15. Il quadro è tagliato poco oltre la metà dalla linea frastagliata del grano, che disegna un ondulato orizzonte, che si spinge verso il cielo. Quasi al centro, ma spostata un poco a destra, la linea s’infossa, s’avvalla, incuneandosi in una frazione di vuoto dentro il grano. Riguardo attentamente. In effetti il quadro non ha centro. La frattura sulla linea dell’orizzonte è certamente spostata verso destra, là dove il cielo si confonde e da dove sembrano emergere nugoli di corvi. Dentro questa frattura, o questo avvallamento, si spinge fino a riempirlo una macchia più chiara, che campeggia nel cielo. Il punto sembra coincidere con il vertice del sentiero centrale che attraversa il grano. Ma subito ci si accorge che non solo il sentiero si interrompe prima di toccare l’orizzonte, ma che il suo vertice si chiude dopo un spostamento a destra che lo pone fuori asse rispetto al triangolo vuoto che si incunea dentro il grano. Davanti alla macchia più chiara, che dal cielo si spinge fin dentro il campo, vola uno stormo di corvi. Provengono da destra di chi guarda. Il corvo più grande vola al centro di una seconda macchia più chiara posta circa a metà tra la prima macchia e il bordo sinistro del quadro. Nello spazio tra le due macchie volano altri corvi. Le loro ali formano la doppia iniziale di Van Gogh, V(incent) W(illelm). Li conto più volte e il conto sembra non tornare mai.
Alla fine decido che a sinistra della macchia più grande, che sta quasi al centro del quadro, volano sette corvi, a destra trentuno. Li ho contati e ricontati e mi sono fermato alla fine su questa cifra, forse perché la somma mi dà l’età di Vincent, che stava in quel momento vivendo il suo trentottesimo anno di vita. Certo, dall’estremo angolo di destra del quadro emergono altri corvi, molti altri corvi. Ma non sono neri: sono azzurri, chiari, appena segnati, appena visibili, quasi non fossero anni vissuti, ma anni solo possibili, anni potenziali rispetto ai terribili trentotto anni della sua terribile vita vissuta.
I corvi volano tutti verso l’esterno del quadro, verso chi guarda il quadro, verso il testimone che Vincent ha chiamato a questo sguardo. Il cielo è bluastro, ed è segnato da zone nere che s’infittiscono nei bordi in alto a destra e a sinistra, e poi tra le due macchie chiare, e infine in alto, sopra la macchia chiara più grande. Mi pare che non si tratti di un colore, il nero, ma della progressiva sottrazione attraverso il nero di ogni colore rispetto a tutti i quadri che Vincent ha dipinto, soprattutto i notturni di Arles che presentano un’oscurità sovraccarica di colore. Forse si tratta di quella sottrazione che Vincent aveva tentato con altra tecnica nel suo autoritratto “quasi scolorito”. Non ci troviamo dunque di fronte ad una oscurità luminosa, che ha una sua propria luce, di cui Vincent ci ha dato un esempio straordinario nei Mangiatori di patate, e nemmeno a quella che emerge misteriosamente anche dai quadri in cui Rembrandt ha reso visibile la sua percezione della notte e della morte. Qui il nero è opaco e invade e distrugge ogni luce. È un nero che affonda le immagini. È il nero che Vincent temeva, quando per esempio aveva scritto a Theo il 29 nell’aprile del 1890 che il quadro dei Mangiatori forse si era inabissato, che forse era diventato invisibile. Che era necessario ridipingerlo per salvarlo.
Il campo di grano è solcato da tre sentieri, che hanno un’ampiezza straordinaria, e coprono una superficie probabilmente equivalente a quella coperta dal grano. Quello di destra finisce quasi orizzontalmente fuori del quadro. A questo punto mi pare una scelta stranamente logica, inevitabile e inaggirabile.
Il lato destro finisce nell’oscuro. È il luogo da cui si generano i corvi: è il lato dell’ignoto. È un sentiero diverso dagli altri due, che sono segnati da un ampio bordo verde, mentre questo è nudo, senza margini.
Gli altri due sentieri si diramano da una stessa base e si aprono anch’essi in una V. Se l’osservazione che le ali dei corvi formavano una V e una W, le iniziali di Vincent Willem, poteva essere stata una mera ipotesi, ora sono certo. Vedo che la V formata dai due sentieri è la stessa V della firma Vincent, che ho visto all’angolo di molti dei suoi quadri. L’ampia orlatura verde di questi due sentieri è segnata qua e là da alcuni tratti neri. Il fondo dei tre sentieri, macchiato di qualche traccia gialla e, in quello di destra, verde, della stessa tonalità di verde che fa da argine agli altri due sentieri, è un opaco color mattone. È lo stesso colore che troviamo nelle Radici d’albero dipinto nello stesso periodo, che è il quadro più contorto e spezzato che Vincent abbia dipinto. È un colore che compare solo ad un certo punto della vita di Van Gogh. È il colore di quadri dipinti tutti nello stesso periodo, gli oliveti, l’uomo che ci gira la schiena nella copia della Veglia di Millet, e il giardino del manicomio di Saint-Rémy. È il colore emerso davanti ai suoi occhi a Saint-Rémy. È il colore di Saint-Rémy. È il colore della follia che conduce in nessun luogo.
Questo colore segna a tratti, che sembrano quasi ali di corvo o delle V rovesciate, la distesa di grano, infittendosi via via che ci avviciniamo alla linea dell’orizzonte, via via che ci avviciniamo alle due macchie più chiare. Non è la tempesta, di cui non ci sono tracce, sono questi sentieri che devastano il grano, e lo contaminano con il loro colore, come se il colore della follia invadesse l’umanità, che Van Gogh aveva già assimilata al grano parlando del Falciatore. Il campo di grano è un grumo caotico retto da una lucida logica. È impossibile scoprire dove si muova il grano umanità, in quale direzione lo spinga o lo abbia spinto il vento. È l’umanità stessa che implode verso il suo nulla sotto gli occhi di un morente, che la guarda e l’osserva mentre il suo sguardo si spegne. Le due macchie chiare sono infatti gli occhi di Vincent che si guarda morire e che descrive la sua stessa morte, mentre, insieme alla luce dei suoi occhi che presto si spegnerà nel magma buio del cielo quando i corvi saranno finalmente volati via fuori del quadro, l’umanità stessa affonderà nell’oscurità di una solitudine e di una tristezza che sono giunte al limite estremo: a un non oltre, a un non più. Guardo il quadro e, guardando il quadro, fisso gli occhi di Vincent nel suo ultimo autoritratto, quello che nessuno ha riconosciuto come tale.
Vincent aveva invitato Theo e sua moglie Jo a porsi davanti a questo quadro ad osservare questa umanità che sprofonda nel buio e nel dolore, nella solitudine e nella morte. Vincent ha chiesto che qualcuno lo cercasse dentro questo quadro, dentro questa solitudine e dentro questa morte imminente. Ora ci sono io davanti a lui, e scopro, con chiarezza sempre più grande e sempre più straziante, il luogo in cui Vincent si è posto, e vedo i suoi occhi, che ho visto in tanti autoritratti, che diventano opachi, che diventano vitrei e ciechi sulle soglie della morte.
Nemmeno Rembrandt era giunto a tanto, anche se aveva sfiorato, come Vincent aveva capito, questo limite. Nessuno, in letteratura o in pittura, è mai riuscito a rappresentare la sua propria morte. Tutti sappiamo di dover morire, ma nessuno di noi sa la propria morte. Sapendola e dipingendola Vincent ha fatto qualcosa che tutti avvertono oscuramente in lui, al di là dei libri di storia dell’arte, dei saggi critici, delle graduatorie d’asta o dei musei.
Sofocle a conclusione dell’Edipo re ha scritto che il destino di un uomo si scopre a partire dalla sua fine. Vincent nella sua fine ha scoperto il suo destino, e paradossalmente ha raggiunto, nell’immensa V che si apre nel campo di grano, una sua dimensione, la dimensione di una grandezza a cui prima non aveva mai creduto. Forse Vincent, che ha visto e vissuto e descritto la sua vita e la sua morte, è l’unico di noi che abbia conosciuto interamente se stesso, che possa realmente e legittimamente dire Io. Quell’io che Artaud aveva disperatamente cercato nel mistero del Campo di grano, nel mistero de Le visage humain, del volto umano in cui tutto si disegna, in cui tutto sta: il tempo, l’esistenza, la morte e perfino una distesa di grano sotto cieli turbati.