Dato che alcuni tratti della cultura olmeca (i calendari, i sistemi di scrittura ideografico-fonetici, certi stilemi artistico- architettonici, alcune divinità e il gioco della palla che, ovviamente, aveva connotazioni religiose più che sportive) finirono per imporsi al resto della Mesoamerica, la cultura olmeca è un po’ considerata la “madre delle culture mesoamericane”. Verso il 300 a.C., per quanto Tres Zapotes fosse ancora nel pieno del suo splendore, i tratti distintivi di questa cultura cominciarono a sfumare, per poi scomparire del tutto. Più che ad avvenimenti traumatici (guerre ecc.), che, peraltro, non si possono escludere, è probabile che quella che a noi sembra un’inspiegabile scomparsa non sia altro che una semplice e lunga trasformazione.
Lungo la Costa del Golfo si svilupparono le culture epiolmeche, a cui si devono due invenzioni destinate ad avere molto peso soprattutto tra i maya del periodo classico: il Conto lungo (un calendario che nella sua versione più comune presentava un ciclo di 5125,3661 anni) e le stele che raccontavano le “res gestae” e le genealogie dei sovrani.
Nella mostra, curata da Cora Falero Ruiz del Museo Nacional de Antropología di Città del Messico e da Steve Bourget del Musée du Quai Branly - Jacques Chirac, sono esposte circa trecento opere, che non documentano solo la cultura degli olmechi, ma anche quella delle altre popolazioni della Costa del Golfo che vennero dopo di loro.
Da questo punto di vista, però, è doveroso osservare che le scelte dei curatori sono alquanto discutibili, sia perché la scansione cronologica non è presentata in modo chiaro, sia, soprattutto, perché alcune di queste culture sono rappresentate in modo assolutamente insoddisfacente. Uno dei casi più clamorosi è quello della cultura Veracruz del periodo classico (300-900), che, pur avendo prodotto migliaia di opere di straordinario livello, è decisamente sottorappresentata.
Il percorso espositivo si sviluppa in cinque aree tematiche: “Gli olmechi”, “Lingue e scritture”, “Donne e uomini del Golfo”, “Offerte”, “Scambi”.
Tra le opere più significative dell’arte olmeca, un posto di primo piano sicuramente spetta alla Testa colossale 4 di San Lorenzo, una delle diciassette sculture analoghe (arrivano a quasi due metri), che sono una tipologia tipica ed esclusiva degli olmechi. Esse rappresentavano, probabilmente, teste di re raffigurati col naso camuso e le labbra carnose con le commessure tirate verso il basso, un elemento, quest’ultimo, tipico dell’arte olmeca.
Accanto alla Testa colossale 4 è doveroso segnalare che la mostra del Musée du Quai Branly - Jacques Chirac presenta altre opere che da sole meriterebbero il viaggio per le loro qualità artistiche o per la loro importanza archeologico-antropologica. Tra queste si deve segnalare il Signore di Las Limas, una scultura, scoperta solo nel 1965, che fu dapprima usata come utensile e poi come “matrona” in una chiesa. Raffigura un personaggio che tiene in braccio un bambino pardiantropo inanimato ed è la più bella rappresentazione del tema dell’offerta del bambino (come è noto, in alcune culture della Mesoamerica i bambini venivano sacrificati agli dei della pioggia).
Accanto a questa opera si possono collocare gli Azuzules, gruppo di quattro sculture che in origine, probabilmente, rappresentavano i protagonisti di un mito cosmogonico: due felini in parte antropomorfizzati e due personaggi che stanno per sollevare il bastone che consente di separare il cielo dalla terra.
Un altro gruppo di reperti unico al mondo è costituito dall’Offerta 4 di La Venta: una scena con sedici figurine e sei stele in miniatura, il cui posizionamento, cosa straordinaria nell’ambito delle mostre sulle culture preispaniche, non è dovuto all’immaginazione di qualche esperto di allestimenti museali, ma agli stessi sacerdoti di La Venta.
Tra i pezzi che eccellono per via delle loro qualità artistiche emergono in particolare due dei capolavori dell’arte olmeca: il bambino paffuto scoperto a Tlapacoya e il cosiddetto Lottatore di Uxpanapa, che, nonostante il nome, potrebbe rappresentare uno sciamano in una postura che evoca i movimenti atti a portare alla trance. Purtroppo, però, queste opere non sono valorizzate in modo adeguato, perché la mostra ignora rigorosamente la tematica delle attribuzioni.
Da questo punto di vista, prendendo in esame i reperti in mostra a Parigi con le categorie interpretative della storia dell’arte, si può concludere che nell’arte olmeca coesistono, tra le altre, due macrocorrenti artistiche molto diverse: quella del naturalismo idealizzato e quella dell’espressionismo astratto.
E dato che recentemente il famoso archeologo nippo-statunitense Takeshi Inomata, commentando le scoperte fatte ad Aguada Fénix, un sito collocato tra l’area olmeca e quella maya, ha scritto sulla prestigiosa rivista “Nature” che «l’immagine naturalistica di un animale contrasta con l’arte olmeca» non rimane che ribadire che la conoscenza degli strumenti analitici della storia dell’arte è indispensabile anche per gli archeologi.