Anche Genet prova a fuggire alla verità che gli piomba addosso. Ma negarla significa anche negare se stesso, ed è appunto su questo limite, sul bordo di una verità e della sua negazione, che l’arte trova il suo senso. E su questo limite che si può precipitare o si può trovare se stessi.
È, come abbiamo ricordato, per Genet un momento di crisi profonda. Sembra che “una cancrena” attacchi tutta la visione del mondo a cui egli si è affidato quando, in una tristezza intollerabile, precipita su di lui “la rivelazione che ogni uomo ne vale un altro”. Chi gli porta questa rivelazione non è un messaggero celeste o infernale, ma un uomo con tratti banali, brutti, persino ripugnanti in alcuni dettagli: “baffi sudici, il che sarebbe nulla, ma duri, ispidi, con i peli piantati quasi orizzontalmente sopra la bocca minuscola, una bocca guasta, scaracchi che lasciava cadere fra le ginocchia sul pavimento del vagone” (Ciò che resta, pp. 27-28). Non è ancora una folgorazione. La cosa si fa via via progressivamente strada in lui. Dapprima il suo sguardo incrocia quello del viaggiatore, anzi si urta con esso, e quindi progressivamente si fonde in esso. Quello sguardo non è più lo sguardo di un altro: “Era il mio che incontravo in uno specchio, inavvertitamente e nella solitudine e nell’oblio di me”. La rivelazione è muta. Non ci sono parole per dirla, ma soltanto la terribile sensazione dell’altro che defluisce in me, di me che defluisco nell’altro (p. 29).
È uno sguardo fugace, di appena un attimo. Uno sguardo che gli consegna una sensazione di disgusto, ma in lui resta inequivocabile la coscienza, la certezza anzi, che quell’uomo, dentro di sé, era uguale a tutti gli altri uomini. Dunque Genet prosegue il viaggio e lo scavo in se stesso, per arrivare a capire cosa lo sta effettivamente sconvolgendo. Ben presto si convince che proprio questa identità, che gli è apparsa d’improvviso, tra quell’uomo e lui stesso e tutti gli altri uomini, “faceva sì che ogni uomo venisse amato né più né meno di qualunque altro, e che venisse amata, vale a dire accettata e legittimata, circondata di attenzioni, persino la più immonda apparenza” (pp. 30-31).
Vedremo più avanti come Rilke ricordi il racconto di Flaubert, San Guliano l’Ospitaliere, in cui il santo abbraccia il lebbroso, per ricordare come in Cézanne si esprimesse l’idea che nessun uomo, anzi nessuna cosa potesse essere respinta. Una volta che si fosse respinta una parte del mondo, si perdeva ogni diritto, ogni legittimità a rappresentare il mondo. Qualcosa di simile avviene anche in Genet, se ricorda l’equivalenza di quel volto, di tutti i volti, anche con le teste di montone mozzate al mattatoio de Les Halles (p. 32). Forse questa inidentità - essere ognuno - è ciò che spinge lui e i suoi “amici più cari” a rifugiarsi “con tutto il loro essere - ne avevo la certezza - in una ferita segreta”, in una “sfera segreta, forse insopprimibile” (p. 32), per trovare se stessi nella solitudine. Gli amici più cari? Il funambolo? Giacometti? L’origine di questo testo - Ciò che resta - è lontana, ma la sua pubblicazione è successiva ai testi Il funambolo e L’atelier di Alberto Giacometti per cui diventa credibile che a questi egli stesse pensando.
Ma Genet non ha ancora tratto tutto da questa sua esperienza. Viene colto da un’immensa tristezza, dalla percezione che ormai nulla sarebbe stato come prima, e che tutto dunque diventava incerto, in un mondo che sembrava preso da una inarrestabile fluttuazione” (pp. 34-35). Ma è inutile spingersi sulla via che questa rivelazione ha aperto per dissolversi in essa. Gli accidenti della vita hanno fatto di Genet un poeta e dunque “forse era necessario che il poeta utilizzasse questa scoperta per lui nuova”. C’è chi l’ha fatto. Lo ha fatto Rembrandt. “Rembrandt! Quel dito severo che fa cadere ogni orpello e mostra... cosa? Un’infinita, infernale trasparenza” (p. 37). Questa trasparenza combatte, lo abbiamo già ricordato, in Genet, con l’ossessione erotica, che è sempre legata ad una individualità definita. L’aspetto fisico - il corpo che desidero - dà conto di questa individualità, e di questa soltanto. Mentre scrive, egli è turbato dai temi erotici che sono stati dominanti nella sua vita in cui ora è entrata - con l’idea di un’umanità che è tale, assoluta e intransitiva in tutti gli esseri - l’idea di una “debolezza” o addirittura di una “bontà forte” qual è quella di Rembrandt (Segreto, p. 129).