CORVI E VOLTI.
VAN GOGH

Van Gogh [...] dipingeva nei giorni di massimo terrore gli oggetti più terrorizzati. 
Rainer Maria Rilke 

L’abisso insondabile della faccia, dell’inaccessibile piano di superficie attraverso cui si mostra il corpo dell’abisso, l’abisso del corpo, l’abisso corpo. 
Antonin Artaud

Perché la sua fonte è come posta altrove e la sua origine stranamente oscura, come un segreto di cui il solo Van Gogh avesse serbato su di sé la chiave. 
Antonin Artaud 

1. Maurice Merleau-Ponty ha scritto che la malattia può “diventare una possibilità generale dell’esistenza umana”.1 Artaud è stato spinto dal suo genio ad un punto in cui davvero la sua malattia è diventata la possibilità di uno sguardo dentro il mondo, dentro la realtà, perché ogni grande arte assorbe in sé l’ostacolo che le si oppone. Lo trasforma in una possibilità. Lo strazio di molti anni chiuso in manicomi si è tradotto in lui in una violenza, che agisce sul corpo stesso dell’opera che sta scrivendo, sul liguaggio, che viene disarticolato e riagglutinato come il grano nel Campo di grano con volo di corvi di Van Gogh. L’opera disgrega e riorganizza la stovita e la lettura critica che di solito viene esercitata sull’opera, la disgrega e la ricompone nel suo universo di senso, attraversato però da altri possibili universi di senso, da altre letture possibili. Pablo Picasso, ha scritto Gottfried Benn, nel Violino scomposto ha vibrato questo violino “come un’ascia contro questa realtà”.2 Ha fatto esplodere la vita e il mondo in frammenti e li ha poi ricomposti “a formare un violino di sangue”, a formare una nuova immagine del mondo. Il gesto dell’artista è infatti un gesto cosmogonico. Ma il mondo che si disegna sullo sfondo delle parole di Artaud è un mondo che sembra essere diventato inabitabile, in cui le parole che ci scambiamo tendono a spezzarsi in sillabe, anzi in meno che sillabe, in grumi di fonemi. Identica alla sua è, per Artaud, l’operazione di Van Gogh. La realtà in lui viene disarticolata e poi ricomposta facendo schizzare “a fasci sulle sue tele, a sprazzi di colore quasi monumentali, la secolare frantumazione degli elementi”.

Van Gogh il suicidato dalla società si intreccia, attraversa ed è attraversato da Succubi e supplizi, che Artaud sta scrivendo nello stesso periodo, e si prolunga, come vedremo ben presto in un brevissimo e straordinario testo, Le visage humain,4 in cui è in gioco ancora Van Gogh, ma anche il problema drammatico dell’identità, e anche la tensione che lo spinge ad andare oltre la parola, anche verso l’espressione pittorica e figurativa. 

2. Il volto per Artaud “è una forma bucata”, una “forma in movimento”.5 È in questa “forma bucata”, solcata da mille sentieri, che va cercata traccia dell’io. Ma, scrive Artaud, “non un io / io non ne ho. / Non ho un io, ma non c’è altro che io e nessuno, / nessun incontro possibile con l’altro, / ciò che io sono è senza differenziazione né opposizione possibile, / è l’intrusione assoluta del mio corpo, dappertutto”. È di qui, partendo da questo dappertutto, che Deleuze, dalla Logica del senso a Anti-Edipo, teorizza Artaud come l’inventore del “corpo senza organi”, corpo che diventa il teatro dello scorrere dei desideri nel regno della schizofrenia come gioiosa dissoluzione dell’ordine. Il “dappertutto” di Artaud è però tutt’altro che gioioso. È straziante. In esso “non ci sono più parole né lettere, ma in cui si entra per grida e per colpi”.6 È proprio questa tensione, tra una realtà che si disarticola e si ricompone a sprazzi, solcata dai segni che l’attraversano tempestosi, e un io perduto, una impossibile identità, che lo porta a Van Gogh, e soprattutto, o quasi esclusivamente sul Campo di grano con volo di corvi, su cui torna più volte, e sul volto dipinto di Van Gogh, sul suo sguardo, come un’icona della sofferenza e della verità. 
Il saggio su Van Gogh è un saggio che si compone a strati. C’è il Van Gogh il suicidato dalla società, che vince nel 1948 il premio Sainte-Beuve per la saggistica, che è composto da una Introduzione e da un Post-scriptum, poi dal testo Il suicidato dalla società, e quindi un primo e poi un secondo Post-Scriptum. A questo fa seguito un Dossier di Van Gogh composto, evidentemente, da testi che sono connessi con il saggio: una introduzione, Il suicidato, Post-scritptum, e infine un A proposito di Van Gogh. I testi del Dossier non sono semplici abbozzi del testo definitivo. Hanno talvolta una loro autonomia e presentano letture e riletture diverse dei quadri di Van Gogh. 
3. Due eventi portano Artaud a scrivere il suo Van Gogh nei primi mesi dei 1947. Il libro di François-Joachim J. Beer Du démon de Van Gogh,7 in cui evidentemente è centrale la questione della follia di Van Gogh. Il secondo evento è la mostra che si è aperta nel gennaio 1947 all’Orangerie di Parigi in cui sono presenti molti dipinti di Van Gogh. Artaud comincia a scrivere non, come dice la leggenda, ultimando il suo testo in una notte o in un paio di giorni. Comincia a scrivere rapidamente e a dettare, a scatti, come fosse trascinato dentro Van Gogh e ne fosse in qualche modo respinto, o turbato, tanto da dover ritornate più volte sulle stesse immagini, sugli stessi pensieri, per più giorni di seguito. Van Gogh non era pazzo scrive Artaud. Come non lo erano Gérard de Nerval, o Nietzsche o i Baudelaire o i Rimbaud che, pur non accusati di follia, sono stati così reietti da rifugiarsi l’uno in Belgio l’altro in Africa. È la vita presente, scrive Artaud, che è carica di “un’atmosfera di stupro, anarchia, disordine, delirio, sregolatezza, pazzia cronica, inerzia borghese, anomalia psichica (perché non l’uomo ma il mondo è diventato un anormale), di voluta disonestà ed esimia tartuferia, di lurido disprezzo per tutto ciò che mostra di avere razza”(VG, p. 13). Artaud sa, come lo ha saputo Van Gogh, cosa significa l’internamento. E sa che Van Gogh con la sua pittura si muove contro tutti i conformismi. Come ho detto più sopra, la sua pittura è cosmogonica, come lo è ogni grande opera artistica in quanto  anche la natura esterna, con i suoi climi le maree e le tempeste equinoziali, non può ormai, dopo in passaggio di Van Gogh in terra, mantenere la stessa gravitazione. (VG, pp. 14-15). 

Van Gogh alla fine aveva scoperto chi era. Ce l’aveva fatta quando “la coscienza generale della società, per punirlo di essersi strappato da essa, / lo suicidò” (VG, p. 20). 
4. Artaud ha osservazioni molto acute sul rapporto tra il fratello Theo e l’ambiguo dottor Gachet, a cui Theo aveva affidato Vincent. Ha osservazioni molto acute su molti altri aspetti del “Caso Van Gogh”, e via via allude anche ad altri quadri presenti nella mostra all’Orangerie, e ad altri ancora che aveva potuto vedere nei libri dedicati a Van Gogh che gli erano stati proposti dagli amici. Ho intenzione però di soffermarmi soltanto, come ho detto più sopra, sul paesaggio, e in particolare sul Campo di grano con volo di corvi e sul volto, sugli autoritratti di Van Gogh. Artaud inizia subito dal suo incontro con Van Gogh, “che dipingeva non linee o forme, ma cose della natura inerte in piene convulsioni”, o, come ha scritto Rilke, “oggetti terrorizzati”.8 Van Gogh colpisce il mondo, colpisce tutto, “cardando” gli oggetti con il chiodo del suo sguardo, del suo pennello (VG, p. 25). E soprattutto d’un tratto ci vengono incontro “questi corvi dipinti due giorni prima della morte”, che aprono alla pittura dipinta, o piuttosto alla natura non dipinta, la porta occulta di un al di là possibile, di una permanente realtà possibile, attraverso la porta da Van Gogh aperta di un enigmatico e sinistro al di là.

Van Gogh è quasi un profeta, ma un profeta che profetava l’enigma, come spesso hanno fatto i sapienti Greci e i Profeti biblici. Non è comune vedere, continua Artaud, “un uomo, con nel ventre la fucilata che lo uccide, ficcare su una tela corvi neri e sotto una specie di pianura livida, forse, vuota in ogni caso, in cui il color vinaccia della terra si scontra perdutamente con il giallo sporco delle messi”. Il nero dei corvi, il nero di tartufi, il nero quasi escrementizio di questi corvi “sorpresi dal lucore del declinare della sera”, che si stende sulla terra, su “questo panno sporco, strizzato di vino e di sangue inzuppato” (VG, pp. 26-27). 

 
Sono convinto, con Artaud, che il Campo di grano con volo di corvi, sia l’ultimo dipinto di Van Gogh, al di là delle esitazioni dei critici e degli storici dell’arte. Come dice Artaud, “dopo i ‘Corvi’ non riesco a convincermi che Van Gogh avrebbe dipinto un solo altro quadro” (VG, p. 31). Invece non è vero che Van Gogh l’abbia dipinto con una pallottola di fucile nel ventre. Il colpo di pistola che lo ucciderà è certamente successivo anche se di pochissimi giorni al Campo di grano. Ed è comunque un episodio enigmatico su cui torneremo. 

5. Van Gogh “ha rappresentato se stesso in moltissime tele” (VG, p. 33), ma anche su questo torneremo. La prima parte dello scritto di Artaud termina sull’immagine del pittore e della “sua terribile idea fanatica, apocalittica di illuminato”, che fa sì che al suo confronto Brueghel il Vecchio e Hieronymus Bosch, con i loro inferni brulicanti, siano solo artisti. In qualche modo Van Gogh è anche un veggente. Comunque, conclude Artaud, non vale la pena descrivere un quadro di Van Gogh. “Nessun descrizione tentata da un altro potrà mai valere il semplice allineamento di oggetti naturali e di tinte al quale si abbandona lo stesso Van Gogh”. Che è, inoltre, un grande scrittore e che “a proposito dell’opera descritta dà l’impressione della più sbalorditiva autenticità” (VG, pp. 38-39). Van Gogh è colui che ha immesso nella natura aria e nerbo, o forse ha proposto una natura altra in cui l’aria e il nerbo sono più “veri della natura vera”. Forse è in nome di questa verità ulteriore che la pittura di Van Gogh un giorno tornerà “per scagliare in aria la polvere di un mondo in gabbia che il suo cuore non poteva più sopportare” (p. 46 e p. 54). Nel primo Post-scriptum Artaud fa ritorno al quadro dei corvi. Ha già visto come “in quella tela, la terra equivale al mare”. Qui Van Gogh ha osato. Ha spinto gli oggetti ad esser altro, ha osato “infine rischiare il peccato dell’altro, e la terra non può avere il colore di un mare liquido, e tuttavia è come un mare liquido che Van Gogh butta la sua terra come una serie di colpi di sarchio”. Il colore della vinaccia “ha intriso la sua tela, ed è la terra che puzza di vino, e sciaborda ancora in mezzo alle onde di grano, e drizza una cresta di gallo scura contro le nuvole basse che si ammucchiano nel cielo da ogni lato”. E poi il nero di tartufo, il nero funebre e lussuoso dei corvi (p. 57). E poi, di seguito, un testo che non è possibile non citare per esteso. 

 
Nelle onde violacee del cielo, due o tre teste di vecchi fatte di fumo tentano una smorfia da apocalisse, ma i corvi di Van Gogh stanno lì ad incitarli ad avere più decenza, voglio dire ad avere meno spiritualità, che cosa ha voluto dire lo stesso Van Gogh con questa tela da cielo abbassato dipinta come nell’istante preciso in cui si liberava dall’esistenza, perché questa tela ha uno strano colore, quasi pomposo del resto, di nascita, di nozze, di partenza, sento le ali dei corvi battere aspri colpi di cimbalo sopra la terra di cui sembra che Van Gogh non potrà più contenere il flutto. Poi la morte (VG, p. 58). 

6. Il campo coi corvi torna ancora più avanti, con “la frangia tenebrosa insolita del vuoto che risale inseguendo il lampo”. Tornano “i microbi neri” dei suoi corvi (VG, pp. 86-87). Torna e si precisa l’idea cosmogonica della “realtà stessa” che vien “portata a compimento” dall’arte (VG, 89). Ma al fondo di tutto c’è l’enigma. Se dopo aver “sgobbato” su vecchi tomi di alchimia o di magia, alla fine ci si ritrova, “con Van Gogh succede il contrario, più si è sgobbato e meno ci si ritrova, non somiglia mai a niente di tutto ciò che si conosce” (VG, p, 107). Poi, nell’ultimo Post-scriptum, è ancora quel dipinto, con la sua “linea macabra di corvi neri / su un paesaggio di terra convulsa”. E poi è ancora e ancora lo stesso quadro, quasi ossessivamente (VG, p. 111 e p. 112, 113, 114). 

 
Finalmente, quasi evocato dai corvi, emerge il tema del volto, quella “faccia da beccaio” dal pelo rossiccio, “che ci ispeziona e ci spia”. Il frammento si chiude con l’affernazione interrotta: “Non conosco un solo psichiatra...” (VG, p. 115). Come potremmo completare la frase? Che possa reggere questo sguardo? Che possa penetrare questo volto? Che possa decifrarne l’enigma? Certo, nessun psichiatra si è neanche avvicinato a quello sguardo e al segreto che esso nasconde e al tempo stesso esprime, segreto che rimane insoluto ma in assoluta evidenza nelle parole di Artaud. 

 
Lo sguardo degli autoritratti buca, attraversa l’intonaco in cui siamo chiusi. È uno “sguardo divorante, / penetrante, / acutissimo, / quasi osceno a forza di penetrazione, di sincerità”. Uno sguardo vuoto, cavo, rovesciato su un “esterno più tremendo di tutti gli interni”. Questo volto, questo sguardo, è stato dipinto “da un immenso psicologo”. Vedere pazzia in uno sguardo simile significa essere alienati a ogni verità. Significa non capire che questo viso, pieno di spigoli taglienti, che pare avanzare per divorarci, mentre subito ci accorgiamo di quello “sguardo sospeso, girato dall’altro lato, che Van Gogh, dunque, / dipingendosi / non aveva mancato di analizzare, / di notare” (VG, pp. 116-117). Rilke nella prima delle Elegie duinesi parla dell’angelo che “se mi stringesse d’improvviso / al cuore, soccomberei per la sua troppo forte presenza. / Perché nulla è il bello, se non l’emergenza del tremendo”. Tremenda l’esperienza dell’angelo e della bellezza in Rilke, tremendo evidentemente l’incontro di Artaud con Van Gogh e con la sua bellezza, che attraversa tutto il suo testo e si sporge verso di noi, che leggendolo non possiamo scansarlo, che leggendolo ne siamo investiti. 

7. Ma Van Gogh torna nel testo Le visage humain, che figura nel catalogo della mostra Portraits et dessins par Antonin Artaud, che ha avuto luogo tra il 4 e 20 luglio 1947 a Parigi, alla Galerie Pierre. L’inizio di questo testo è folgorante. “Il volto umano è una forza vuota, un campo di morte”. È la drammatica ricerca di verità e di identità che abbiamo visto affiorare in Succubi e supplizi, vecchia rivendicazione “di una forma che mai ha corrisposto al suo corpo, che muoveva per essere altra cosa che il corpo”. 

 
Di fatto il volto umano non ha ancora trovato la sua faccia, “e spetta al pittore dargliela”. E ancora “Il volto umano porta sul volto una specie di morte perpetua ed è il pittore che deve salvarlo / dandogli i suoi tratti”. Un compito immenso per il pittore, e per l’arte in genere, dare faccia a un volto che si presenta come un campo vuoto. Dargli i suoi lineamenti, costruirlo, farlo essere. Si tratta di sprofondare dentro quel volto, “che non ha ancora cominciato a dire ciò che è e ciò che sa”. I pittori di cui parla la storia dell’arte, e poi anche Holbein e Ingres non sono riusciti a tanto, non sono riusciti a penetrare in esso e a strappargli il suo segreto. 

Il solo Van Gogh a saputo trarre da una testa umana un ritratto che sia il razzo esplosivo del battito di un cuore esploso. 
Il suo.
La testa di Van Gogh con il cappello di feltro rende nulli e non avvenuti tutti i tentativi di pitture astratte che potranno essere fatte dopo di lui fino alla fine dei tempi. 
Dunque siamo confrontati a quel volto di beccaio avido proiettato all’esterno come un colpo di cannone, che è stato spinto verso l’estremità della tela e che poi si è di colpo arrestato davanti “a un occhio vuoto“ e che si è girato verso quel dentro, che “esaurisce tutti i segreti speciali”, che la pittura astratta potrebbe cercare invano di esplorare. Per questo Artaud nei suoi disegni ha sempre messo naso, bocca, occhi e orecchie e capelli, ma cercando “di far dire al volto che mi parlava / Il segreto di una storia umana che è passata come morta nelle teste di Ingres e di Holbein”. È dunque questione, anche qui, di segreto, e i disegni, che Artaud esibisce nella mostra, altro non sono che colpi di sonda in direzione di questo segreto. Sono offerti, attraverso i quaderni esposti, non per essere museificati. I quaderni, quegli stessi quaderni ora in mostra saranno usati ancora. La ricerca non è finita. Ma intanto possono servire ad un uomo che, come lui, vada alla ricerca di una verità e di una “meccanica perduta”.  

 
Come Rilke ha fatto diventare Cézanne una dottrina e un insegnamento, così Artaud ha fatto diventare dottrina e insegnamento la pittura di Van Gogh. Due esperienze, quella di Rilke e quella di Artaud, lontane, ma ugualmente estreme e illuminanti. 

8. Artaud con la sua drammatica ricerca, con le domande che scaglia verso Van Gogh e verso il mondo, mi ha portato al mio Van Gogh, al mio Campo di grano con volo di corvi. Parecchi anni fa avevo visto, forse in un cineclub, il film Sogni di Akira Kurosawa, in cui, in uno degli episodi, l’alter ego del regista si muove all’interno dei quadri di Van Gogh. L’episodio, o il sogno, nel film finisce quando il protagonista incontra finalmente il pittore stesso, interpretato da Martin Scorsese, che entra in un’immensa distesa di grano e cammina deciso finché sparisce alla vista lasciandolo lì immobile, incerto e stupito. Il film contraddiceva quanto io ricordavo del quadro. La mia memoria non mi consegnava un Van Gogh che procede felice nel campo di grano fino a sparire all’orizzonte. C’era anche l’ipotesi, che mi aveva colpito, avanzata da Meyer Schapiro in L’arte moderna, che nel Campo di grano con volo di corvi il sole un tempo splendente sia ora “precipitato in una oscura massa indistinta e destituita di centralità”.9

Il quadro, che avevo visto e che avevo amato, stava diventando per me sempre più un enigma. Un viaggio ad Amsterdam, e la riproduzione - differente solo per un paio di centimetri rispetto alla dimensione originale - che avevo attaccata al muro del mio studio, proprio davanti ai miei occhi, non faceva che approfondire fin quasi al disagio il senso di mistero che questo quadro continuava a sprigionare. Sapevo che era stato dipinto pochissimo prima della sua morte, annunciato al fratello Theo e a sua cognata Jo quasi come una lettera d’addio. Ma non solo il quadro, anche la sua morte presentava aspetti poco chiari, per non dire oscuri. Avevo deciso dunque di andare a fondo, per quanto mi era possibile. Ho lasciato perdere le analisi critiche e mi sono calato invece nei tre volumi della Correspondance générale di Van Gogh, e in una serie di testimonianze dirette e indirette. Sono andato a Auvers-sur-Oise, sul bordo di quel campo di grano. Sono tornato a Amsterdam. Ma a quel punto avevo deciso, visto che stavo conducendo una vera propria indagine, di affidare il resoconto di questa indagine a un racconto, a una detective story. Ho pensato a uno scrittore di thriller invitato a partecipare ad un’antologia in cui vari scrittori avrebbero ambientato delitti e indagini in diverse capitali europee. Il protagonista del mio racconto aveva scelto Amsterdam, perché, pur non sapendo molto di Van Gogh, come me era stato incuriosito dal film di Kurosawa e da quanto gli aveva raccontato un’amica che lo avrebbe accompagnato ad Amsterdam. Il mio detective alla fine non ha pubblicato il suo racconto. Io ho pubblicato il mio racconto, da cui riprenderò alcuni tratti, intitolandolo Lo sguardo della morte in Negli occhi di Vincent. L’io nello specchio del mondo, un libro che si occupava soprattutto del tema dell’autorappresentazione.10 

9. Il quadro, come si è detto, è di poco precedente al suicidio di Van Gogh. Van Gogh si è sparato, con una pistola o con un revolver. Le testimonianze sono al proposito imprecise, perché l’arma non è mai stata ritrovata. Si era supposto che fosse stata comprata qualche giorno prima a Pontoise, ma le indagini, se pure indagini c’erano state, non avevano appurato né quando, né da chi, né che tipo di arma Van Gogh si fosse procurato. Ma l’arma non è l’unico punto oscuro di quella morte. La sera del 27 luglio Van Gogh rientra a piedi, poco prima delle nove, alla locanda dove alloggiava e, senza dire una parola, sale le scale verso la sua camera. La padrona, insospettita dal suo comportamento strano (eppure le stranezze di Van Gogh erano molteplici e non avrebbero dovuto più stupire o insospettire i suoi ospiti) e dai gemiti che aveva sentito provenire dalla sua camera, entra e lo trova ferito e sanguinante sul letto. Chiama il dottor Mazery e poi, solo dopo averne verificata l’assenza, avverte il dottor Gachet, che avrebbe dovuto esserle noto come l’amico (l’unico amico a Auvers) di Van Gogh. 

 
Il dottor Gachet lo benda, e poi scrive al fratello di Van Gogh, Theo, per avvertirlo, comunque in ritardo, perché scrive presso la ditta dove Theo lavora, perché, ha detto in seguito, il pittore si era rifiutato di dargli l’indirizzo privato del fratello, indirizzo che, d’altra parte, il dottor Gachet doveva conoscere bene, dal momento che tra i due c’era stata una corrispondenza per preparare l’arrivo del pittore e la sua sistemazione a Auvers. Poi c’erano state visite reciproche, a Parigi, dove Gachet si recava regolarmente tutte le settimane, e infine a Auvers. Gachet era infatti un collezionista e Theo un mercante d’arte. Dunque tra i due esisteva una conoscenza accertata, qualcosa che potremmo definire quasi una consuetudine. 

 
Il 18 luglio - nove giorni prima del suo ferimento - Van Gogh aveva scritto a Theo che sul dottor Gachet “non bisogna assolutamente contare”. Su che cosa si basava questa affermazione di Van Gogh? Può servire a spiegare almeno in parte lo strano comportamento del dottore di fronte alla sua ferita? La testimonianza del figlio del dottore, che riferisce di una discussione relativa alla cornice di un quadro di proprietà del dottor Gachet, mi pare una spiegazione ridicola di fronte a un dissidio che si conclude con una dichiarazione di completa e assoluta inaffidabilità. 

Il 28 luglio Van Gogh è sereno. Le testimonianze riferiscono come addirittura fumasse la pipa disteso tranquillamente sul suo letto. La pallottola, entrata dall’alto nel petto, sopra il cuore, aveva causato evidentemente una emorragia interna. Van Gogh muore alle una e trenta del mattino del 29: ventotto ore e mezza dopo essere rientrato a casa; non si sa quante ore dopo essersi ferito. L’emorragia non era dunque devastante e poteva, se curata in tempo, presumibilmente essere arrestata.11 Theo, poche settimane dopo la morte del fratello, entra in clinica per una grave depressione che lo porterà in pochi mesi alla morte. Si può ipotizzare che questa gravissima depressione traesse la sua origine dal rimorso? Un rimorso forse generato dalla consapevolezza della solitudine in cui era sempre stato abbandonato il pittore (che è stata, forse, la causa del suo gesto), ma forse imputabile anche alle modalità di quella strana morte? 
C’era senz’altro materia d’indagine per il mio investigatore che inizia a girare per le strade di Amsterdam e lungo i suoi canali per cercare la location adatta per i suoi delitti e le sue indagini. Finalmente entra anche nel museo, che avrebbe potuto essere anche il luogo adatto in cui situare uno dei suoi omicidi. Il Campo di grano con volo di corvi era diverso da come ricordava di averlo visto in riproduzione. Era diverso anche dalle altre decine di quadri che stavano attaccati alle pareti, anche dal Campo di grano sotto un cielo nuvoloso e dalle Radici d’albero, che erano stati dipinti negli stessi giorni e stavano appesi ai suoi lati come sentinelle. Questo avevo visto e questo avevo attribuito al mio detective, che infine decide di dividere il suo tempo tra le strade di Amsterdam e la biblioteca del museo, dove comincia a studiare. Lascia perdere il portatile e annota su un lato del quaderno cose che potrebbero riguardare il suo racconto e dall’altro lato cose riguardanti Van Gogh. Ben presto le pagine del lato Van Gogh diventano le più numerose, e il quaderno alla fine sarà un quaderno Van Gogh. 
10. Il quadro che io avevo osservato sconcertato, come sconcertato era l’investigatore, si intitola Campo di grano con volo di corvi. Rappresenta un fosco paesaggio di spighe aggrovigliate forse dal soffio di una bufera imminente, così era scritto nei cataloghi e nei libri, anche se in realtà le spighe non sembravano mosse nell’una o nell’altra direzione da un vento turbinoso. Sembravano piuttosto compattate e agglutinate e calcificate in una sorta di stupore che invadeva tutto lo spazio. Sopra le spighe, tagliate da tre vasti sentieri, vola uno stormo di corvi neri sullo sfondo di un cielo che si abbuia, senza però che in esso si possano scorgere i segni di quella tempesta di cui si è letto, e che ci si aspetta di vedere. Ma al di là di ciò che si vedeva nel quadro, era violenta la sensazione che esso, il dipinto nel suo complesso, mi guardasse. Mi pareva di essere guardato, e al tempo stesso trattenuto da quello sguardo misterioso perché, allontanandomi di lì, non perdessi le parole inespresse di cui lo sentivo carico. Più sopra abbiamo incontrato Artaud che parla dei corvi che battono le ali su un cimbalo. Trovo rileggendolo nel mio racconto l’immagine di Vincent Van Gogh, seduto in un angolo del mondo, a battere con un sorriso disperato come fosse un cimbalo la superficie della terra con la punta dei suoi pennelli. 
11. Vincent Van Gogh. La sua decisione di essere pittore è emersa all’improvviso, e le sue lettere cominciano a riempirsi di schizzi, di disegni, subito grandi e misteriosi. Era l’inizio degli Anni ottanta. Il colore arriverà nel 1882. Ha preso una decisione che non avrebbe mutato più, anche se, alla fine, ogni tanto emerge in lui la consapevolezza del prezzo pagato per tener fede alla sua decisione: la vita in cambio della pittura. Ma già prima di questa scelta, prima dei primi dipinti, nelle sue lettere affiora di continuo la luce e il colore, che evidentemente avevano covato segretamente fin dall’inizio in qualche parte dentro di lui. Il sacrificio della vita. Torna il tema sacrificale che abbiamo incontrato in ognuna delle tappe del percorso di questo libro, in Manet, in Rembrandt, in Giacometti e in Cézanne. Van Gogh ha avuto meno tempo di tutti. Se l’inizio del colore è del 1882, egli prima di morire ha avuto solo otto anni, e sono stati otto anni molto tormentati, segnati a una solitudine abissale. Un solo periodo non è stato solo, quello vissuto con Sien, la prostituta de L’Aia per la quale ha combattuto, alla fine sconfitto, con il padre e il fratello. Ad Arles attende Gauguin e per un breve periodo vivono insieme. Sperava in una comunità di pittori, garantita appunto dal prestigio di Gauguin, che avrebbe finalmente non soltanto rappresentato e dato forma con uno sforzo collettivo al caos del mondo, ma che avrebbe anche legittimato economicamente il sostegno che il fratello gli aveva accordato per quasi un decennio. La rottura con Gauguin è drammatica. È ora lontano da tutti. Qui ha luogo l’episodio dell’orecchio tagliato e offerto a una prostituta, altro gesto sacrificale. Van Gogh si sente di fronte ad un’unica alternativa per sfuggire alla solitudine straziante e alle proteste dei cittadini di Arles, che gli hanno fatto capire, ancora una volta, che anche lì lui era in esilio, straniero e senza patria. L’alternativa è lo straniamento della legione straniera, in Africa dove già si era esiliato Rimbaud, o lo straniamento del manicomio. Alla fine viene scelto - da lui e dal fratello Theo - il manicomio di Saint-Rémy, in cui egli rimane recluso per un anno intero: dal maggio 1889 al maggio 1890. 

12. Il mio detective aveva annotato e riepilogato sui suoi quaderni in una serie di rubriche i primi risultati delle sue ricerche e delle sua letture. Eccole.

L’ombra e la morte. 
La vera ombra è legata alla morte, per questo, per fare ombra, egli scrive, Dürer ha posto la morte dietro le spalle della giovane coppia che egli ha rappresentato in una sua incisione.12 Ma se la morte è una raffigurazione dell’ombra, è vero anche l’inverso: l’ombra è una raffigurazione della morte. Allora tutta la pittura è, in fondo, sempre pittura della morte. I pittori olandesi hanno dipinto un’ombra, un’oscurità che ha al suo interno una sua luce. È l’inquietante luminosità della morte (che si distingue da quella della terra dei Mangiatori di patate). Per questo Van Gogh scrive di Rembrandt: bisogna essere morti parecchie volte per dipingere così.13 Per conoscere l’ombra è necessario dunque conoscere la morte. 

La morte propria.
Nell’estate del 1883 Vincent scrive al fratello che avrà dai sei ai dieci anni di vita. Morirà nell’estate del ‘90, sette anni dopo. Nel 1888 dipinge un autoritratto che assomiglia, scrive, a una testa di morto. Forse è l’autoritratto “scolorito”14 che porta con sé a Saint-Rémy (anche a Auvers?). Un giorno scrive al fratello che il suicidio non è per loro. Più avanti scrive che il suicidio è orribile. Nel 1888 scrive che suicidarsi è trasformare gli amici in assassini. Però, nello stesso anno, parla della morte come di un veicolo astrale che può portare alle stelle, all’altra dimensione del mondo. Afferma che le malattie sono mezzi di locomozione veloci in quella direzione, e che morire di vecchiaia è come andare a piedi, procedere lentamente, troppo lentamente verso la meta. Le malattie un mezzo veloce. Il suicidio un mezzo drammaticamente veloce? Tale da superare l’orrore che in prima istanza suscita? 

La morte rappresentata: il vuoto.
Fin dal 1882 Vincent parla con ammirazione di un disegno in cui Luke Fildes ha rappresentato la morte di Dickens disegnando la sua sedia vuota. Vincent ha rappresentato l’assenza di Gauguin, dipingendo la sua sedia vuota: il luogo dell’assente, scrive. Luogo dell’assente è anche La camera da letto di Vincent nella casa gialla di Arles. Deve suggerire il riposo, scrive. Non c’è nient’altro in questa stanza con le persiane chiuse. A Gauguin scrive: ho voluto esprimere in questo quadro, in questa camera, il riposo assoluto. È, tra i suoi quadri, quello che forse egli ama di più. Lo rifà tre volte. Ma la stanza, per noi che la guardiamo come Van Gogh l’ha raffigurata, non suggerisce il riposo. Quella stanza vuota può esprimere un grande e assoluto riposo soltanto per l’assente. È il luogo di riposo assoluto e ultimo per l’assente, per chi non c’è più: per un morto. Nella Stanza da letto Vincent ha già rappresentato se stesso morto, già in viaggio verso le stelle. 

La morte rappresentata: le immagini.
Nel luglio 1889 Vincent sta dipingendo un quadro all’aperto. Viene colto da una crisi che lo paralizza. Il quadro è ripreso e finito nei primi giorni di settembre. È il Campo di grano con un falciatore. È, scrive al fratello, una vaga figura che lotta come un diavolo per venire a termine del suo compito. È stata la visione (allora, a luglio, quando è intervenuta la grande crisi) dell’immagine della morte. L’umanità sarebbe il grano falciato. L’opposto del seminatore che aveva tentato in passato, decine di volte in passato: l’immagine della vita che inizia.15 Ma in questa morte non c’è nulla di triste. Succede in piena luce, con un sole che inonda tutto con una luce d’oro fino, salvo la linea ondulata delle colline viola all’orizzonte. Vincent ne fa una xilografia, nello stile delle rappresentazioni popolari, per la madre; una versione più piccola per la sorella Wil.

 
Sulla solitudine abbiamo già detto. Theo era stato a Arles soltanto una volta in giornata, chiamato da Gauguin. Nel 1890 Vincente sperava che il fratello avrebbe passato qualche giorno ad Auvers-sur-Oise, e invece ha notizia che andrà in Olanda. Una giornata a Parigi lo convince che per lui non c’è posto a casa di Theo. Le testimonianze dirette relative all’utimo periodo di vita di Van Gogh sono costruite a posteriori dai protagonisti e adattano i fatti al mito di Van Gogh. Oppure sono preoccupate di sottolineare il proprio ruolo o quello di chi era loro più vicino. Come quella esemplare del figlio del dottor Gachet che, teso alla difesa del padre, falsifica, apparentemente senza scopo, i dati di fatto. Scrive, per esempio, che la pittura olandese non ha avuto alcun influsso sull’arte di Van Gogh. Noi sappiamo che per Van Gogh Rembrandt è l’esempio irraggiungibile di una pittura che diventa la rivelazione dell’enigma e del mistero del mondo e dell’oltre mondo. Rembrandt, ha detto Van Gogh, ha rivelato cose per le quali non ci sono parole in alcuna lingua. Gachet scrive anche che Van Gogh ripudia il periodo di Neunen. Vincent dichiara invece che vuole recuperare i colori di quel periodo, e proprio il Campo di grano con volo di corvi si muove in quella direzione. Dichiara anche di voler ridipingere i quadri dipinti allora, primo tra tutti I mangiatori di patate, che teme sia diventato invisibile, invaso dall’ombra e dal nero che stavano invadendo anche lui. 

 
Gachet scrive infine che a Auvers non ci sono corvi. E anche questa è una curiosa menzogna, facile da verificare.

13. Il mio detective è deciso ad andare fino in fondo, deciso a penetrare quel grumo di dolore, di miseria e di solitudine che Van Gogh ha comunicato nel suo Campo di grano con volo di corvi: 

Sono immense estensioni di grano sotto cieli turbati e non mi sono fatto scrupolo per cercare di esprimere la tristezza, la solitudine estreme. Lo vedrete perché spero di portarveli a Parigi il più presto possibile, perché credo che queste tele vi diranno ciò che non so dirvi in parole.16 

A questo punto abbandono il mio detective che, tra l’altro, ha fatto il mio stesso percorso, e procedo ormai per conto mio, in prima persona. 

 
Sono partito in un giorno ai primi di novembre dalla Gare Saint-Lazare, quella dipinta da Manet e da Monet. Ho preso un treno, e poi un altro treno a Pontoise, con i sedili di legno, che poteva essere del tipo di quelli su cui aveva viaggiato Van Gogh. A Auvers memorie di Van Gogh ovunque, e ovunque l’impressione di falsità. Persino la stanza in cui è morto, con le pareti annerite dal fumo delle candele, come se i proprietari, dopo che Vincent è stato sepolto, con i suoi quadri accanto alla bara per chiunque volesse prenderli in ricordo, senza che nessuno si avvicinasse a prenderli salvo il dottor Gachet, avessero lasciato profeticamente intatta la stanza in attesa che Vincent diventasse il mitico Van Gogh. Forse quella che viene esibita non è nemmeno la stessa stanza in cui ha vissuto ed è morto. 

 
Poi sono salito lungo un sentiero sconnesso. Una lama di luce entra nella chiesa che Van Gogh ha dipinto attraverso i vetri e stampa sul pavimento un fiore giallo e violetto dai contorni mobili e continuamente mutevoli. Sono i colori del Falciatore. La forma è quella di un girasole: uno di quei girasoli che Vincent ha dipinto dicendo che dovevano dare l’effetto delle vetrate delle cattedrali gotiche. Andando avanti un cartello metallico corroso dalla ruggine mi avvia verso il cimitero. Si arriva alle tombe di Vincent e di Theo, una accanto all’altra. Vincent, subito dopo la sua morte, non era stato sepolto lì dove ora riposa. La sua tomba è stata spostata quando la cognata Jo ha fatto portare qui i resti di Theo, perché i due fratelli fossero posti, almeno nella morte, uno accanto all’altro. Li hanno sepolti contro il basso muro che circonda il piccolo cimitero. Sulle loro tombe, coperte da una spessa coltre di edera, ci sono due lapidi di pietra grigia con i due nomi e le date. Due lapidi di pietra grigia come il muro grigio a cui si appoggiano, e dietro il muro i campi. 

 
Finalmente mi trovai davanti ai campi in una giornata di novembre che ha un cielo immoto di cristallo e nessun segno di turbamento. Ma i cieli turbati del Campo di grano con volo di corvi erano dentro Vincent, e non fuori di lui. Non c’erano spighe, come avevo preferito scegliendo il mese autunnale, non c’era grano e non c’erano in esso sentieri. Ma lo spazio era quello che avevo visto nella superficie della tela rettangolare appesa alla parete del Museo di Amsterdam. Ero nello stesso spazio in cui si era mosso Vincent. Dapprima vidi solo uccelli bianchi che si libravano in volo sopra la terra bruna, sopra il movimento ondoso delle grosse zolle che l’aratro aveva lasciato dietro di sé. Forse erano gabbiani, o qualche altro uccello d’acqua di cui non conoscevo il nome, che venivano dal fiume vicino. All’orizzonte si vedeva remota una fattoria, una macchia verde di alberi e la macchia rossa di un trattore. Mi avvicinai al bordo del campo, con la punta delle scarpe che sfiorava ormai la terra smossa, e allora si levarono in volo i corvi neri. Si levarono per un breve volo, e si posarono più in là, più dentro il campo, a razzolare per terra.

 
Mi mossi in precario equilibrio sulla terra sconnessa, e i corvi si levarono ancora e volarono ancora più in là, verso il centro del campo. Avevo le scarpe umide di terra. Arretrai lentamente e mi riportai di nuovo sul ciglio del campo, là dove, probabilmente, Vincent aveva posto il suo cavalletto. Era chiaro. Quando egli si era avvicinato, come io avevo fatto, al campo, i corvi erano volati in direzione opposta, allontanandosi da lui, e non verso di lui come avevo invece visto nel Campo di grano con volo di corvi. Dunque Vincent aveva dipinto il quadro nella posizione in cui io mi ero immobilizzato, ma si era immaginato, o raffigurato altrove, riservando questo posto, quello in cui egli era stato, a qualcun altro. A un testimone.

 
Tentai un’altra spiegazione. Vincent poteva aver immaginato di aver percorso i sentieri che solcano il grano nel suo dipinto e quindi di tornare indietro, con i corvi che lo precedevano. Ma la spiegazione non reggeva. I sentieri erano interrotti, e i corvi giungevano da dietro quella interruzione: dal fondo stesso del quadro dove egli non poteva in alcun modo essere fisicamente giunto. Vincent si era dunque pensato nel fondo estremo di quello spazio, e di lì spingeva i corvi verso chi guardava, verso chi avrebbe dovuto guardare, verso Theo e la moglie Jo. A loro due era diretto il quadro come una lettera, come un linguaggio cifrato, che Vincent immaginava dovesse essere compreso immediatamente, quasi i corvi fossero le parole impronunciabili, ma rese comprensibili e visibili nella rappresentazione pittorica. 

14. Francis Bacon ha fatto uno straordinario ritratto di Van Gogh ispirato a uno dei suoi autoritratti, Study for a portrait of Van Gogh del 1957. Bacon aveva dipinto, otto ritratti-autoritratti di Van Gogh. Gli occhi di Bacon si erano spinti là dove nessun contemporaneo di Vincent si era spinto. Nel libro Vincent a complete portrait, c’è anche il quadro di Gauguin, che ho già visto ad Amsterdam e che ritrae Van Gogh in una posizione in cui egli non si è mai ritratto, mentre dipinge dei girasoli, come egli non ne aveva mai dipinti, quasi volesse dirgli, in un gesto di sinistro e smisurato orgoglio: “Così lavora un vero pittore! Questi sono davvero dei girasoli!”. 

 
Ma ora è tempo di portarsi ancora una volta davanti al Campo di grano con volo di corvi. Leggerlo un’altra volta, un’altra volta tentarne il segreto. 

15. Il quadro è tagliato poco oltre la metà dalla linea frastagliata del grano, che disegna un ondulato orizzonte, che si spinge verso il cielo. Quasi al centro, ma spostata un poco a destra, la linea s’infossa, s’avvalla, incuneandosi in una frazione di vuoto dentro il grano. Riguardo attentamente. In effetti il quadro non ha centro. La frattura sulla linea dell’orizzonte è certamente spostata verso destra, là dove il cielo si confonde e da dove sembrano emergere nugoli di corvi. Dentro questa frattura, o questo avvallamento, si spinge fino a riempirlo una macchia più chiara, che campeggia nel cielo. Il punto sembra coincidere con il vertice del sentiero centrale che attraversa il grano. Ma subito ci si accorge che non solo il sentiero si interrompe prima di toccare l’orizzonte, ma che il suo vertice si chiude dopo un spostamento a destra che lo pone fuori asse rispetto al triangolo vuoto che si incunea dentro il grano. Davanti alla macchia più chiara, che dal cielo si spinge fin dentro il campo, vola uno stormo di corvi. Provengono da destra di chi guarda. Il corvo più grande vola al centro di una seconda macchia più chiara posta circa a metà tra la prima macchia e il bordo sinistro del quadro. Nello spazio tra le due macchie volano altri corvi. Le loro ali formano la doppia iniziale di Van Gogh, V(incent) W(illelm). Li conto più volte e il conto sembra non tornare mai. 

  

Alla fine decido che a sinistra della macchia più grande, che sta quasi al centro del quadro, volano sette corvi, a destra trentuno. Li ho contati e ricontati e mi sono fermato alla fine su questa cifra, forse perché la somma mi dà l’età di Vincent, che stava in quel momento vivendo il suo trentottesimo anno di vita. Certo, dall’estremo angolo di destra del quadro emergono altri corvi, molti altri corvi. Ma non sono neri: sono azzurri, chiari, appena segnati, appena visibili, quasi non fossero anni vissuti, ma anni solo possibili, anni potenziali rispetto ai terribili trentotto anni della sua terribile vita vissuta. 

 
I corvi volano tutti verso l’esterno del quadro, verso chi guarda il quadro, verso il testimone che Vincent ha chiamato a questo sguardo. Il cielo è bluastro, ed è segnato da zone nere che s’infittiscono nei bordi in alto a destra e a sinistra, e poi tra le due macchie chiare, e infine in alto, sopra la macchia chiara più grande. Mi pare che non si tratti di un colore, il nero, ma della progressiva sottrazione attraverso il nero di ogni colore rispetto a tutti i quadri che Vincent ha dipinto, soprattutto i notturni di Arles che presentano un’oscurità sovraccarica di colore. Forse si tratta di quella sottrazione che Vincent aveva tentato con altra tecnica nel suo autoritratto “quasi scolorito”. Non ci troviamo dunque di fronte ad una oscurità luminosa, che ha una sua propria luce, di cui Vincent ci ha dato un esempio straordinario nei Mangiatori di patate, e nemmeno a quella che emerge misteriosamente anche dai quadri in cui Rembrandt ha reso visibile la sua percezione della notte e della morte. Qui il nero è opaco e invade e distrugge ogni luce. È un nero che affonda le immagini. È il nero che Vincent temeva, quando per esempio aveva scritto a Theo il 29 nell’aprile del 1890 che il quadro dei Mangiatori forse si era inabissato, che forse era diventato invisibile. Che era necessario ridipingerlo per salvarlo. 

 
Il campo di grano è solcato da tre sentieri, che hanno un’ampiezza straordinaria, e coprono una superficie probabilmente equivalente a quella coperta dal grano. Quello di destra finisce quasi orizzontalmente fuori del quadro. A questo punto mi pare una scelta stranamente logica, inevitabile e inaggirabile. 

 
Il lato destro finisce nell’oscuro. È il luogo da cui si generano i corvi: è il lato dell’ignoto. È un sentiero diverso dagli altri due, che sono segnati da un ampio bordo verde, mentre questo è nudo, senza margini. 

 
Gli altri due sentieri si diramano da una stessa base e si aprono anch’essi in una V. Se l’osservazione che le ali dei corvi formavano una V e una W, le iniziali di Vincent Willem, poteva essere stata una mera ipotesi, ora sono certo. Vedo che la V formata dai due sentieri è la stessa V della firma Vincent, che ho visto all’angolo di molti dei suoi quadri. L’ampia orlatura verde di questi due sentieri è segnata qua e là da alcuni tratti neri. Il fondo dei tre sentieri, macchiato di qualche traccia gialla e, in quello di destra, verde, della stessa tonalità di verde che fa da argine agli altri due sentieri, è un opaco color mattone. È lo stesso colore che troviamo nelle Radici d’albero dipinto nello stesso periodo, che è il quadro più contorto e spezzato che Vincent abbia dipinto. È un colore che compare solo ad un certo punto della vita di Van Gogh. È il colore di quadri dipinti tutti nello stesso periodo, gli oliveti, l’uomo che ci gira la schiena nella copia della Veglia di Millet, e il giardino del manicomio di Saint-Rémy. È il colore emerso davanti ai suoi occhi a Saint-Rémy. È il colore di Saint-Rémy. È il colore della follia che conduce in nessun luogo. 

 
Questo colore segna a tratti, che sembrano quasi ali di corvo o delle V rovesciate, la distesa di grano, infittendosi via via che ci avviciniamo alla linea dell’orizzonte, via via che ci avviciniamo alle due macchie più chiare. Non è la tempesta, di cui non ci sono tracce, sono questi sentieri che devastano il grano, e lo contaminano con il loro colore, come se il colore della follia invadesse l’umanità, che Van Gogh aveva già assimilata al grano parlando del Falciatore. Il campo di grano è un grumo caotico retto da una lucida logica. È impossibile scoprire dove si muova il grano umanità, in quale direzione lo spinga o lo abbia spinto il vento. È l’umanità stessa che implode verso il suo nulla sotto gli occhi di un morente, che la guarda e l’osserva mentre il suo sguardo si spegne. Le due macchie chiare sono infatti gli occhi di Vincent che si guarda morire e che descrive la sua stessa morte, mentre, insieme alla luce dei suoi occhi che presto si spegnerà nel magma buio del cielo quando i corvi saranno finalmente volati via fuori del quadro, l’umanità stessa affonderà nell’oscurità di una solitudine e di una tristezza che sono giunte al limite estremo: a un non oltre, a un non più. Guardo il quadro e, guardando il quadro, fisso gli occhi di Vincent nel suo ultimo autoritratto, quello che nessuno ha riconosciuto come tale. 

 
Vincent aveva invitato Theo e sua moglie Jo a porsi davanti a questo quadro ad osservare questa umanità che sprofonda nel buio e nel dolore, nella solitudine e nella morte. Vincent ha chiesto che qualcuno lo cercasse dentro questo quadro, dentro questa solitudine e dentro questa morte imminente. Ora ci sono io davanti a lui, e scopro, con chiarezza sempre più grande e sempre più straziante, il luogo in cui Vincent si è posto, e vedo i suoi occhi, che ho visto in tanti autoritratti, che diventano opachi, che diventano vitrei e ciechi sulle soglie della morte. 

 
Nemmeno Rembrandt era giunto a tanto, anche se aveva sfiorato, come Vincent aveva capito, questo limite. Nessuno, in letteratura o in pittura, è mai riuscito a rappresentare la sua propria morte. Tutti sappiamo di dover morire, ma nessuno di noi sa la propria morte. Sapendola e dipingendola Vincent ha fatto qualcosa che tutti avvertono oscuramente in lui, al di là dei libri di storia dell’arte, dei saggi critici, delle graduatorie d’asta o dei musei. 

 
Sofocle a conclusione dell’Edipo re ha scritto che il destino di un uomo si scopre a partire dalla sua fine. Vincent nella sua fine ha scoperto il suo destino, e paradossalmente ha raggiunto, nell’immensa V che si apre nel campo di grano, una sua dimensione, la dimensione di una grandezza a cui prima non aveva mai creduto. Forse Vincent, che ha visto e vissuto e descritto la sua vita e la sua morte, è l’unico di noi che abbia conosciuto interamente se stesso, che possa realmente e legittimamente dire Io. Quell’io che Artaud aveva disperatamente cercato nel mistero del Campo di grano, nel mistero de Le visage humain, del volto umano in cui tutto si disegna, in cui tutto sta: il tempo, l’esistenza, la morte e perfino una distesa di grano sotto cieli turbati. 

IL SEGRETO DI MANET
IL SEGRETO DI MANET
Franco Rella