 Dicembre 1920 (p. 90). È la chiaroveggenza, per dirla con Peter Handke, che emerge dalla “dottrina della Sainte-Victoire”, che agisce in lui, come molti decenni dopo agirà su uno scrittore, che a Rilke certamente si richiama quando scrive che il più grande problema di Cézanne, il Menscheitleher der Jetztzeit, “il maestro dell’umanità del moderno”,

divenne la realizzazione (la “réalisation”) della pura, innocente cosa terrena: la mela, la roccia, un volto umano. Il reale fu allora la cosa raggiunta; che non rimpiange la fugacità delle alterne vicende della storia, ma trasmette un-essere-in-pace. [...] Il problema però, nell’atto di trasmettere, è determinare cosa anzitutto conferisca alla via il suo senso.5

Rilke nella lettera a Baladine, rispondendo alle richieste dell’amata di poterlo incontrare, rivendica quella solitudine, che Genet raccomandava come assolutamente necessaria al funambolo, e che aveva individuato nel cuore stesso dell’opera di Rembrandt e di Giacometti. È quella solitudine, come abbiamo già visto, che era stata rivendicata anche da Proust e da Kafka che arriva a scrivere, il 15 gennaio 1913, alla fidanzata Felice, che egli dovrebbe vivere in una cantina chiusa, con una lampada e l’occorrente per scrivere, dietro un’altra cantina. Gli si dovrebbe portare il cibo davanti alla porta più lontana dal suo locale. E qualche mese dopo, il 26 giugno 1913, sempre a Felice, scrive: “Per scrivere ho bisogno di isolamento, non come un ‘eremita’, ma come un morto”.6 La solitudine è d’altronde uno degli insegnamenti proprio di Cézanne, tanto più significativo e importante per Rilke, spesso catturato dalla mondanità che la sua fama gli aveva presto, forse troppo presto conquistato. Rilke, nel momento in cui scrive queste parole, ha attraversato mesi, anni di crisi creativa e sa che un evento qualsiasi, una malattia per esempio, può interrompere o addirittura annientare questa solitudine necessaria per ritrovare in se stesso la direzione che lo riporti all’opera, all’imperativo dell’opera, che è un inaggirabile imperativo etico. Lo aveva appunto capito Cézanne che “negli ultimi trent’anni della sua vita si allontanava da tutto ciò che avrebbe potuto ‘venire ad accalappiarvi’”, come egli si esprimeva, e quando, pur credente e devoto alle tradizioni, “rifiutava di andare al funerale della madre per non perdere una giornata di lavoro” (p. 90).

3. Ma veniamo all’incontro con Cézanne. È il 6 ottobre, è domenica. Rilke cammina nel vecchio quartiere aristocratico, dove si affacciano i vecchi Hotel del Faubourg Saint-Germain, che avrebbero potuto essere stati abitati da Talleyrand o da La Rochefoucault. Imbocca una stradina ed ecco che uno di questi portoni si apre. Rilke immagina ci sia una vecchia signora, una Grand-mère, che lo accoglie, come si accoglie un nipote atteso, e prosegue con lei fantasticando lungo le strade che lo portano al Grand Palais. “Alla fine, egli scrive, giunsi alla variopinta fiera dei quadri”, che non riesce però a cancellare quella sorta di incantamento che lo ha preso e che ancora lo tiene a sé. “La vecchia dama persisteva”. Persisteva come persisteva la tentazione di Rilke verso quel mondo che aveva frequentato e che lo aveva anche ammirato e blandito. Accompagna dunque la vecchia dama nella stanza in cui sono esposti dipinti di Berthe Morisot e di Eva Gonzales. Ma “Cézanne non è più possibile per la vecchia dama”. Non è nemmeno possibile per Rilke ancora affascinato dalla vecchia dama. Non è ancora possibile per lui che non è giunto dove si deve arrivare per essere con Cézanne, vale a dire all’estremo. 

 
Ma per noi Cézanne “vale ed è commovente e importante” (p. 48). Quanto importante Rilke comincerà a dirlo il giorno dopo, il 7 ottobre. Ma prima di seguirlo dentro la sala Cézanne dobbiamo fare un passo indietro.

4. Il carteggio con Clara inizia già da giugno. Rilke è a Parigi. Deve completare il suo lavoro su Rodin e il romanzo di Malte.7 Scrivere il Malte significa assumersi quel compito che Rilke ha assegnato a lui, a Malte: imparare a vedere. Imparare a vedere significa imparare una propria interiorità sconosciuta che ci affaccia in modo nuovo al mondo, che ci affaccia a un nuovo mondo. Imparare a vedere significa non trasfondere immediatamente le cose in poesia, come ha fatto Rilke nelle poesie giovanili, ma cogliere in esse “una sfumatura di lontananza”, che ci fa capire quanto, finora, le cose siano state soltanto mostrate, e non capite o offerte (Malte, p. 47). Imparare a vedere significa scoprire anche l’ostilità delle cose, la paura, per esempio, che “un sottile filo di lana sporgente dalla coperta sia duro, duro e acuminato come una punta di acciaio” (Malte, p. 77).

 
Rilke non ha ancora imparato a vedere. Aspira all’arte, ma l’opera d’arte è, come aveva detto anche Genet, esposizione al pericolo. Prendere questa strada significa “misurarsi con l’estremo”.  Il suo rapporto con “i modelli” è falso, perché egli ancora non possiede “modelli umani”. Finora si è occupato, scrive, con “fiori, animali, paesaggi” (a Clara, 24 giugno 1907, p . 38). Il libro su Rodin si è arenato, perché lui, come Rodin, si è mosso soltanto “all’interno di ciò che è raggiungibile”, mentre è necessario giungere all’estremo, muoversi per l’oltre, verso l’impossibile (28 giugno 1907, p. 39). Questo è per lui Cézanne. Questo comincia a percepire il 7 ottobre, quando, di nuovo al Salon d’Automne, è davanti alla sala Cézanne “che subito ti chiama a sé, con la forza dei suoi quadri”. Perché “tutta la realtà è lì dalla sua parte: in questo denso blu ovattato che gli è proprio, nel suo rosso e nel suo verde senza ombra e nel nero rossastro delle sue bottiglie di vino” (pp. 48-49). 

 
Rilke dovrà mettersi faccia a faccia con Cézanne. Imparare dalla sua “dottrina”. Dovrà fare però ancora un lungo apprendistato. Il Malte sarà concluso solo nel 1910. Poi Rilke, viaggia. Ha sempre viaggiato. A Duino, ospite di Marie Thurm von Taxis sente di aver conquistato il diritto a cose che sembravano fino ad allora sfuggirgli, quelle cose che eccedevano ciò che è immediatamente raggiungibile. Scrive così il 2 gennaio 1912 la prima delle Elegie di Duino, a cui fa seguito, il mese dopo, la seconda Elegia. Poi frammenti, schegge, la grande crisi, fino all’immenso impeto creativo dei primi mesi del 1922 in cui, di getto, si completano le Elegie e i Sonetti a Orfeo. È significativo che poco più di un mese prima del compiersi della sua più grande opera poetica, in Rilke si riaffacci Cézanne. “È infinitamente grandioso e sconvolgente nel fenomeno-Cézanne (....) che egli sia per quasi quarant’anni rimasto ininterrottamente nell’intimo, nel centro più interiore della sua opera - e io spero un giorno di mostrare quanto della inaudita freschezza e integrità dei suoi quadri sia da attribuirsi a questa ostinazione.”8 Chissà se il testo in cui Rilke voleva mostrare la grandezza di Cézanne non sia proprio la poesia delle Elegie, in cui tanto di quanto egli aveva imparato si è depositato e si è espresso. 

5. Avevamo lasciato Rilke per così dire sulla soglia di Cézanne il 7 Ottobre. È stato tanto, è stato forse troppo, e il giorno dopo, l’ottobre, egli è al Louvre dove i grandi quadri non hanno la sconvolgente novità che all’improvviso si è dispiegata davanti ai suoi occhi. Come leggiamo nella lettera, che abbiamo più sopra ricordato a Paula Modersohn-Becker, Rilke aveva già visto in passato delle cose di Cézanne. Ma quello che gli si è presentato davanti agli occhi è una cosa nuova. Forse ha cominciato a imparare a vedere. I neri di Manet gli ricordano il diverso uso del nero di Cézanne. I frutti che Chardin lascia sul tavolo, frutti che “non si preoccupano di essere mangiati belli”, sono un passo verso Cézanne in cui “cessa la loro mangiabilità, tanto sono diventati davvero cose, tanto sono diventati semplicemente indistruttibili nella loro ostinata presenza”. Chardin ha l’aspetto, negli autoritratti, di un vecchio originale. Lo fu anche Cézanne in maniera triste e dolorosa. Rilke evidentemente sta studiando le testimonianze su Cézanne, le sue lettere,9 e dunque ricorda come egli, “vecchio e logoro, e ogni giorno sulla via del suo studio avesse dietro di sé ragazzini che gli tiravano dietro sassi come a un cane cattivo. Ma dentro, proprio dentro, era meraviglioso, e di tanto in tanto gridava rabbioso a uno dei suoi rari ospiti qualcosa di splendido” (p. 50). 

6. Il 9 ottobre è di nuovo di fronte a Cézanne. È di fronte a quello che è il problema di Cézanne, e che è già diventato il suo problema. Quello che Cézanne chiamava la réalisation. Nulla è più distante da Cézanne, come da Rilke, di una ricaduta nel realismo in crisi da decenni. Il patto mimetico tra parole, immagini e le cose del mondo, si già era definitivamente infranto. La parola fiore non ha profumo, né è in nessun vaso di fiori. Kandinskij in uno straordinario scritto del 1913 intitolato Sguardo all’indietro10 ricorda di essersi trovato di fronte a un quadro, al Pagliaio di Monet: “Fino a quel momento avevo conosciuto soltanto l’arte realistica [...]. Il catalogo diceva che si trattava di un pagliaio, ma non riuscivo a riconoscerlo. Questa incapacità di riconoscere il soggetto mi turbò [...]. Sentii oscuramente che in questo quadro mancava l’oggetto”. Il realismo di Monet diventa dunque, paradossalmente, la perdita dell’oggetto. “Senza che me ne rendessi conto era screditato davanti ai miei occhi l’oggetto come elemento indispensabile del quadro”. È quel superamento del soggetto, della loquacità del quadro, che abbiamo già incontrato e sottolineato in Manet. 

 
L’oggetto è perduto in quanto mero oggetto ed è recuperato, reso reale, nella réalisation che, come ho detto, non ha nulla a che vedere con il realismo e nemmeno con l’idea di una performance. L’arte diventa un modo per salvare il mondo spingendo gli oggetti a diventare reali nella forma, a diventare cose, cose per noi. Né meri concetti, come vorrebbe la filosofia, né meri oggetti perduti nel mondo come vorrebbe un piatto realismo. Per questo “nei paesaggi o nella natura morta, attardandosi coscienziosamente davanti all’oggetto, egli lo assumeva solo dopo diversioni infinitamente complicate”, perché le vie che segretamente lo percorrono dovevano essere tutte percorse (p. 51). 

 
Lavoro lungo, faticoso, che lo tiene avvinto tanto da rinunciare, come si è detto, a partecipare al funerale della madre, che pure amava moltissimo. È diventato noto a Parigi, ma ormai ha rotto con quell’ambiente, non ha più tempo per questo. Il senso del tempo si fa sempre più stringente. Il problema della réalisation si accompagna “alla vecchiaia e all’indebolimento” (a Bernard, 1905). Il colore, che sembrava poter restituire le vibrazioni di luce, dell’aria, dello spazio, diventa “causa di astrazioni che mi impediscono di raggiungere i limiti degli oggetti” (a E. Bernard, 23 ottobre 1905). Cézanne comunica a Gasquet, nello stesso periodo, l’impressione terribile che “tutto si dilegua”, che “bisogna far presto se si vuole vedere ancora qualcosa”. Nelle ultime lettere al figlio l’impressione di vuoto si fa vertiginosa. Cézanne sembra vivere in un’“atmosfera polverosa”, “come in un vuoto”, mentre tutto passa “con una rapidità terribile”. Unica possibilità è mettersi di fronte a un soggetto, per mesi, “senza cambiare posto, solo inchinandomi un po’ più a destra o un po’ più a sinistra”, nella speranza di cogliere qualcosa in questo terribile mutamento che sembra poter trascinare le cose nel nulla.11 

7. Cézanne ha rotto anche con l’amico Émile Zola dopo la pubblicazione del romanzo L’OEuvre. Perché si è identificato con il pittore de L’OEuvre, Claude Lantier, che finisce suicida nel tentativo di rappresentare l’irrappresentabile? Eppure Cézanne si era identificato con Frenhofer, in protagonista del Capolavoro sconosciuto di Balzac, altro folle pittore suicida, fin dagli anni sessanta, quando aveva dichiarato che quello era il personaggio a cui più si era ispirato. E, secondo varie testimonianze, la lettura del romanzo di Balzac continuò a commuoverlo fino alle lacrime per tutta la vita.12 La mia ipotesi è che in Lantier Cézanne riconosce colui che ha ucciso la possibilità stessa del paesaggio, trasferendolo in un simbolo, mentre egli ritiene di essere, o meglio vuole essere, la coscienza stessa del paesaggio. Il capolavoro della natura è la sua diversità, ma questa diversità è appunto irraffigurabile in un simbolo. È comunque irraffigurabile senza un pensiero e una coscienza, e dunque, afferma Cézanne, “un paesaggio si pensa in me e io sono la sua coscienza”.13 

Cézanne era preso dal romanzo di Balzac, da Frenhofer, perché, scrive Rilke, qui “Balzac aveva presentito che nella pittura si può giungere improvvisamente davanti a qualcosa di così immenso di fronte al quale nessuno può bastare” (p. 53). È appunto ciò che sta oltre la linea di confine della mera rappresentabilità. Nel Capolavoro sconosciuto Balzac mescolando, come era solito personaggi storici, come Porbus e Poussin e personaggi immaginari, come Frenhofer, traccia la critica più nitida, fino ad allora espressa, dell’estetica mimetico-rappresentativa. Il quadro imitativo accumula linee, che trasformano la vita in una superficie inerte, in cui affonda ogni movimento e ogni tensione. Ma quando Porbus e Poussin guardano finalmente il quadro a cui Frenhofer sta lavorando da anni per cogliere la vita e la bellezza del mondo, vedono solo un groviglio di linee e di segni in cui non riescono a leggere nulla, se non, abbandonato in un canto del quadro, il disegno di un piede, meravigliosamente tracciato, che sembra il relitto di un’arte che secondo loro Frenhofer ha tradito. La verità del quadro non è però quel relitto sopravissuto all’intrecciarsi apparentemente confuso delle linee. Ormai la verità è proprio nella complessità di quel groviglio a cui Frenhofer, come altri personaggi balzacchiani alla ricerca dell’assoluto, finirà per sacrificare la propria vita. Sta di fatto che proprio quel groviglio sembra essere, come ha scritto ancora Dore Ashton, la leggenda o meglio il mito fondativo dell’arte moderna: la profezia di un’arte non rappresentativa. 

8. Il compito di fronte al quale “forse nessuno può bastare” era per Cézanne la sua montagna, la Sainte-Victoire. Mangiava ed era di nuovo in cammino, spesso “proseguiva una mezz’ora oltre il suo studio”. Camminava per raggiungere una valle, “davanti alla quale si levava la montagna della Sainte-Victoire indescrivibile con tutte le sue migliaia di compiti.14 Là sedeva per ore, occupato a trovare e a intrecciare i plans”. E a scrutare nelle migliaia di compiti chiusi nel segreto della montagna. Oppure, nel suo studio, rispondere alle migliaia di compiti chiusi nel segreto di una mela. È il paradosso dell’arte moderna ed è anche il paradosso di Cézanne, che vuole andare oltre la rappresentabilità delle cose. Così dispone le sue mele su una tovaglia bianca e “le costringe ad essere belle”, ad essere dunque più che semplici mele. Le costringe “a significare il mondo intero e tutto lo splendore, e non sa se ha ottenuto che esse facciano questo per lui. E siede in giardino come un vecchio cane”. 

 
“Questo volevo raccontarti” scrive ancora Rilke. “Questo si ricollega in cento punti intorno a noi e con noi” (pp. 53-54). Perché è in gioco, anche per Rilke, e forse per Clara, la capacità di procedere alla réalisation. Egli non è ancora arrivato a questo, ma questo è ormai il suo obiettivo. Qualcosa di fronte alla quale forse nessuno può bastare. Questa oltranza era stata per Cézanne la montagna della Sainte-Victoire con il suo segreto e i suoi “compiti”.

 
Rembrandt pare abbia dipinto una settantina di autoritratti. Van Gogh quarantadue, almeno tanti io stesso ne ho contati in un libro che dichiara di comprenderli tutti.15 Cézanne negli ultimi vent’anni della sua vita pare abbia dedicato alla sua montagna quarantaquattro oli e quarantatré acquerelli. Forse la montagna era ad un certo punto diventata il suo stesso autoritratto. Comunque il suo destino. 

9. Riprendiamo il cammino insieme a Rilke. Il 12 ottobre è di nuovo al Salon, questa volta con l’amica Mathilde Vollmoeller, artista evidentemente influenzata da Cézanne, ma prima, il giorno prima, Rilke aveva ipotizzato una presenza di Clara a Parigi. Basterebbe fermarsi qualche ora davanti ai quadri di Cézanne? È vero che “in due o tre quadri ben scelti di Cézanne si possono vedere tutti i suoi quadri”. Ma “forse preferirei quasi portarti davanti al Déjeuner sur l’herbe [...] che in ogni parte è Manet, con una indescrivibile capacità espressiva”. In questo quadro tutto appare compiuto. Tutti i mezzi impiegati per compierlo sono stati assorbiti nel compimento. In un certo senso il Déjeuner sur l’herbe ormai si offre direttamente allo sguardo (pp. 54-55). Cézanne richiede, evidentemente, una sorta di apprendistato. Così il giorno dopo Rilke racconta della visita con l’amica, che ha messo in luce la semplicità e nello stesso tempo l’onestà di Cézanne, che si è posto in quel punto pazientemente e ha guardato “senza preoccuparsi di altro”. Poi lì, in un punto della tela, c’è un vuoto “perché egli non lo aveva ancora saputo. Faceva solo quello che sapeva e nient’altro”. Poi insieme hanno ragionato sulle cose che Cézanne aveva fatto a Parigi, in contatto con gli altri e le cose fatte successivamente, a Aix. “Nelle prime il colore era qualcosa per sé; più avanti egli lo assume personalmente, come nessuno prima di lui ha mai assunto il colore, solo per fare con esso la cosa. Il colore compare del tutto nella sua realizzazione; non rimane residuo” (pp. 55-56). 
10. La lettera del 13 ottobre si apre con un richiamo ai colori dell’autunno che Clara aveva descritto nella sua lettera, e al “dissolto autunno” quasi “dipinto su seta”, che Rilke vive a Parigi. I due autunni ci conquistano, scrive Rilke, “tanto profondamente noi siamo nel fondo di ogni metamorfosi, noi i più mutevoli, che procediamo ovunque con la vocazione di tutto comprendere e che facciamo (pur non potendolo comprendere) dell’immenso il compito del nostro cuore perché esso non ci distrugga”. È l’accettazione di un destino proprio e del mondo: un destino di mutamento e di metamorfosi che tornerà quasi con le stesse parole nelle Elegie e nei Sonetti. È la comprensione che è proprio il destino della nostra creaturalità che potrà esprimersi nel grido che risuona nelle Elegie: Hiersein ist herrlich”, essere qui è stupendo, perché nel mutamento e nella coscienza della nostra stessa caducità, della nostra mortalità, possiamo salvare le cose che non sanno, che ignorano questo comune destino. Questo egli vede ora nella natura, mentre in passato, nelle poesie che aveva in passato scritto, la natura “era per me un motivo generico”, un motivo di evocazione. Egli non si sedeva come Cézanne davanti a essa. Non guardava. “Quanto poco avrei potuto imparare allora davanti a Cézanne, davanti a Van Gogh”. Come Cézanne, ora Rilke sa che deve lavorare, deve “diventare un lavoratore” per giungere al senso della natura, al senso del mondo. Ma non può dimenticare che anche oggi è stato davanti ai suoi quadri, e che già tra due sale ha “sentito la sua presenza concentrarsi in una colossale realtà”. Quante volte abbiamo provato anche noi, quante volte ho io stesso provato, sulla soglia di una sala in cui alla parete era anche un solo grande quadro, la stessa sensazione. Appena percepito, quasi con la coda dell’occhio, abbiamo avvertito che in quel punto si concentrava tutto. Poi si procede. Poi si guarda e si cerca di “leggere” e di capire. E Rilke comincia a capire, e così nota “come fosse necessario andare ancora al di là dell’amore; è naturale che si ami ognuna di queste cose, se le si fa; ma se lo si mostra, lo si fa meno bene; le si giudica invece di dirle. Si cessa di essere imparziali”. Si dipinge: “amo questa cosa qui; invece di dipingere: qui essa è. E in essa ciascuno deve ben vedere se io l’ho amata”. L’amore si cala così senza residui nel fare. Cézanne ha concentrato il suo amore nella mela, l’ha trasposto nella mela dipinta (pp. 56-58). 

11. Il 15 ottobre è questione di Rodin. Dei cinquanta disegni che egli ha potuto vedere da Bernheim-Jeune. Forse è Cézanne il motivo, ma ora Rodin gli pare diverso. “Quello che ne avevo scritto due mesi fa è retrocesso ai limiti della validità. In qualche luogo forse è ancora valido”. È disturbato dall’interpretabilità di quei lavori, che in passato lo aveva invece attirato. Ora, dopo la lezione di Cézanne, li avrebbe voluti meno assertivi, più oggettivi, lasciati a se stessi. “È un peccato che egli non ci permetta di procedere oltre con il pensiero: la cosa è già lì a disposizione” (pp. 58-59). Allora, il giorno dopo, il 16 ottobre, è ancora davanti a Cézanne. Accanto a lui i visitatori, che giudicano, irritati, ironici. Si fermano senza veramente guardare, e anche davanti “a uno dei commoventi tentativi di ritratto di Madame Cézanne” parlano di orrore e usano questo orrore per un paragone che essi credono a loro favorevole. Ma se i quadri di Cézanne fossero immediatamente riconosciuti, forse sarebbe la prova che egli non è stato “abbastanza implacabile” (pp. 60-61). 



12. Il 17 ottobre ancora da Bernheim. Vede cose di Van Gogh, tra cui il quadro stupendo e terribile, Il caffè di notte, e ancora Rodin. È il 18 ottobre che egli cerca di riflettete sul suo rapporto con Cézanne. C’è stata una evoluzione nella sua poesia, a partire dai Neue Gedichte che lo ha predisposto a questo incontro, all’immenso “progresso che c’è nei dipinti di Cézanne”. Dunque ci sono motivi interiori che lo pongono in ammirazione davanti a quadri “di fronte ai quali forse soltanto poco tempo fa sarei passato con una momentanea partecipazione, senza tornare ad essi teso e in attesa”. E qui Rilke fa un’affermazione importante, che in parte è alla base anche di questo mio lavoro.


Non è la pittura che studio (perché nonostante tutto rimango rispetto ai quadri incerto e solo malamente so distinguere quelli buoni da quelli meno buoni, e di continuo scambio quelli dipinti prima con quelli dipinti più tardi). È la svolta in questa pittura, ciò che vi ho riconosciuto.

 
È la svolta. È dunque il senso che questa pittura ha assunto di fronte al suo tempo e di fronte a Rilke stesso. È quanto più sopra abbiamo visto essere stato per esempio il rapporto di Michel Leiris con Olympia, o quello di Genet con Rembrandt, e poi con Giacometti. Rilke è prudente. Tanto conta per lui questa pittura, a cui forse da lungo tempo era preparato e da cui così tanto per lui ora dipende, che deve essere prudente “con il tentativo di scrivere su Cézanne”, che già allora l’aveva occupato e che lo seguirà per tutta la vita. Forse non è “chi comprende [...] i quadri da un punto di vista così personale, che è legittimato a scriverne; chi sapesse confermarli nella loro presenza, senza provare rispetto ad essi altro che elementi fattuali, sarebbe certamente il più legittimato”.

 
Rilke lo sappiamo non ha scritto un libro su Cézanne, ma credo che neanche per un attimo abbia pensato che fosse giusto lasciarlo soltanto in preda agli specialisti. Questo incontro con Cézanne si è fatto spazio in lui, “colmo di conferma e di rapporti”. Questo incontro è la profezia delle Elegie. Cosa deve essere un’opera più che la capacità di generare pensieri ed emozioni che potranno generare un’altra opera e dunque altre forme e altri sguardi? Se un quadro che amo, come l’Innocenzo X di Velázquez, fosse scomparso avendo però generato l’Innocenzo X di Bacon, quel dipinto sarebbe stato ugualmente un evento decisivo per l’umanità. Ma Cézanne non soltanto è alla base delle Elegie, ma anche dell’idea di lavoro che ha permesso le Elegie. Noi, scrive Rilke, dall’opera di Cézanne.

arriviamo a sapere quanto massiccio e puro lavoro posava in essa alla fine. Questo lavoro che non aveva alcuna predilezione o inclinazione e che non era viziato da alcuna abitudine, la  cui più piccola particella veniva posata sulla bilancia di una coscienza infinitamente mobile, e che [...] concentrava l’essere nel suo contenuto di colore, di modo che al di là del colore iniziava una nuova esistenza, che si era lasciata alla spalle ogni precedente ricordo.

Lì si è concentrata come in un grumo una cosalità infinita che rifiuta ogni mescolanza che rende i ritratti di Cézanne così urtanti per la gente. Tanto che in questo Salon egli è solo, come lo è stato negli ultimi decenni della sua vita. Anche i pittori giovani si avvicinano a lui perché lì scorgono i mercanti d’arte e poi passano rapidamente oltre. 

13. La lettera del 19 ottobre richiama un passo del Malte in cui si ricorda quell’incredibile poesia di Baudelaire, La carogna.17 Ora Rilke pensa che “senza questa poesia tutto lo sviluppo verso un linguaggio di cose, che ora crediamo di riconoscere in Cézanne, non avrebbe potuto avere inizio; prima doveva esserci questo nella sua inesorabilità. Prima lo sguardo artistico doveva essersi spinto tanto oltre se stesso, da vedere l’esistente anche nell’orribile, anche in ciò che appare ripugnante, che vale insieme a tutto l’altro esistente.” Quando Flaubert scriveva la storia di Saint-Julien l’Hospitalier,18 l’artista “condivideva le decisioni del santo” che aveva abbracciato il lebbroso, “e vi si accordava e vi consentiva felice”. Cézanne, d’altronde, ricordava ancora negli ultimi anni della sua vita la poesia di Baudelaire e la recitava a memoria. Se il libro di Malte sarà scritto “non sarà altro che il libro di questa intuizione, che è toccata a uno per il quale essa era eccessiva”. Per Malte era stata eccessiva, per Rilke ora l’intuizione che  emerge nella Carogna19 di Baudelaire è diventata necessaria, decisiva come lo era stata per Cézanne (pp. 64-65). 

 
Baudelaire ricorda all’amica quel bel mattino di una dolce estate in cui videro “alla svolta d’un sentiero, una carogna infame / Su un letto disseminato di pietrame // Gambe all’aria, come una donna lubrica, / Ardente, essudando veleno, / spalancava, quasi noncurante e cinica, il ventre d’esalazioni pieno”. La descrizione è terribile, nel brulichio dei vermi che muovono la carogna come fosse ancora vivente. Ma c’è qualcosa nella poesia che ne determina, credo, l’importanza, per Cézanne e per Rilke. Le forme di questo grumo di putrefazione sono “sul punto di svanire”, ma sono anche “uno schizzo lento a venire, / Sulla tela dimenticata, che l’artista può definire / Solo attraverso il ricordo”. Anche questo orrore, anche questo orrore sul punto di svanire - e viene in mente quando Cézanne diceva che bisogna far presto perché tutto si dilegua - può essere definito in una forma dall’artista, anche solo “attraverso il ricordo”. Anche ciò che si rifiuta alla parola può essere colto in una forma che ci restituisce la sua verità. La bellezza, l’orrore, la gioia, il dolore, la morte. 

14. La morte. Nella lettera del 21 ottobre Rilke sottolinea come in Cézanne la forma pittorica prevaleva su tutto. Van Gogh sapeva troppo e scriveva lettere straordinarie. Cézanne non aveva bisogno di questo. Dipingeva e rispondeva bruscamente a chi voleva trascinarlo a spiegazioni: “Risponderò coi quadri”. La sua firma per esteso: Pictor Paul Cézanne, colui che scrive nella sua ultima lettera del 21 settembre 1905: “Continuo i miei studi” e poi “Mi sono giurato di morire dipingendo”. Desiderio rispettato alla lettera, scrive Rilke. Come in un’antica danza macabra, la morte ha afferrato da dietro la sua mano, dipingendo lei stessa l’ultimo tratto, con un brivido di piacere; la sua ombra si era allungata già da tempo sulla tavolozza, ha avuto tempo di scegliersi, nella cerchia aperta dei colori quello che più le piaceva; quando fosse arrivato sulla punta del pennello, l’avrebbe preso, avrebbe dipinto... ecco, era proprio lì; lo prese e fece il suo tratto, l’unico che essa sapeva. Anche la morte è entrata nel quadro. Anche la morte si è piegata alla volontà dell’artista. Anzi, ha collaborato con lui, scegliendo il colore, e lasciando, attraverso la mano del pittore, il suo segno sulla tela. Quadro-mondo, dunque, se mai sia stato possibile (pp. 68-69). 
15. Il 22 ottobre il Salon chiude. Rilke è lì per cercare ancora una volta i colori, un violetto, un verde o certe tonalità di blu. E poi “la grande costruzione di colori della donna sulla poltrona rossa”, il ritratto di Madame Cézanne del 1877, di cui Rilke non ci dà il titolo. È necessario rivederlo perché richiamarlo è come ricordare un numero con moltissime cifre, che egli però si è impresso nella mente cifra dopo cifra. “La coscienza della sua presenza è giunta al mio sentimento con tanta acutezza che la sento anche nel sonno; il mio sangue la descrive per me”. Un sentimento forte che attraversa come una lama la mente e anche il corpo, ma le parole sembrano scivolare via incapaci di coglierlo. Rilke prova a decrivere il quadro, accuratamente, quadro in cui, come egli stesso sottolinea, “è come se ogni punto sapesse di tutti gli altri [...] tanto ognuno di essi si prende cura a suo modo dell’equilibrio e lo stabilisce: allo stesso modo in cui infine l’intero quadro tiene in equilibrio la realtà” (pp. 69-70). Anche questo è un compito. L’arte non deve rappresentare il mondo. L’arte - come Hegel ha detto della filosofia - non deve essere edificante. L’arte è muta. Eppure quella cosa misteriosa che Rilke cerca di comunicare è vera. È autentica la percezione che un’opera ad un certo punto sembra “tenere in equilibrio la realtà”. È qualcosa di misterioso ed inspiegabile. Nessuna opera, come ha detto Thomas Bernhard in Antichi maestri, è perfetta e priva di difetti. Lo aveva detto anche Flaubert che nel suo Sciocchezzaio aveva inserito brani anche di indiscussi capolavori, di autentici “antichi maestri”.20 Eppure di fronte al Riposo durante la fuga in Egitto di Caravaggio abbiamo davvero l’impressione che questo quadro possa tenere in equilibrio la realtà, così come, di converso, abbiamo l’impressione che questo stesso equilibrio possa vacillare di fronte all’Innocenzo X entrambi alla galleria Doria Pamphilj di Roma

16. Il giorno successivo è ancora la questione del ritratto con la poltrona rossa, e della difficoltà delle parole di coglierne fino in fondo il senso. Più facile forse di fronte all’autoritratto. È vero che le parole anche qui sembrano arretrare rispetto a quanto afferma la pittura nel gioco di colori che continuano ad affiorare. Però l’oggetto, Cézanne stesso, sembra offrirsi comprensibile, “e le parole che si sentono così infelici nel proporre i dati pittorici, ritroverebbero volentieri se stesse di fronte a ciò che è rappresentato, con cui ha inizio il loro campo, e descriverebbero ciò che c’è”. Si osserva dunque “la potente struttura del cranio”, l‘incredibile “intensità” di un’espressione che al tempo stesso si offre come primitiva, come quella di un bambino o di gente di campagna, e un’attenzione d’animale, un’instancabile “oggettiva vigilanza attraverso gli occhi”. Ecco, Cézanne si è dipinto così, “senza neanche remotamente spiegare la sua espressione e senza considerarsi superiore, con tanta umile oggettività, con la fiducia e la partecipazione oggettivamente interessata di un cane che si vede allo specchio e pensa anche lì c’è un cane” (pp. 71-72). 

 
Ora, il 24 ottobre, è ancora la memoria dei colori: il violetto o il blu o il rossiccio o il verde che sono anche nel fondo del grigio. È la memoria delle conversazioni con la pittrice Vollmoeller. È ancora una volta lo sguardo, ora della memoria, su quelle nature morte “così meravigliosamente occupate con se stesse”. Quel bianco, che si intride del color locale predominante, e poi su quel bianco “le cose che vi sono collocate, le quali ora, di tutto cuore, si esprimono e si abbandonano” (pp. 72-73). 

17. L’ultima lettera a Parigi del 25 ottobre non è già più Cézanne, ma programmi di partenza, di viaggi. All’inizio di novembre Rilke è a Praga dove in una galleria è ancora Cézanne insieme ad altri pittori dell’impressionismo. Poi la Boemia. Nel 1915 è a Monaco, dove vede quadri di Picasso, di Kokoschka, disegni di Klee. Il 23 febbraio 1921, in una lettera a Wilhelm Hausenstein, torna il problema Cézanne e torna facendo affiorare un tema che era non solo tacitamente già emerso nelle lettere a Clara, e che abbiamo già incontrato attraversando Manet, e poi Rembrandt e Giacometti. È il tema del sacrificio che, secondo Bataille, è decisivo per fare e per capire l’arte e la poesia, in quanto sono attività che di principio hanno sacrificato la comunicazione, l’utile, e le regole su cui si regge la società. Ricordiamo come Jean Genet abbia ugualmente sottolineato l’assurdità, da un punto di vista sociale, di uno che danza su un filo e di uno che scrive in versi. Ma questa rinuncia, questo “sacrificio”, è di fatto in primo luogo un auto sacrificio, come ci indica “la profonda disperazione nel creare di Cézanne”. E poi scrive ancora Rilke 

il suo ruotare intorno alla réalisation, mi sono parsi spesso come una violenza nel porre ancora una volta sullo stesso piano oggetto e significato ad ogni costo: ma il costo era già perciò stesso farsi vittima sacrificale, l’abnegazione giornaliera e il sacrificio della vita a questa cosa che è appena afferrabile. 

Dunque nell’arte di Cézanne, forse in ogni grande opera d’arte, è in gioco niente di meno che il sacrificio della vita stessa. È come l’adempimento di un compito, l’adempimento di Cézanne, “che ha una riuscita ancora gigantesca” e intorno al quale “compare il nome di ‘fatalità’” (p. 97). Cézanne poi riappare, come abbiamo ricordato in una lettera del 24 dicembre 1921, quasi sulle soglie delle Elegie in cui Rilke adempie ora al suo compito portandosi con la sua poesia all’altezza di Cézanne. Rilke stesso ha parlato a proposito di Cézanne di fatalità. In realtà Cézanne è stato la sua fatalità. Ha disegnato il suo destino. 

18. Ancora nel 26 novembre 1924 rispondendo a un questionario di Alfred Schaer Rilke dichiara che Cézanne è stato per lui un modello e che dopo la sua morte ha cercato di seguire tutte le sue tracce. Per Rilke essere di fronte a Cézanne è stato far fronte a un’esperienza che ha cambiato al sua vita. Questa è l’esperienza che egli ci comunica, sperando che questa possa in qualche modo toccarci. Dunque Rilke non si è posto di fronte a Cezanne come un professore universitario, che è ciò che appunto gli rimprovera Giuseppe di Napoli nel libro L’occhio del pittore.21 Le opere di Cézanne hanno, scrive Di Napoli, “sortito l’effetto di un illuminamento poetico, percepito con esaltazione, al quale si possono ricondurre le cause di quelle incoerenze e incertezze critiche che si riscontrano nel testo, per altro ammesse dallo stesso Rilke” (p. 249). Rilke infatti riconosce i suoi limiti, come abbiamo visto più sopra nella lettera dell’8 ottobre (p. 63), che sono però all’interno di una sequenza di lettere e non di una dissertazione, infatti non sono “nel testo”, come scrive Di Napoli. Che aggiunge: “Quando scrive di un dipinto, Rilke non indica date o titoli, né specifica a quale fase dell’evoluzione stilistica del pittore esso appartenga, passando spesso da un dipinto a un altro della stessa tipologia” (p. 250). In sostanza ciò che interessa a Rilke, come Di Napoli ribadisce, è solo la réalisation, a cui, come vedremo tra un attimo, egli attribuisce però il senso di una vocazione ad un piatto realismo. 

 
Mi rileggo L’atelier di Alberto Giacometti di Jean Genet, che pure non è un professore universitario. Genet non cita né un titolo né una data. Nel suo testo è difficile riconoscere un’opera specifica. Eppure Pablo Picasso ha detto che quel testo “era il miglior saggio sull’arte che egli avesse mai letto”.22 È evidente che né Rilke né Genet erano interessati a una cattedra accede-mica. Si pongono l’uno di fronte a Cézanne, l’altro di fronte a Giacometti, cercando di coglierne il senso più profondo: la loro necessità. Confesso che devo a loro l’emozione di essermi potuto accostare al segreto di Cézanne, al segreto di Giaco-metti più di quanto non avessi potuto prima di leggerli e di confrontarmi con loro. George Steiner in Vere presenze23 ha detto che la miglior critica di una poesia è quella di un poeta, di un’opera d’arte quella di un artista, quelli cioè che cercano più profondamente, più accanitamente di scoprirne il segreto. Ma forse non solo il poeta o l’artista può accostarsi all’arte, ma anche colui che cerca di trasformare la critica dando ad essa “una responsabilità creativa” (p. 27). Sono stato anch’io professore universitario, in commissioni di tesi di laurea e di dottorato, e conosco il sospetto di queste commissioni nei confronti di una critica che si assuma una qualche “responsabilità creativa” e la loro passione per la letteratura secondaria, che spesso altro non è, come dice ancora Steiner, che “una grigia palude”. Steiner afferma che l’opera di Rilke, per esempio il grido degli angeli che apre le Elegie, provoca in noi “un imbarazzo intollerabile” tanta è la sua “tremenda bellezza”(p. 56). Questa tremenda bellezza si genera negli occhi che hanno imparato a vedere guardando Cézanne. 

19. Credo che la resistenza di Di Napoli nei confronti di Rilke nasca da un fraintendimento. Rilke non aspirava all’oggettività (p. 248), né cercava di scoprirla in Cézanne, e tantomeno cercava una “vocazione materialistica della pittura di Cézanne” (p. 282). L’equivoco sta nel fraintendimento della nozione di réalisation, che non ha nulla a che vedere, né in Cézanne, né in Rilke, con il materialismo o con un realismo mimetico.2Réalisation, come abbiamo potuto vedere attraverso le lettere di Rilke su Cézanne, significa rendere reale gli oggetti del mondo nella cosa: nella forma in cui essa si esprime, in cui essa si dona. Il mero oggetto è estraneo. Compito dell’arte, della poesia è renderlo una cosa per noi. Solo la forma può farlo. Così Rilke nella IX Elegia parla del pellegrino che dalla cresta del monte non 

porta a valle una mano piena di terra, indicibile a tutti,
ma una parola conquistata, pura, la gialla e celeste
genziana. Noi siamo qui forse per dire: casa,
ponte, fontana, porta, brocca, albero da frutto, finestra,
al più: colonne, torre... ma per dire, capisci,
per dire così, come mai le cose stesse 
intimamente sapevano d’essere. 
Questa è “l’arguzia segreta di questa terra ammutolita”. Non una cosa nella sua materialità, dunque, non un pugno di terra, ma la parola che esprime la cosa. Anche all’angelo: “Digli le cose, Ne sarà stupefatto”. Le cose sono destinate a perire. “Vivono /nel trapassare capiscono che tu le lodi; caduche / fidano che in noi, i più caduchi, sia ciò che salva. / Vogliono che nell’invisibile cuore noi le si debba trasfigurare / oh!, all’infinito, dentro di noi! Chiunque noi siano alla fine”. Mi pare che ogni ipotesi di realismo o di vocazione materialistica cada di fronte a questi versi. 

 
Questa è la verità di Rilke. Questo Rilke, e non una mera oggettività, scopre in Cézanne e realizza nelle Elegie duinesi e nei Sonetti a Orfeo dove pure si canta il regno della metamorfosi, e non un mondo di cose che stanno.

20. Alla fine Di Napoli si porta sulla montagna, sulla Sainte-Victoire e cita un testo illuminante di Merleau-Ponty. Che cosa chiede Cézanne alla montagna, si interroga Merleau-Ponty? “Di rivelare i mezzi, i mezzi visibili soltanto, con i quali essa si fa montagna”.25 Momento cruciale, perché di fatto la montagna non è immobile, non è mai la stessa: si fa e si disfa. Cézanne vuole mostrare come essa è intimamente. La montagna infatti, come ha detto Bataille della cosa, è più di quel che è, è più di ciò che materialmente appare. Nella profondità della cosa è nascosto il suo segreto, che è paradossalmente il segreto del suo divenire e quindi anche del suo tramontare. Cézanne dunque fa diventare la sua montagna greve, e poi molto più leggera delle mele che pesano sul tavolo, più leggera di una nuvola vagante nel cielo, come per esempio la Sainte-Victoire del Kunsthaus di Zurigo. Ne cerca la forma, ma essa non ha una forma definitiva. La montagna racconta la mutevolezza delle cose, che mutano come noi stessi mutiamo, come il nostro viso muta e si trasforma. Ho visto molti anni fa, tra il 1996 e 1997, al Grand Palais di Parigi una mostra di Cézanne in cui non c’erano certamente tutte le Sainte-Victore che egli ha dipinto, ma tante quante mai avevo visto insieme. È stato allora che è nata in me l’idea che la sequenza delle montagne fosse in fondo una sequenza di autoritratti. Che la verità della Sainte-Victoire fosse la verità di Cézanne stesso. 

IL SEGRETO DI MANET
IL SEGRETO DI MANET
Franco Rella