LA FERitA SEGRETA.
REMBRANDT E GIACOMETTI

Bisogna essere morti più volte per dipingere così. [...] Rembrandt sonda così profondamente il mistero che dice cose per le quali non ci sono parole in nessuna lingua. 
Vincent Van Gogh 

Non c’è altra origine per la bellezza, che la ferita, individuale, irripetibile, che ogni uomo custodisce in sé e difende [...]. Mi sembra che l’arte di Giacometti miri a svelare questa ferita segreta comune a tutti gli esseri e persino a tutte le cose. 
Jean Genet 

1.Jean Genet, come racconta il suo biografo Edmund White, incontra l’opera di Rembrandt a Londra e ad Amsterdam nel 1952 e nel 1953 al culmine di un’esperienza per lui sconvolgente, che ha luogo in un momento di crisi profonda e di inerzia creativa.1 A lungo coltiva l’idea di un libro su Rembrandt, che a un certo punto, verrà dato come imminente in occasione della pubblicazione, il 4 settembre 1958, di un breve testo su “L’Express” intitolato Il segreto di Rembrandt, che viene appunto presentato come un estratto di questo stesso libro dichiarato in uscita. Nel 1968 verrà pubblicato su “Tel quel” un altro frammento di questo libro di cui, per altro, non restano altre tracce. Questo testo era già stato pubblicato in inglese nel marzo del 1964 su “Art and Literature” e, nello stesso mese, in italiano sulla rivista “Il menabò”. Si tratta di un testo che parla di Rembrandt, ma accompagnato da un breve scritto che narra di un’esperienza sconvolgente, che per Genet si associa all’incontro con Rembrandt. Il “Menabò” intitola questi due testi Il mio antico modo di vedere il mondo e Il nostro sguardo. I due testi compaiono poi su “Tel quel” con un titolo completamente diverso: Che cosa è rimasto di un Rembrandt strappato in pezzetti tutti uguali e buttato nel cesso. Per questa pubblicazione Genet ottiene che il testo, che racconta della sua esperienza sconvolgente, e il testo su Rembrandt, compaiano in due colonne affiancate, come se uno potesse illuminare l’altro o come se uno potesse trarre giustificazione dall’altro. Questa impaginazione ha colpito a tal punto Jacques Derrida, che la ripropone in Glas, libro consacrato a Genet su una colonna e a Hegel sull’altra.2

Dunque due testi, due frammenti su Rembrandt. E qui la mia decisione di affiancare a questi due testi, altri due testi, Il funambolo e L’atelier di Alberto Giacometti. Sta di fatto che se l’esperienza Rembrandt è precedente all’incontro con Giacometti e con Abdallah Bentega, avvenuto nel 1956, che gli ispira Il funambolo, questi quattro testi vengono comunque scritti quasi contemporaneamente. Tra il marzo e l’aprile del 1957 vengono scritti Il funambolo e L’atelier di Giacometti. Il segreto di Rembrandt, uscito nel 1958, è però anch’esso “perfettamente contemporaneo” al saggio su Giacometti, come scrive Simonet nella sua nota a Rembrandt, che abbiamo citato più sopra. Anche il testo pubblicato su “Tel quel”, Che cosa è rimasto..., è a mio giudizio diventato possibile proprio nel quadro di questo quartetto - i due Rembrandt, Il funambolo, e Giacometti - in cui si definisce l’estetica e la poetica di Jean Genet, che si stacca definitivamente da quanto aveva scritto in passato. La scoperta sconvolgente, fatta in un vagone di terza classe, che ogni uomo è uguale ad ogni altro uomo, la scoperta che anche per Rembrandt esisteva un’unica umanità, così come anche per Giacometti, è una conquista radicale e dolorosa. A questo punto egli sapeva di volersi sbarazzare “dell’erotismo, per tentare - scrive - di bandirlo da me, di allontanarlo ad ogni costo”. Rembrandt e “un sesso eretto, congestionato e vibrante” contrapposto al “fragile sguardo”, che egli ha scoperto” in Rembrandt, che egli ha scoperto in sé e che vuole conservare come una cosa preziosa.3 Un fragile sguardo, come scopriremo, e un’infinità bontà che si lega inscindibilmente e paradossalmente alla crudeltà che è propria dell’arte. Ma la crudeltà artistica è comunque altro rispetto alla potenza espressa da un fallo, che si erge “in un selva di peli neri e ricciuti”, e che chiede dominio. 

2. Sono convinto - come ho detto - che i saggi su Rembrandt si completino con Il funambolo e con L’atelier di Alberto Giacometti. Lo sguardo che Rembrandt porta sulla carne che si decompone approssimandosi alla morte, è lo sguardo che si porta sulle figure “sfigurate” di Giacometti. In Giacometti e in Rembrandt, come nell’artista del filo, il funambolo, c’è quella solitudine abissale, in cui l’uomo si riduce a ciò che è in lui più irriducibile, a quella solitudine in cui scopre di essere equivalente ad ogni altro uomo, nel momento stesso in cui con la sua arte si pone in una sorta di esilio dalla normalità, quasi fosse proprio la condizione dell’esilio a dargli quella veggenza. In tutti e quattro i testi compare il tema del deserto, della solitudine, di una ferita, quella ferita profonda, che, come leggeremo più avanti, ogni uomo custodisce dentro di sé, una ferita che forse abita anche gli oggetti e le cose e che li fa essere, come ha detto Georges Bataille, più di quel che sono.  O come ha cercato di mostrare Cézanne, che non indaga solo il segreto della montagna, ma anche il segreto di queste mele, qui sul tavolo. Le cose hanno una parte che rimane nascosta al nostro sguardo, nascosta in un cono d’ombra, quello che una mela posta su un tavolo proietta invisibile dietro di sé. Si può anzi dire che l’opera di Cézanne sia stata l’esplorazione sistematica di questo cono d’ombra nascosto. Forse addirittura ogni opera d’arte si sporge su questo cono d’ombra. Si sporge sul segreto di un volto e sul segreto della cosa che proprio nell’ombra si disegna.
Detto questo ho dovuto decidere in che ordine procedere. In parte lo ha deciso Genet stesso che ha pubblicato Che cosa resta... nel IV volume (1968) e gli altri testi nel V volume (1979) delle sue Œuvres complètes.4
Non è possibile dare una lettura simultanea delle due colonne di Ciò che resta, dunque percorreremo la colonna di sinistra come un testo autonomo, che solo alla fine dichiara la sua connessione con Rembrandt. Poi proseguiremo la colonna di destra, che troverà il suo completamento nel Segreto di Rembrandt. Poi cercheremo di entrare negli altri due testi, che a questi sono intrinsecamente legati. Testi che fanno emergere dalle opere di cui parlano la sacralità di un’umanità nuda, quell’umanità assoluta che porta dentro di sé, come la sua verità più profonda, la morte. Questo scopre Genet in Rembrandt. Questo egli scopre nella danza sul filo del funambolo. Questo scopre in Giacometti. Questo scopre in un volto di un uomo che gli sta di fronte nel vagone di un treno. Quello che Genet scopre in quel volto, e in Rembrandt e nel funambolo e in Giacometti, egli di fatto scopre anche in se stesso. 
3. L’esperienza del treno è un’esperienza eccezionale. Ci sono momenti in cui l’artista, il poeta che è in Genet, ma forse anche ognuno di noi, si muove come in esilio da se stesso, in contrade segnate dalla solitudine e dalla disperazione. È in questo contesto che avviene la rivelazione. Avviene qualcosa che cambia la nostra vita, e nel caso di Genet lo spinge a scrivere e al contempo a non scrivere, come dimostra un testo come Cosa resta, appunto di un Rembrandt, ridotto in frammenti, dunque scritto e negato. Viene in mente l’esperienza di Kafka. George Steiner scrive che “il ‘non so come dirlo’ di Geremia o di Giona che si sottraggono alla preveggenza trova un parallelo letterale in Kafka con ‘l’impossibilità di scrivere, l’impossibilità di non scrivere’”.5 D’altronde queste parole di Steiner sembrano fare eco a quanto lo stesso Kafka ha scritto a Milena il 3 giugno 1920:

Oggi ero atterrito da ciò che mi era caduto in grembo, atterrito alla stessa maniera che si racconta dei profeti, i quali erano deboli fanciulli [...] e ascoltavano la voce che li chiamava ed erano atterriti e non volevano e puntavano i piedi e avevano una paura che straziava il cervello e già prima avevano udito voci e non sapevano donde venisse il suono terribile di quella voce - era la debolezza delle loro orecchie o la forza di questa voce - e non sapevano nemmeno [...] che la voce aveva già vinto, che si era installata in loro attraverso quella paura che era stata mandata avanti come un presentimento.6

Anche Genet prova a fuggire alla verità che gli piomba addosso. Ma negarla significa anche negare se stesso, ed è appunto su questo limite, sul bordo di una verità e della sua negazione, che l’arte trova il suo senso. E su questo limite che si può precipitare o si può trovare se stessi.

 
È, come abbiamo ricordato, per Genet un momento di crisi profonda. Sembra che “una cancrena” attacchi tutta la visione del mondo a cui egli si è affidato quando, in una tristezza intollerabile, precipita su di lui “la rivelazione che ogni uomo ne vale un altro”. Chi gli porta questa rivelazione non è un messaggero celeste o infernale, ma un uomo con tratti banali, brutti, persino ripugnanti in alcuni dettagli: “baffi sudici, il che sarebbe nulla, ma duri, ispidi, con i peli piantati quasi orizzontalmente sopra la bocca minuscola, una bocca guasta, scaracchi che lasciava cadere fra le ginocchia sul pavimento del vagone” (Ciò che resta, pp. 27-28). Non è ancora una folgorazione. La cosa si fa via via progressivamente strada in lui. Dapprima il suo sguardo incrocia quello del viaggiatore, anzi si urta con esso, e quindi progressivamente si fonde in esso. Quello sguardo non è più lo sguardo di un altro: “Era il mio che incontravo in uno specchio, inavvertitamente e nella solitudine e nell’oblio di me”. La rivelazione è muta. Non ci sono parole per dirla, ma soltanto la terribile sensazione dell’altro che defluisce in me, di me che defluisco nell’altro (p. 29).

 
È uno sguardo fugace, di appena un attimo. Uno sguardo che gli consegna una sensazione di disgusto, ma in lui resta inequivocabile la coscienza, la certezza anzi, che quell’uomo, dentro di sé, era uguale a tutti gli altri uomini. Dunque Genet prosegue il viaggio e lo scavo in se stesso, per arrivare a capire cosa lo sta effettivamente sconvolgendo. Ben presto si convince che proprio questa identità, che gli è apparsa d’improvviso, tra quell’uomo e lui stesso e tutti gli altri uomini, “faceva sì che ogni uomo venisse amato né più né meno di qualunque altro, e che venisse amata, vale a dire accettata e legittimata, circondata di attenzioni, persino la più immonda apparenza” (pp. 30-31). 

 
Vedremo più avanti come Rilke ricordi il racconto di Flaubert, San Guliano l’Ospitaliere, in cui il santo abbraccia il lebbroso, per ricordare come in Cézanne si esprimesse l’idea che nessun uomo, anzi nessuna cosa potesse essere respinta. Una volta che si fosse respinta una parte del mondo, si perdeva ogni diritto, ogni legittimità a rappresentare il mondo. Qualcosa di simile avviene anche in Genet, se ricorda l’equivalenza di quel volto, di tutti i volti, anche con le teste di montone mozzate al mattatoio de Les Halles (p. 32). Forse questa inidentità - essere ognuno - è ciò che spinge lui e i suoi “amici più cari” a rifugiarsi “con tutto il loro essere - ne avevo la certezza - in una ferita segreta”, in una “sfera segreta, forse insopprimibile” (p. 32), per trovare se stessi nella solitudine. Gli amici più cari? Il funambolo? Giacometti? L’origine di questo testo - Ciò che resta - è lontana, ma la sua pubblicazione è successiva ai testi Il funambolo e L’atelier di Alberto Giacometti per cui diventa credibile che a questi egli stesse pensando.

 
Ma Genet non ha ancora tratto tutto da questa sua esperienza. Viene colto da un’immensa tristezza, dalla percezione che ormai nulla sarebbe stato come prima, e che tutto dunque diventava incerto, in un mondo che sembrava preso da una inarrestabile fluttuazione” (pp. 34-35). Ma è inutile spingersi sulla via che questa rivelazione ha aperto per dissolversi in essa. Gli accidenti della vita hanno fatto di Genet un poeta e dunque “forse era necessario che il poeta utilizzasse questa scoperta per lui nuova”. C’è chi l’ha fatto. Lo ha fatto Rembrandt. “Rembrandt! Quel dito severo che fa cadere ogni orpello e mostra... cosa? Un’infinita, infernale trasparenza” (p. 37). Questa trasparenza combatte, lo abbiamo già ricordato, in Genet, con l’ossessione erotica, che è sempre legata ad una individualità definita. L’aspetto fisico - il corpo che desidero - dà conto di questa individualità, e di questa soltanto. Mentre scrive, egli è turbato dai temi erotici che sono stati dominanti nella sua vita in cui ora è entrata - con l’idea di un’umanità che è tale, assoluta e intransitiva in tutti gli esseri - l’idea di una “debolezza” o addirittura di una “bontà forte” qual è quella di Rembrandt (Segreto, p. 129). 

4. Albert Camus pensando a Rembrandt ha scritto nei suoi Taccuini: “La gloria sino al 1642, a trentasei anni. A partire da quella data il cammino verso la solitudine e la povertà”. E aggiunge: “Molto si è scritto sull’esperienza dell’artista misconosciuto”, ma “su un’esperienza del genere non si è ancora detto nulla”.7 Ci siamo spostati sulla colonna di destra dello scritto di Jean Genet, Ciò che resta. Ora ci poniamo con lui davanti a Rembrandt. Ma per procedere forse è necessario dare qualche notizia sulla vita di Rembrandt, sulla sua fortuna e poi sulla sua disgrazia. Rembrandt, secondo una guida di Leida pubblicata nel 1641, era nato il 15 luglio 1606.8 La menzione nella guida non è soltanto un indizio biografico, ma ci attesta la fama e la fortuna indiscusse del pittore a trentacinque anni. Ma il momento del suo massimo splendore è anche l’inizio di un cammino verso la solitudine, la rovina, la morte, proprio come se, in quegli anni, Rembrandt avesse appreso che se la vita procede verso la morte, finisce, come scrive Georg Simmel su cui torneremo, per toccarla in un punto, ed egli avesse già iniziato il suo cammino proprio per giungere a quel punto di intersezione che segna inesorabilmente ogni esistenza. A vent’anni ha già degli allievi. Ha già iniziato la sequenza dei suoi autoritratti, come, ad esempio lo stupendo Autoritratto del 1628, in cui vediamo gli occhi emergere curiosi, forse inquieti, dall’ombra di un groviglio di capelli rossicci. Sguardo al tempo stesso di autoaffermazione e di perplessità e di stupore. Sono iniziate le committenze, ed è del 1632 La lezione di anatomia. Nel 1634 sposa Saskia. È ormai ricco e inizia una collezione importante di opere d’arte, ma via via i bambini che nascono dal matrimonio muoiono dopo pochi aliti di vita. Solo Titus, nato nel 1641, sopravvive ai suoi fratelli ma non al padre. 

Mille indizi sparsi nei suoi quadri alludono alla sua percezione della sventura. Esplicito è Il bue squartato del 1640: un memento mori, l’esibizione della fragilità e dell’orrore della carne.


Il 1642 è l’anno del suo massimo splendore, l’anno della Ronda di notte ed è l’anno della morte di Saskia, che lascia un complicato testamento che impedirà a Rembrandt di risposarsi. Inizia allora un rapporto, che si rivelerà rovinoso, con Geertje Dirsk, poi un lungo rapporto con Hendrickje. La dipinge, mentre si bagna (Donna che si bagna in un fiume), ma non riusciamo a capire se in lui c’era desiderio o repulsione quando dipingeva la veste rialzata, le gambe scoperte, le cosce che smagriscono, aprendosi in un varco, su verso il buio dell’inguine. A questo punto siamo ormai nel 1655. Rembrandt non ha più committenti. I suoi quadri, i quadri collezionati, le sue cose vengono venduti. Nel 1658 perde anche la casa, e in quell’anno si dipinge nella figura di un re (Autoritratto, New York, Frick Collection): un re solo, che fissa davanti a sé il nulla. Nel 1663 muore Hendrickje. Ormai è Titus che deve provvedere al padre. Titus si sposa nel 1668, per morire sette mesi dopo. Rembrandt gli sopravvive un anno, e in quest’ultimo anno ci lascia due autoritratti che sono immagini lancinanti. Autoritratto all’età di 63 anni, della National Gallery di Londra e L’autoritratto conservato all’Aia, alla Pinacoteca Reale Mauritshuis. 

5. Torniamo al Rembrandt fatto a pezzi. Ricordiamo ancora una volta che è nella colonna di destra, a fianco dell’esperienza che Genet ha fatto in treno. Quando posiamo gli occhi su un quadro di Rembrandt, soprattutto sui quadri della vecchiaia, il nostro sguardo, scrive Genet “si fa pesante, un po’ bovino”, come fosse trattenuto da “una forza greve”.9 Avvertiamo subito quasi un odore di stalla, un odore greve. “I petti respirano. Le mani sono calde. Ossute, nodose, ma calde”. È come se Genet cercasse di avvicinarsi un po’ alla volta a Rembrandt, alla sua anima, attraverso la carne. La prima impressione che egli dunque ne trae è quella della corporeità di quelle figure che compaiono nei quadri di Rembrandt. Qui “i corpi assolvono puntualmente alle loro funzioni: digeriscono, sono caldi, sono pesanti, puzzano, cacano”. La “sposa ebrea ha un volto delicato, ma si intuisce che essa ha anche un culo”. Anche nei suoi autoritratti la massa carnale si muove, si modifica, fino, all’ultimo, fino a quasi volersi annullare. Una massa, un ostacolo. “Nel caso di Rembrandt, scrive Genet, l’intera sua opera mi induce a credere che non gli bastasse liberarsi per raggiungere la trasparenza cui accennavo, ma volesse trasformarlo, [l’ostacolo] modificarlo, metterlo al servizio dell’opera”. 
È paradossale, ma è proprio della grande arte assorbire in sé anche ciò che pare in prima istanza ostacolarla. E dunque la necessità di far diventare un elemento dell’opera ciò che le si oppone o che addirittura la nega. Dunque, all’inizio “catene d’oro, cappelli piumati”. Egli è davanti allo specchio. Sembra non avere inquietudini. Lo spazio si fa scena teatrale. Lusso e forse finzione, forse teatro, poi però, poco a poco, egli finisce per attingere dal suo stesso narcisismo per trasformarlo. Finisce per ricavare dalla teatralizzazione “le gioie altrettanto attonite della manica della Sposa ebrea” (1665). 
 
Con la morte di Saskia Rembrandt giunge a un momento cruciale. Si libera di tutto. Dipinge in modo completamente diverso, si svincola dai committenti come volesse essere solo con la sua arte, tanto che Genet si chiede se Saskia “in qualche modo non l’abbia uccisa lui, se non si sia rallegrato della sua morte”. La sua mano infatti si libera, inizia 

una sorta di sregolatezza: morta Saskia, la società cui appartiene e il suo giudizio non hanno molto valore. Bisogna raffigurarseli, Saskia morente e lui, nel suo atelier, appollaiato su una scala, che scompagina l’ordine della Ronda di notte. 
6. Le opere d’arte danno una sorta di stupefazione, una sorta di paralisi dell’intelligenza. “Queste pagine”, le sue pagine, le pagine di Genet, nascono egli scrive “dall’emozione che ho provato (a Londra dodici anni fa) di fronte ai suoi più bei quadri. [...] Che cos’hanno questi dipinti nei quali mi sono impegolato? Chi è la signora Trip?”. A questa domanda Genet cercherà di rispondere nel Segreto di Rembrandt. Ma è proprio a questo punto che scatta qualcosa. “Più li guardavo e meno quei ritratti mi rimandano a qualcuno. A nessuno”. C’è voluto tempo per precisare questa idea “inebriante”. Dunque ora può dire che dopo i cinquant’anni i ritratti dipinti a Rembrandt non rimandano a nessuno di identificabile. È qui che la “colonna Rembrandt” si salda con la “colonna treno”. Ma c’è un passo ulteriore da fare. La pittura di Rembrandt diventa così la pittura stessa, nella sua assoluta intransitiva realtà, per così dire libera dall’obbligo di rappresentare altro che se stessa. Rembrandt ce la presenta come un materia “che non si vergogna di essere ciò che è”. È quanto da Zola fino a Bataille si è detto di Manet.
Così Rembrandt si può presentare “in tutta la sua follia di imbrattatele inebriato di colori”. Che si riconoscesse non solo “essere di carne” (chair) ma della stessa carne del bue appeso, della carne che è corpo (viande), e dunque anche “di sangue, di lacrime, di sudore, di merda, di intelligenza, di tenerezza e di altre cose ancora, all’infinito, senza che nessuna di queste neghi le altre o meglio: ciascuna che rende omaggio alle altre”. Un’umanità assoluta dunque. Parafrasando o ripetendo Gilles Deleuze: homo tantum.10 Ma questo non chiude il frammento Ciò che resta. C’è ancora una frase enigmatica, una clausola inquietante: 
E, ovviamente, tutta l’opera di Rembrandt ha senso - almeno per me - solo a patto che io sappia che tutto ciò che ho appena scritto era falso. 
Falso sull’una e sull’altra colonna? Relativamente a Rembrandt? O siamo nel gioco di verità e finzione che è proprio dell’arte? Non avevano già cantato le Muse in Esiodo (Teogonia, vv. 25-40) che il loro canto affermava le cose vere e le cose simili al vero? 
 
Forse il testo intitolato appunto Il segreto di Rembrandt può aiutarci a capire questa enigmatica affermazione. O forse, appunto, tra verità e finzione, Rembrandt rimane segreto, come segreta rimane l’opera di Genet che ne parla. Perché Genet non è uno storico dell’arte. Suo compito non è quello di commentare. Suo compito era, è stato, ed è ora per noi, quello di interrogare. 
7. Nel Segreto di Rembrandt Genet mette subito in luce la bontà e l’impegno morale che devono reggere un lavoro come quello di Rembrandt in cui - forse caso unico nella storia dell’arte - un pittore che si pone davanti allo specchio in successione e che ci “lascerà una serie di autoritratti in cui potremo leggere l’evoluzione del suo metodo e l’effetto di tale evoluzione sull’uomo”. O forse, come è più probabile, il contrario (p. 129).
 
All’inizio, come abbiamo già visto, è sensualità, è fasto. Poi è l’abilità, la bravura, che lo spinge a cercare di vincere la sfida rappresentata da un volto di vecchio. Li dipinge, allora, questi volti “con entusiasmo, con delicatezza ma, persino quello della madre, senza amore”. Pieghe, rughe, verruche “non sono alimentate dal calore che sprigiona un organismo vivente; sono ornamenti. Con grandissimo amore sono invece dipinti i due ritratti della Signora Trip (National Gallery), quelle due teste di vecchia che si decompongono, che imputridiscono sotto i nostri occhi”. Si possono togliere le tracce di vecchiaia dal ritratto La madre che legge (1629), ma non è possibile cancellare la decrepitezza dal viso della signora Trip. “Lei è questa decrepitezza”. È la sua verità, “di un’evidenza che squarcia il velo del pittoresco”. Ed è bella questa decrepitezza perché è l’opera di un pittore che “ha inteso riprodure solo ciò che è, e che, dipingendolo, non poteva che riprodurne tutta la forza - ossia la bellezza” (pp. 130-131). Riprodurre ciò che è, facendone emergere, proprio in questa fedeltà, la sua occulta bellezza, è l’impegno morale di Rembrandt. È quanto si era detto anche di Manet. Forse qui è il segreto di Manet e anche il segreto di Rembrandt. 
 
A questo punto Genet torna su quanto aveva già affrontato in Ciò che resta, vale a dire su ciò che giustificava la giustapposizione delle due colonne. I ritratti di Rembrandt, a eccezione del ritratto di Tito, suo figlio, non hanno, a differenza per esempio dei ritratti di Frans Hals, somiglianza con qualcuno. Egli dipinge volti che sembrano portare in sé “un grumo di destino di cui hanno piena coscienza” (p. 132). Rembrandt voleva in passato esaltare tutto. Ora sembra volersi liberare di tutto, forse per giungere a quell’assoluta trasparenza di cui Genet ci ha parlato. “Negli ultimi autoritratti non sarà più possibile leggere alcuna indicazione psicologica” (p. 134). Distacco, bontà. Ormai solo “uno sguardo e una mano” (p. 135). 
 
Alla fine, negli ultimi tre anni, scrive Genet, “ormai allo stremo”, Rembrandt si trascinava dal letto al cavalletto, “al cesso dove, c’è da giurarlo, continuava a scarabocchiare con le unghie sporche”. Un uomo, conclude Genet, passato “per intero nella sua opera”. Quel che resta di lui è buono per l’immondizia, ma prima, un po’ prima, deve ancora dipingere il Ritorno del figliol Prodigo. E poi Genet aggiunge un’altra enigmatica osservazione: “Muore prima di aver provato la tentazione di fare il pagliaccio” (p. 136). 
8. Una chiusura enigmatica, o forse anche una conclusione frettolosa, come se Genet, nell’impossibilità di scrivere il libro su Rembrandt a cui tanto aveva pensato, avesse finalmente deciso di liberarsi di lui. Come abbiamo già detto Il figliol prodigo non è l’ultima grande opera di Rembrandt. Ci sono gli ultimi due autoritratti del 1669, quello della National Gallery e quello de L’Aia, in cui Rembrandt raggiunge la punta estrema della disperazione, intesa proprio nel suo senso diretto ed etimologico: assenza di ogni speranza in quanto per lui ormai si è abbassato fino a cancellarsi l’orizzonte del futuro. In questo vertice di disperazione Rembrandt raggiunge anche il vertice della sua arte. 

Ha scritto Georg Simmel che “in tutti i più significativi ritratti di Rembrandt dimora un punto del futuro che è il solo a rendere la vita una totalità proprio in quanto la interrompe: la morte”.11 Sofocle, concludendo l’Edipo re, ha affermato che una vita va valutata a partire dalla fine, e non a caso per lui, come per tutti i grandi tragediografi Greci, gli uomini sono i brotoi, i mortali. Questo emerge in Rembrandt, dice Simmel, “in modo più intenso e predominante rispetto a qualsiasi altro esempio pittorico”. La morte non è una possibilità della vita, ma noi, e questo Rembrandt sembra saperlo forse fin dall’inizio, “siamo sempre destinati a morire”. La morte è una realtà continua, intima, e questo modo di sentire, scrive Simmel, appunto “si esprime nella concezione rembrandtiana dell’uomo, in cui egli la estrae dalle profondità ultime”. 

 
Ma ciò che è più sconcertante di questa prossimità di Rembrandt con la morte, è il fatto che sembra che egli abbia capito e rappresentato come la morte si sviluppi, evolva, cresca e deperisca con la vita. Come la morte non sia soltanto dentro la vita, ma come si faccia portare da essa: si nutra di essa fino all’istante ultimo e inafferrabile. Questa è la scoperta che si dispiega in tutta la sua pittura a partire dagli anni cinquanta, e che trova il suo più impressionante suggello in una serie di autoritratti che non avranno riscontro prima di Van Gogh. Rembrandt ha cominciato a guardare alla sua vita intera partendo dalla fine, che è riuscito quasi profeticamente a cogliere dentro di sé. Ormai dipinge senza più curare contorni o particolari, come se tutto il visibile si giocasse in un conflitto tra luce e ombra, colto da uno sguardo che ha fatto dire a Van Gogh: “È necessario essere morti cento volte per dipingere così”.12 Così egli è giunto a profondità alle quali difficilmente si giunge. Rembrandt ha visto, e dunque ha dipinto la presenza della morte dentro la vita. In tutti i suoi autoritratti, abbiamo detto, e soprattutto negli ultimi autoritratti. 

9. Nell’ultimo anno della sua vita Rembrandt dipinge dunque ancora due autoritratti. Quello della National Gallery di Londra - Autoritratto all’età di 63 anni - ha rivelato ai raggi X due pentimenti significativi. Rembrandt, in un primo tempo, aveva dipinto il suo volto coperto da un ampio berretto bianco, e la mano aperta che tiene tra le dita il suo vero scettro: un pennello. Rembrandt cancella il berretto bianco. Ora il berretto è marrone, come la sua veste e come il fondo stesso del quadro. Solo il bordo è bianco, ma non abbastanza per dare luce agli occhi che si aprono scuri e opachi sotto la fronte ampia, sopra un naso ingrossato e gonfio, e la bocca chiusa in una smorfia appena percepibile, che cogliamo quasi soltanto per il leggero infossarsi della guancia destra. Le mani si sono chiuse, non tengono più alcun pennello. Il pollice della mano a sinistra sormonta e si posa sul dorso della mano destra, ma non ha più alcuna forma. Quelle mani sono ormai un grumo compatto, appena più chiare del colore della veste. Sono mani che non stringeranno più né scettri né pennelli. Sono mani che non potranno più stendersi in una carezza. Sono mani che non possono afferrare più nulla se non se stesse.

 
Non so se quelle mani si siano riaperte per l’Autoritratto de l’Aia, che nessuno ci assicura sia posteriore a quello della National Gallery, malgrado la critica sia, per motivi che mi sfuggono, propensa ad affermarlo. Qui Rembrandt si dipinge di mezzo busto, con un berretto striato d’oro con una fascia rossa, sopra lunghi capelli grigi con un’ombra dorata, che scendono fino alle spalle. Un occhio è in ombra, ma l’altro è aperto e visibile, e appare più vivo degli occhi che abbiamo incontrato negli autoritratti dell’ultimo decennio. La bocca sembra tirata in un tentativo di sorriso. 

 
Sono convinto che l’ultimo ritratto sia quello della National Gallery. Sono anche convinto che quello de l’Aia non rappresenti, come è stato detto, un recupero della potenza e della volontà perdute. I segni dorati, l’eleganza, l’apparente vivacità dello sguardo non cancellano l’impressione terribile che questo dipinto lascia in noi. Sembrano affiorare sulla tela gli elementi di un sogno allucinatorio, più che la pacata rappresentazione di una realtà in cui possano riemergere la speranza e la volontà di combattere. La bocca non si solleva nel sorriso, ma è tirata leggermente in alto a sinistra. Il colore delle guance sembra decomporsi ed essere prossimo ad uno sfarinamento che allude ad una possibile cancellazione di quegli stessi lineamenti. L’occhio è spalancato su questa realtà. Non è torbido, opaco come nel ritratto della National Gallery: è un occhio che si è aperto per fissare spalancato l’approssimarsi di quel momento in cui la morte, cresciuta dentro la vita, alimentata dalla vita stessa, avrà il sopravvento, e non ci sarà più nulla da vedere. Il momento in cui sarà solo morte. 

 
Rembrandt, che è nato pittore in uno sguardo spalancato e attonito sul mondo, torna ad essere sguardo nel momento in cui il mondo pende sul buio. Si è fatto elegante per questo momento: si è fatto attento. E si dipinge, perché tutto può essere rappresentato, anche ciò che è stato decretato irrappresentabile come la morte. E se tutto può essere rappresentato, allora tutto deve essere rappresentato. Questo è il compito e il dovere di un artista. L’angelo della morte ha mille occhi. Con questi occhi Rembrandt è sceso nell’ombra e ha descritto l’ombra. Gli occhi si sono via via spenti. Questo, dell’“Autoritratto” de l’Aia, è l’ultimo occhio, ben aperto sull’ultimo evento prima della cecità definitiva, forse per scoprire l’altro oltre il niente. Rembrandt l’ha dipinto, ha dipinto questo confine. Solo un altro pittore, Van Gogh, arriverà a tanto. 

10. Ci siamo allontanati da Genet, e torniamo a lui. Anche se forse non ci siamo veramente allontanati. Torniamo a Genet e a quella che potremmo definire la drammaturgia e l’estetica del Funambolo.


Verso la fine del 1956 Genet incontra Abdallah, l’amante che, come scrive White, morto suicida nel 1964, “lascerà in lui il marchio (se non la cicatrice) più profondo”.13 Genet ha quarantasei anni. Abdallah è un giovane di diciott’anni che lavora in un circo. Genet vuole fargli intraprendere una nuova carriera, o meglio un’arte, e gli paga lezioni di funambolismo. Il rapporto che si è istaurato tra loro è strano. Viaggiano, ma con Abdallah viaggia anche una giovane amica, Erika, e quando Genet lo abbracciava, Erika rideva. Il rapporto comunque continua anche quando Abdallah dopo due incidenti è ormai definitivamente lontano dal filo.

 
A parte queste scarne notizie, non ci interessa nient’altro della vicenda biografica di Abdallah. Ci interessa il saggio, o forse meglio il poema, che Genet dedica al funambolo, in cui emerge il tema che gli è proprio, che abbiamo già trovato in Rembrandt e che ritroveremo in Giacometti. È il tema del rapporto tra l’arte e la morte. Il circo, soprattutto in quanto ospita il funambolo, “insieme alla poesia, alla corrida, è uno dei pochi giochi crudeli che siano rimasti”.14 Un gioco crudele perché è un gioco che sempre contempla la morte. È con questo sguardo che guardano alla corrida e all’arte, in quegli stessi anni, Michel Leiris, Georges Bataille, Pablo Picasso e Ernest Hemingway. Ciò che ora cercheremo di capire è in che modo, per Genet, attraverso il funambolo, si possa arrivare a definire la poesia e l’arte come il gioco della crudeltà, del rischio e della morte. 

Il poema del funambolo è diretto al funambolo stesso a cui Genet si rivolge con il tu. Il primo insegnamento che gli rivolge è quello di riconoscere il filo: come un oggetto, ostile e cieco, che deve essere amato in modo disperato e pieno di tenerezza, in un “rapporto erotico come quello che il fabbro dai baffi grigi riserva alla sua incudine” (p. 110). Questo potrebbe essere lo stesso amore per le cose di Cézanne, che si porta, come dice Rilke, ogni giorno di fronte alla sua montagna, o l’amore con cui Giacometti si rivolge alla materia, gesso o bronzo, che sta trasformando, alla carta o alla tela su cui sta tracciando i suoi segni. René Char aveva forse letto queste righe di Genet quando nel 1964, nella poesia Célébrer Giacometti, parla dell’artista come un “maniscalco” nel fuoco e nelle scintille, che sono anche le invettive rivolte al suo lavoro, alla materia resistente che egli deve trasformare e domare. O anche del momento in cui si scopre “il volto di Caroline, la sua modella, il viso dipinto sulla tela di Caroline - dopo quanti graffi, ferite ed ematomi? Frutto di passione tra tutti gli oggetti d’amore”. Amore e al tempo stesso crudeltà che si riflette “nello specchio del nostro sguardo, provvisorio ricevitore universale per tutti gli occhi futuri”. 

 
Come il fabbro ama l’incudine, come Giacometti maniscalco ama la sua materia, così il funambolo deve amare il suo filo. 

 
La sua danza è un atto amoroso. L’appuntamento con il filo è l’appuntamento con l’Angelo, nella pista sfolgorante, in cui l’estrema solitudine del funambolo si dispiega nella luce di fronte a mille occhi nascosti nel buio (p. 111). Dunque l’Angelo della pista è la Morte. Ma non la Morte che può seguire alla caduta, ma quella Morte che già lo attende sul filo. Quando la danza inizia significa che nulla tiene più il funambolo legato al suolo. Il funambolo “è dunque un morto che danza sul filo” (p. 112). Ma dov’è la sua ferita, quella da cui Genet ha detto che si origina l’arte? “La tua ferita dov’è?”. Perché come Rembrandt, come Giacometti, come Genet, c’è anche nel funambolo una ferita segreta in cui egli in quanto artista protegge e coltiva la sua solitudine. “Si tratta” evidentemente, e tu l’hai capito, “della solitudine mortale, di quella regione disperata e fulgida in cui opera l’artista” (p. 115). Emerge sempre più nitida l’idea che l’arte sia un esercizio disperato e crudele che nasconde in sé la tentazione del sacrificio e dell’autosacrificio, votata a un Dio sconosciuto (p. 123). È per questo che si procede come in un deserto, infatti l’artista, del filo, o del pennello o dello scalpello o della parola, è votato alla solitudine. Proust aveva scritto che di fronte alla propria opera lo scrittore doveva abbandonare tutto, l’amico e l’amante. Lo stesso dice Genet. 

Il poeta rischia di trovarsi in un terribile pericolo. Crudelmente respinge ogni curioso, ogni amico, ogni sollecitazione che cerchi di indirizzare la sua opera verso il mondo [...]. Tutti lo sfuggono. È solo. Questa apparente maledizione gli consentirà ogni audacia. [...] Si muove ormai in un elemento simile alla morte, il deserto. 

 
Quel deserto, quella terra d’esilio, che Kafka in una lettera a Milena (14.9.20), chiamerà la foresta, la selva: “In fondo ero pur sempre la bestia, appartenevo pur sempre alla selva”.

Genet aggiunge subito qualcosa che ritroveremo ben presto nel saggio su Giacometti. La parola del poeta non si rivolge più  ad alcuno “non ha più ragione di giungere ai vivi: a regolarlo sarà dunque una necessità imposta non dalla vita ma dalla morte”. Allo stesso modo il funambolo deve lasciar salire lungo il suo corpo l’indifferenza nei confronti del mondo, come il gelo della cicuta saliva lungo il corpo di Socrate. Proust ha detto che il romanzo, l’opera, che doveva essere compiuta per essere salvati, era al tempo stesso “un grande cimitero dove sulla maggior parte delle tombe i nomi cancellati non si possono più leggere”.15 Eppure è necessario scrivere. È necessario dipingere. È necessario danzare. Ma esiste davvero un rapporto fra il funambolo e il poeta? E l’artista? Il rapporto esiste perché la loro attività, è ugualmente abnorme: “C’è forse qualcosa di normale e di ragionevole che si cammini su un filo o che ci si esprima in versi?”, scrive Genet, distruggendo come ha detto anche Bataille, ogni rapporto con la parola comunicativa o con il gesto che si dispiega o si consuma nell’utile, nella funzione, anziché nella ricerca insensata di un senso al di là dell’utile.

 
Giacometti forse avrà memoria di queste parole di Genet quando, in un’intervista con André Perinaud del 1962, dirà che è abnorme passare il proprio tempo “cercando di copiare una testa”, costringere “per cinque anni una persona su una sedia. Non è un’attività che si possa definire normale. È un’attività socialmente inutile. Ogni opera d’arte è creata per niente” Eppure “la grande avventura - continua Giacometti - consiste nel veder sorgere qualcosa di ignoto ogni giorno, nello stesso volto: un’avventura più grande di qualsiasi viaggio intorno al mondo”.

11. È evidente che Genet attraverso Il funambolo sta cercando di costruire un’estetica, e al contempo una giustificazione della sua poesia, che non è più quella del Diario di un ladro. Ha bisogno di confrontarsi con Rembrandt, con se stesso, con l’arabesco del funambolo per avvicinarsi a Giacometti. Ma prima di seguirlo voglio io stesso seguire una suggestione che mi si è affacciata leggendo di Giacometti intento davanti a una testa, interamente occupato a questa. Una suggestione che mi porta a Yves Bonnefoy, che ha dedicato a Giacometti un grande libro e un piccolo libro prezioso da cui prenderò qualche suggerimento.18 
Giacometti vive a Parigi l’avventura del surrealismo, è anzi praticamente riconosciuto come il grande scultore del surrealismo. Bonnefoy ricorda però - ancor prima dell’esperienza surrealista - l’esperienza decisiva che Giacometti fa di fronte a un cranio, di cui non lo affascinava la semplice forma, il carattere di oggetto, o di cosa che si possa spostare, muovere, studiare. Ciò che lo affascina è “un al-di-là di questa apparenza”. Una presenza: enigmatica, proprio per il suo essere lì. Per essere “una presenza o, se si preferisce un’assenza”, scrive Bonnefoy (p. 18). Attraverso Bataille e attraverso Manet abbiamo scoperto che un’assenza può pesare quanto o più che una presenza. Un’assenza allude all’incombere di una cosa, che può spingere all’ossessione, può spingere a cercare disperatamente nel vuoto. Di qui forse - per rispondere alla seduzione del vuoto - nasce la serie di sculture, Tête qui regarde. Di qui forse la rivoluzione personale che lo riporta, dopo alcuni anni passati in Svizzera, a Parigi nel 1945, dove il suo lavoro cambia, cambia profondamente. È un mutamento che si approfondisce e lo porta quindi alla realizzazione di due opere che segnano una cesura e una svolta.
Nel 1947 Giacometti crea due sculture, due “opere che non si possono qualificare se non come terribili”. Si tratta della Tête sur tige di gesso dipinto con colori violenti. Scrive Bonnefoy: 
Una testa morta, a bocca aperta, rovesciata all’indietro sul palo macchiato del suo supplizio, e, ancora peggio, Le nez, l’irruzione ghignante di un niente divenuto demone nel campo di una coscienza votata a portarne da quel momento, indelebile, l’impronta. Nel 1947, con queste due opere sconvolgenti, Giacometti è giunto all’appuntamento che aveva con il proprio destino. In esse seppe esprimere una verità della condizione umana che gli altri artisti, e anche i poeti, tranne Artaud e Bataille si rifiutavano di considerare (pp. 36-37). 
È qui che inizia il viaggio di Giacometti verso il volto dell’Altro.19 Quel volto misterioso e inafferrabile, ma che si affaccia sempre di fronte a noi, come un’istanza etica, prima e ineliminabile, ha detto Emmanuel Levinas in una serie di libri che hanno segnato il pensiero filosofico europeo degli ultimi decenni del Novecento.20 

12. Cosa era successo? Certo la guerra, certo le “vetrate delle chiese bruciate”,21 la violenza e la distruzione. Ma soprattutto un sogno che Giacometti fa nel 1946 e che racconta subito in un testo, Il sogno, lo Sphinx e la morte di T., che annuncia di fatto le due sculture che hanno impressionato Bonnefoy.22


Il sogno rende attuale quella morte che nel suo racconto si nasconde nel titolo con la lettera T. Rende, come vedremo, attuale il pensiero della morte. Soprattutto lo rende rappresentabile. Giacometti aveva fatto nel 1921 un viaggio insieme a Van Meurs. La sua morte, scrive Giacometti 

fu come uno squarcio nella mia vita. Tutto cambiò e quel viaggio mi ossessionò incessantemente per un intero anno. Lo raccontavo di continuo, senza stancarmi, e spesso provai il desiderio di scriverne, ma mi fu sempre impossibile. 
Il sogno ha dunque reso ora possibile scrivere quel racconto, vale a dire dare una forma a un evento che lo ossessionava e che rimaneva per così dire informe sulle soglie della sua coscienza. Affiora ora anche nella parola scritta un lungo giorno di pioggia, la testa di Peter Van Meurs che si trasformava, “il naso che si faceva sempre più pronunciato, le guance che si infossavano, la bocca aperta quasi immobile” (p. 64). È l’esperienza della morte, della pelle che si fa giallo avorio, del corpo che si raggomitola su se stesso, e poi la testa. “Guardavo quella testa divenuta oggetto, minuscola scatola misurabile, insignificante. In quel preciso istante una mosca sia avvicinò al cavo oscuro della bocca e lentamente vi sparì”. Ma il sogno non solo ha reso possibile il racconto. In una mirabile condensazione ha unito il cranio che Giacometti teneva davanti a sé23 ai tempi dell’Accademia - come un oggetto manipolabile, ma misterioso, portatore al tempo stesso di una presenza e di un’assenza - e le due statue: la Tête sur tige e Le nez, su cui Giacometti di lì a poco lavorerà. Giacometti ricorda anche come allora, per un lungo periodo, questa immagine di morte trasformasse tutti i vivi in morti, come, per esempio, il cameriere della brasserie Lipp. Come trasformasse gli oggetti facendoli uscire dalla loro quotidiana ordinarietà, dalla loro manipolabilità. Ecco allora  l’asciugamano che rimane sospeso nell’aria, la sedia che non posa sul pavimento. Gli oggetti che ora si affacciano davanti a lui con la loro perversa intransitività e con la loro ostile alterità, come nella Nausea di Sartre. 

 
Ancora una volta l’enigma e il segreto che abita nell’immagine della morte e nella ribellione degli oggetti. Bonnefoy termina il suo breve testo affermando che l’arte di Giacometti, e l’arte in generale. “è grande per il suo raccogliersi attorno a un’unica intuizione, purché questa vada semplicemente dritta all’enigma per portarlo all’evidenza, dritta a quel che rovina e fa paura per farne un bene condiviso” (p. 45). Certamente, almeno fino a un certo punto, Genet avrebbe condiviso queste parole. Ma per il funambolo la danza deve anche essere piena di odio. “Non si è artisti senza che una grande sventura non vi abbia parte”. E ancora: “Odio contro quale dio? E perché sconfiggerlo”? (Funambolo, p. 121). 

 
Odio? Crudeltà? Anche Bonnefoy li fa affiorare ricordando nel suo saggio Artaud. Le parole di Artaud, ha detto anche Ben Jelloun, “raschiavano la gola. Ne uscivano scorticate, alterate”.24 E ricordando Bataille che ha posto nel sacrificio, nel riso, e nell’osceno, la verità che si dà nell’esperienza interiore e nell’arte che preme per comunicarla. Forse non odio, ma certamente anche per Jean Genet, come per Giacometti, l’arte è attraversata dalla crudeltà. Il ghigno della Tête sur tige, la risibile e terribile sporgenza de Le nez, la sua oltranza, sono lì per testimoniarlo. Ma anche gli occhi di Olympia o di Berthe Morisot in Manet. E Proust che nella Ricerca del tempo perduto si fa maestro e cerimoniere di crudeltà. 

13. Con ogni probabilità è stato Jean-Paul Sartre a far conoscere Giacometti a Genet. Sartre ha dedicato un volume di quasi settecento pagine a Jean Genet, che è stato pubblicato curiosamente come il primo volume delle Œuvres complètes di Jean Genet25 e ha dedicato due testi importanti all’opera di Giacometti, La recherche de l’absolu e Les peintures de Giacometti.26 Sartre coglie subito un carattere importante dell’opera di Giacometti quando accosta le sue figure all’uomo di Eyzies o di Altamira. In quelle figure emerge, come si mostra anche in Giacometti, al di là del bello e del brutto, l’uomo, “una lunga silhouette indistinta che cammina all’orizzonte” (p. 89). L’uomo che si muove, che solleva un braccio, e intanto è come “un incantatore di segni”, che “s’impigliano nei suoi capelli e brillano nei suoi occhi, danzano tra le sue labbra”. Dunque abbiamo i segni, la loro molteplicità nel “silenzio ostinato delle cose” e, in mezzo a tutto questo brulichio, c’è Giacometti con i suoi pensieri di pietra, la sua paura del vuoto, di un mondo fluttuante, in cui, come abbiamo letto nel racconto del suo sogno, le cose non posano per terra, e dunque è necessario mettere in atto il tentativo di “mineralizzare”, di dare a loro e agli uomini peso e consistenza (pp. 90-91). Materia pesante. Ma chi ha visto le opere di Giacometti sa che questa greve consistenza degli uomini e delle cose che egli raffigura è di fatto - paradossalmente - anche la loro disponibilità alla caducità, ad essere fragili. Questo è anzi il loro destino. “Mai la materia fu meno eterna, più fragile, più vicina ad essere umana” (p. 93): all’umano che è la fragilità stessa. È attraverso questo tentativo di cogliere una fragile apparenza situata (p. 99) che Giacometti si porta verso il limite, esposto dunque all’assoluto.
Anche nel testo La pittura di Giacometti, Sartre torna sulla questione del vuoto, che Giacometti, secondo Sartre, vorrebbe rendere visibile, in quanto questo vuoto è il suo sentimento interiore, che lo abita e che lui abita. “Giacometti è scultore che porta il proprio vuoto come una lumaca il proprio guscio, perché vuole renderne conto sotto tutti i profili e tutte le dimensioni. E talvolta si adatta bene a quel minuscolo esilio che porta dappertutto - e talaltra ne ha orrore” (p. 106). Sartre fa emergere anche per Giacometti il tema dell’esilio, che era affiorato nel Rembrandt e nel Funambolo di Genet, quell’esilio che a noi aveva richiamato Kafka. Le cose e le ombre non sono sufficienti a fare un mondo, dice Sartre. “C’è anche il Vuoto”, il vuoto che è nel mondo ma che non è cosa e non è persona, ma che è forse lo spazio da cui l’artista guarda a cose e persone. Il vuoto infatti “è distanza di tutto da tutto. La strada è vuota, sotto il sole: e in questo vuoto un personaggio appare all’improvviso” (p. 107). L’Uomo che cammina di Giacometti, è infatti la rivelazione del vuoto e dell’esilio. Rivelazione che emerge anche nelle sue pitture, nei graffi, nelle esitazioni, attraverso le quali, da un vuoto oscuro, sembrano affiorare le immagini e le figure, di Annette, di Diego. Di fronte a questi quadri si è a disagio: “Abbiamo voglia, nostro malgrado, di chiedere una torcia o semplicemente una candela. È nebbia, il calar della sera o i nostri occhi che si affaticano?” (p. 114). Oppure è forse la nostra oscura percezione dell’enigma, del segreto, che in questa pittura manifesta, rendendolo per sempre evidente. Per sempre ineliminabile. 

14. Riprendo in mano il libro di Tahar Ben Jelloun e leggo che le opere di Giacometti “provengono tutte dallo stesso abisso - una singolare ferita, assoluta, totale, senza ombra di compromesso”.27 È quanto Genet ha scoperto in Rembrandt, nell’artista del filo, in se stesso, e ovviamente in Giacometti. E allora decido che forse, che anzi probabilmente, tornerò sul libro di Ben Jelloun più avanti. Che ora è tempo che io mi riporti a Jean Genet e al suo L’atelier di Alberto Giacometti, un testo straordinario. Insieme al saggio-poema Il funambolo la cosa saggistico-teorica più importante e anche più bella che Genet abbia scritto. 

 
L’inizio del saggio è folgorante. “Ogni uomo, credo, ha conosciuto quella sorta di pena, o forse di terrore, che si prova a constatare come il mondo e la sua storia siano dominati da un moto ineluttabile”, che si accanisce con furore sull’apparenza visibile, mentre sarebbe necessario “denudarsi quanto basta per scoprire in noi stessi quel luogo segreto che avrebbe reso possibile un’avventura umana del tutto differente” (p. 141). Ma essere immersi in questa condizione “inumana” genera in noi la nostalgia di qualcosa che si sporga verso un mondo possibile e non misurabile, verso l’oltranza di un invisibile di cui abbiamo stranamente nostalgia. Giacometti rende il nostro universo ancora più intollerabile. Ancora più aspra la nostalgia. Charles Baudelaire in un testo su Edgar Allan Poe dice qualcosa di analogo. L’opera d’arte, la poesia, ci commuove non per un vago sentimentalismo, ma per la nostalgia di un invisibile di cui l’arte ci dà percezione.28 Qualcosa di analogo ha detto anche Proust all’ascolto del septuor di Vinteuil ne La prigioniera. In Giacometti spingersi verso questo luogo significa spogliarsi di ogni “apparenza fallace”. Significa, forse, dover scarnire, scarnificare, defigurare la figura per arrivare a quell’umanità assoluta che abbiamo trovato con Genet in Rembrandt: homo tantum

Per fare giungere a questo è però necessario attingere a quella ferita individuale, irripetibile, celata o visibile, che ogni uomo custodisce in sé e difende - dove si rifugia quando vuole abbandonare il mondo per una solitudine temporanea, ma profonda [...]. Mi sembra che l’arte di Giacometti miri a svelare questa ferita segreta comune a tutti gli uomini e persino a tutte le cose, affinché ne siano illuminati (p. 142). 


La ferita scoperta in se stesso nell’incontro o nello scontro con l’uomo del treno, la ferita rinvenuta in Rembrandt, la ferita che Genet diceva al funambolo di cercare e di custodire, perché solo in quella ferita, nella solitudine che essa poteva concedere e assicurare esisteva la possibilità stessa della sua arte. 

15. C’è un altro motivo che Genet trova immediatamente di fronte all’opera di Giacometti. È l’emozione, la stessa emozione che egli ha provato di fronte alla statua di Osiride al Louvre, un’emozione che assomiglia al terrore. È l’irruzione del sacro, quel sacro che Bataille aveva scoperto in Lascaux, ma anche in Manet. Un sacro che è come un grumo in cui si aggrovigliano sensazioni diverse. Da un lato le figure di Giacometti sono famigliari, come delle persone qualsiasi che camminano per strada, e che possiamo di continuo incontrare. Eppure sono anche “in fondo al tempo, all’origine di tutto, non cessano di avvicinarsi e di indietreggiare, in una sovrana immobilità” (p. 143) che è quella di un idolo che porti nel mondo l’apparenza di un dio incognito. Arte d’avanguardia? Surrealismo. Piuttosto queste figure sono arte senza aggettivi, e ogni opera d’arte deve ripercorrere mentre nasce, mentre si forma, “i millenni e raggiungere se può l’immemore notte popolata di morti che in quest’opera si riconosceranno”. Si chiede allora Genet, ci chiede allora Genet, “dove sono dunque le figure di Giacometti, se non nel la morte?” (pp. 143-144). Le figure di Giacometti, ma, come abbiamo imparato, anche le figure di Rembrandt. E anche le figure di Manet. Gli occhi di Olympia, gli occhi di Berthe Morisot sul balcone o tra le stecche del ventaglio, forse guidano i nostri occhi in quella stessa direzione in cui hanno guardato gli occhi degli autoritratti di Rembrandt, gli occhi delle statue e dei ritratti di Giacometti. 
16. Genet sta posando per Giacometti. Seduto su una sedia, senza potersi muovere, parla con l’artista, del gesso, del bronzo, delle immagini e dei disegni che affiorano sui fogli, di cui Giacometti pare sempre scontento. Ed è a mezzo di queste conversazioni che riemerge l’immagine dei morti che rivendicano un diritto su queste immagini che non hanno potuto vedere. Benjamin ha scritto che “esiste un appuntamento misterioso tra le generazioni che sono state e la nostra. Allora noi siamo stati attesi sulla terra”. Forse in noi c’è una “debole forza messianica a cui il passato ha diritto”.29 Allora è necessaria un’arte non fluida, anzi dura - più avanti si parlerà di spigoli, di angoli - che sia “dotata dello strano potere di penetrare nei territori della morte, forse di trasudare attraverso i muri porosi delle ombre” (p. 147). Qui si apre una tensione, che forse è propria di ogni grande arte. Questo protendersi verso il territorio della morte non impedisce la densità e la singolarità dell’essere, del volto, che si presenta in una scultura, o in un quadro. Anzi questo volto richiede ancor più attenzione del viso di un essere vivente. “Il mio sguardo (la mia attenzione) impedisce che si confonda con il resto del mondo, che si perda all’infinito in significati più vaghi”. Al contrario esso si determina in quella solitudine che lo separa dal mondo, ed è allora che “il suo significato affluirà stipandosi in quel volto, in quella persona, o in quell’essere, o in quel fenomeno”. La figura dovrà essere dunque singolarità, individualità e al tempo stesso, come i ritratti di Rembrandt, “rinunciare ad essere storica”. Essere una ed essere ognuno. 
A questo punto Genet richiama l’esperienza del treno, che racconta anche qui abbastanza diffusamente, e che conferma il legame che ho creduto di poter tracciare tra i testi dedicati a Rembrandt, all’artista del filo e a Giacometti. In fondo per Genet, come per Rembrandt e come per Giacometti, homo tantum, come abbiamo detto, ma anche animal tantum. “Il cane di bronzo di Giacometti è stupendo”. Va a zonzo, annusando, il muso proteso verso terra. È scheletrico. Di fronte allo stupore di Genet che tra le sue figure ci fosse un animale Giacometti risponde. “Sono io. Un giorno mi sono visto per strada così. Ero il cane” (p. 151). 

17. L’esperienza del treno ha rianimato Rembrandt. E Rembrandt ritorna di fronte alla nudità delle figure di Giacometti. Nude e sole, come nudo e solo era il volto negli ultimi autoritratti di Rembrandt. Una figura, una folla di figure, che si muovono in una città, lungo i marciapiedi. Ogni cosa e ogni gesto è il segno di una verità che supera ogni bellezza, perché rivela ciò che è insostituibile “che è sempre una ferita”. Tutti in questa folla sono in quella solitudine “in cui li colloca questa ferita di cui sono a malapena consapevoli e di cui nondimeno tutto il loro essere affluisce” (p. 152). Questa solitudine non è una condizione miserevole, ha anzi una sorta di regalità segreta, ancora una volta contraddittoria e paradossale, perché è insieme “incomunicabilità profonda e consapevolezza più o meno oscura di una inattaccabile singolarità”. Di una oscura e inattaccabile verità. Bataille aveva mosso proprio la singolarità contro le pretese del sistema hegeliano in cui ha cittadinanza solo la generalità. Si era reso conto che la rinuncia ad un fondamento, che è proprio del sistema filosofico, rendeva questa singolarità incomunicabile. Allora è l’eccesso di una lacerante esperienza interiore che la coglie, ed è l’arte che può renderla visibile. Che può confrontare queste figure alla morte e, come abbiamo visto, ai morti in un tempo che si presenta, scrive Genet, come “eternità che trascorre” (p. 155). 

 
Genet non parla di tecniche pittoriche o plastiche, non parla di chi potrebbe essere accostato a Giacometti, nel gioco di echi presunti e di influenze che appassiona storici e critici d’arte. Percorre con le dita le vie che Giacometti ha segnato nella materia. Ascolta Giacometti raccontare del suo rapporto con gli oggetti, l’asciugamano sospeso che abbiamo già incontrato nel racconto dell’esperienza della morte di Peter Van Meurs. E un po’ alla volta capisce che nei volti dipinti, nei quadri di Giacometti, nel groviglio di segni, che li disegnano e li nascondono, sembra essersi accumulata così tanta vita, che pare non resti a loro un altro istante da vivere. Se sembrano vicini alla morte è perché in loro “si è stipata troppa vita”. A venti metri di distanza, ogni ritratto è “una piccola massa di vita, dura come un ciottolo, satura come un uovo, in grado di nutrire senza sforzo altri cento ritratti” (p. 157). 

 
La sottrazione che Giacometti impone alle sue figure e simile alla sottrazione con cui Mallarmé ha scavato dentro le parole scarnificandole. In entrambi pare ci sia lo scavo paziente per arrivare all’oggetto invisibile, che secondo Genet, porrebbe essere il titolo di tutta l’opera di Giacometti. È uno scavo alla ricerca dell’oggetto invisibile, lo scavo verso il segreto che si nasconde, ancora una volta, nell’assenza che abbiamo trovato già in Manet, in Rembrandt, in Giacometti. È l’evidenza di questo segreto che la loro opera, ancora una volta ci consegna. Forse anche l’Uomo che cammina, che sappiamo che non si fermerà mai, cammina per portarsi nel luogo del segreto, che via via Genet ha chiamato solitudine, o ferita. Il luogo in cui si generano le forme che illuminano la nostra vita, che illuminano il mondo. 

18. La parte conclusiva (pp. 170-171) di questo straordinario saggio-racconto, di questo faccia a faccia tra Jean Genet e Alberto Giacometti, è rivolta agli oggetti. Ed è qui che Genet pare trovare una difficoltà a gestire il suo stesso discorso, ma che è proprio il senso di quello che è andato via costruendo. L’oggetto disegnato o dipinto da Giacometti si manifesta in modo amichevole, rassicurante. Se talvolta può apparirci inquietante è perché gli oggetti che appaiono nell’opera di Giacometti sono puri, rari. Ed è inquietante essere in accordo con loro, che “impongono il rifiuto di ogni compromesso”. Ma Genet non è contento di quello che qui ha scritto. L’amicizia con cui l’oggetto ci accoglie, di cui ci ha parlato, potrebbe far pensare che esso sia “più umano”, utilizzabile e utilizzato dall’uomo. Non è così. L’oggetto di fronte al quale ci poniamo è solo un oggetto: “Lui e nient’altro. Lui nella sua solitudine assoluta”. Genet non è ancora soddisfatto. Forse è possibile arrivare alla verità osservando che Giacometti spoglia gli oggetti da ogni “premeditazione servile”. Si rifiuta si depositare in essi, per nobilitarli o per svilirli, “la più lieve - delicata, crudele, tesa: non importa - sfumatura umana”. E qui Giacometti e Genet sono con Cézanne. Ciò che caratterizza le sue mele non è la loro “mangiabilità”. Non sono fatte per essere usate o mangiate. Non sono fatte per essere utili: per servire.

 
Cézanne avrebbe potuto dire questa è una mela e nient’altro che una mela. Giacometti di fronte a un lampadario può dire: “È un lampadario, è Lui”. Questa constatazione improvvisa “illumina il pittore. Il lampadario. Sulla carta esisterà - nella sua nudità più spontanea”. La nudità delle figure che camminano, che si muovono in una piazza senza guardarsi, nella loro solitudine e nella loro intransitività, e la nudità degli oggetti, ciascuno nella sua bellezza “perché è il ‘solo’ ad esistere, perché è unico e insostituibile”.

19. L’arte di Giacometti non è un’arte sociale. Ma c’è mai stata un’arte sociale? Quando la si costringe a significare questa o quell’altra cosa, diventa verbosa, eloquente: insignificante. È una condizione paradossale quella dell’arte, per poter significare davvero, deve significare nulla. Lo sapevano Proust e Kafka, che per questo pensavano che la loro arte avesse rapporto con il male. Scrivere è “un servizio del diavolo”, ha detto Kafka, sottolineando la terribile contraddittorietà dell’operare artistico. Eppure si deve scrivere. “Uno scrittore che non scrive è un mostro che provoca la pazzia”.30 Kafka aveva progettato di raccogliere i racconti Il Verdetto, La metamorfosi e Nella colonia penale in un unico volumetto intitolato appunto Punizioni, forse proprio le punizioni per aver operato al servizio del diavolo. 
Dunque l’arte di Giacometti non è un’arte sociale come sottolinea ancora Genet che stabilisca tra gli oggetti un legame d’ordine, appunto, sociale - l’uomo e le sue secrezioni: è piuttosto un’arte da barboni sublimi, puri a tal punto che a unirli è la presa d’atto della solitudine di ogni essere e di ogni oggetto. “Sono solo”, sembra dire l’oggetto “quindi stretto da una necessità contro la quale siete impotenti. Se io sono solo ciò che sono, sono indistruttibile, E poiché sono ciò che sono senza riserve, la mia solitudine e consapevole della vostra. 

Mi pareva non ci fosse modo migliore per prendere congedo da Jean Genet, che riportare integralmente le ultime righe del suo scritto su Giacometti. La solitudine dell’uomo e la solitudine degli oggetti che si specchiano reciprocamente. Indistruttibili nella loro fragilità, perché sono solo quello che sono. Sono appunto intransitivamente se stessi. Indistruttibili. Come è indistruttibile Giacometti, malgrado i tentativi di desituarlo per sistemarlo e dunque accasarlo nell’arte eterna, per esempio tra i marmi della Galleria Borghese nel 2014, spalla a spalla con Bernini o con Canova. 
È questo forse il mio congedo da Genet, ma non ancora da Giacometti. 
20. “Nella Medina di Fez, scrive Ben Jelloun, c’è una strada così stretta, che viene chiamata ‘la via di uno soltanto’. È la via d’ingresso al labirinto, lungo e buio.”31 Ben Jelloun ha pensato che le figure allungate, sottili, di Giacometti sembrano essere fatte apposta per percorrere quella strada, per muoversi in essa, “incrociare senza problemi”. È grazie a loro che la via di uno soltanto diventa la strada di molti. Gli è parso di vedere anche il cane di Giacometti percorrerla radendo i muri. Dunque uomini e animali. “Questa strada, che prima mi faceva paura, cessava di essere una anomalia, lasciando spazio sufficiente alle statue in continuo movimento” (p. 10).

Ma Giacometti non poteva essere responsabile di quell’affollamento, un’animazione che assomigliava ad una allucinazione. “Perché quegli esseri di bronzo o di gesso erano ciascuno a suo modo di una singolarità inaccessibile, usciti dalla notte della solitudine estrema per raggiungere il territorio gelido dei morti” (p. 13). Jean Genet ci ha reso famigliare questa solitudine da cui si generano le figure di Giacometti, come d’altronde le figure di danza sul filo del funambolo, o gli occhi di Rembrandt. Ci ha reso famigliare anche la loro destinazione, o il loro destino. Un’arte che deve procedere verso i territorio dei morti e verso il territorio della morte. Non sono la stessa regione. Il territorio dei morti è il territorio di chi in passato ha creato figure che ora aspirano alle figure di Giacometti, che avanzano un diritto su di esse. Il territorio della morte è quel paese che l’arte è destinata a lambire. È questo mi pare che Ben Jelloun procede costeggiando ciò che Genet aveva scoperto. Queste figure, la testa in cima allo stelo, queste gambe che cammineranno eternamente, hanno un’espressione “famigliare, dove le solitudini si riconoscono senza farsi alcun segnale. E ciò dipende dal fatto che esse provengono tutte dallo stesso abisso - una singolare ferita, assoluta, totale, senza ombra di compromesso” (p. 17). Di qui, come aveva già detto Genet, la loro bellezza. Di qui l’aria di famiglia che le circonda. Sono loro, siamo noi. Una popolosa solitudine, in cui forse potremmo anche ritrovare quell’uomo seduto in treno, con i baffi spinosi, sopra il labbro, sopra la bocca minuscola e guasta, che era seduto di fronte a Genet in treno. Sicuramente Giacometti l’ha abbozzato, in gesso o in bronzo, come certamente ha abbozzato anche ognuno di noi, anche noi emersi da quella ferita, usciti ma non liberati dalla tana della solitudine. 

 
“Giacometti mi ha comunicato l’immagine incorruttibile e definitiva dell’angoscia”. Avevo detto più sopra che prendevo congedo da Genet. Non è così. Non è possibile. Ben Jelloun, in cui sono entrato affascinato dall’immagine della via stretta, continuamente mi riporta a lui. 

Leggendo quanto ha scritto Jean Genet su Giacometti ho appreso che se la bellezza risiede in un tale abisso è perché non ha altra origine che dalla ferita, unica, differente per ciascuno, nascosta o invisibile che ogni uomo ha dentro di sé (p. 22). 

La forza di Genet è tale che Ben Jelloun deve in qualche modo ripeterlo. Anche lui fa esperienza di un incontro su un treno, ora della metropolitana. Un uomo grigio, forse per la luce artificiale del treno. “Il grigio di Giacometti”. Sicuramente è stato scolpito, è stato raffigurato da Giacometti. “L’uomo triste sulla metropolitana era in bianco e nero. [...] La ferita che si leggeva sul suo viso era grigia. Una mano aveva definito quel volto sul quale il dolore aveva preso il tono di una decrepitezza che tendeva alla nobiltà, una bellezza umana e tuttavia molto vicina all’eternità” (p. 25). Ritroviamo l’uomo del treno di Genet, certo. Ma ritroviamo anche il ritratto della sposa di Jacob Trip di Rembrandt del 1661. 

 
Dove guardavano gli occhi dell’uomo della metropolitana? Da nessuna parte. Non guardavano niente. Non guardavano nessuno, nemmeno Ben Jelloun. Forse guardavano all’indietro, nel silenzio della sua stessa solitudine. In quell’abisso da cui sono emerse le teste che si accumulano sui tavoli dell’atelier di Giacometti. In quell’abisso Tahar Ben Jelloun cerca di seguirlo, facendosi scorta di Beckett, della voce strozzata di Artaud, di Genet, di Kafka e perfino “della voce ferita di Billie Holiday”. Di seguirlo fino in quel deserto che abbiamo già incontrato in Genet, fin nell’esilio. Ovunque, perché abbiamo la percezione che presso di lui sia la verità. Sia una verità. 

 
“C’è bisogno di molta forza e di immaginazione per rendere omaggio alla complessità e all’inconoscibile della realtà” (p. 42). La realtà attraversata dalle figure, dai fantasmi, di Giacometti non è meno intricata e meno inconoscibile. Ma ora, dopo Giacometti, la sua complessità e la sua inconoscibilità sono diventate anche il nostro problema. Siamo tesi tra la ferita che abita dentro di noi e la ferita che lacera il mondo. Questo pensavo nella tarda primavera scorsa, in una stanza della Fondazione Beyeler in Svizzera, in quel luogo che l’architettura di Renzo Piano ha reso un angolo di pace e quasi di idillio nel mondo. Intorno a me, in quella stanza, tre o forse quattro grandi statue di Giacometti, un grande quadro di Francis Bacon alla parete. Guardavo attraverso la parete di vetro, nel verde del giardino, nell’acqua quieta che circonda l’edificio, e vedevo la via stretta aperta da Giacometti verso il lungo e buio labirinto, verso il cuore della realtà, dentro di me, fuori di me: nel mondo. 

IL SEGRETO DI MANET
IL SEGRETO DI MANET
Franco Rella