Pagina nera


C’È UNA GRANDE
QUERIMONIA

DIETRO AI MARMI
DEI TORLONIA

Tante vicende poco chiare attorno a una delle più rilevanti collezioni private di arte antica. Seicentoventi opere conservate, dal 1876, in un museo ma, dagli anni Settanta del secolo scorso, Finite nei depositi. Un accordo fra Stato e famiglia torlonia prevede la nascita di un nuovo museo. Ma quel patto, a oggi solo sulla carta, è preceduto da fatti inquietanti che hanno coinvolto perfino famigerati mercanti di antichità.

Fabio Isman

La famiglia che dal 1853 bonifica il Fucino, impresa tentata più volte invano a partire da Giulio Cesare, possedeva cento ritratti in marmo: busti imperiali, donne famose, personaggi qualunque. Nella mostra a Roma, di cui Sergio Rinaldi Tufi parla nelle pagine precedenti, se ne vedono in tutto ventitre, restaurati da uno sponsor, Bulgari, perché chissà se i proprietari avrebbero mai compiuto l’intervento. La collezione comprende seicentoventi antichità; ma a villa Caffarelli, luogo dell’esposizione romana, ne sono finite appena novantadue. L’accordo stipulato dalla Fondazione Torlonia con lo Stato nel 2016 contempla un futuro museo per la raccolta, in una sede individuata «d’intesa» tra le parti; ma i colloqui per l’«intesa» non sono nemmeno iniziati: quindi, vattelapesca quando si concreterà. Insomma, finora, abbiamo potuto rivedere soltanto il quindici per cento circa del più favoloso insieme privato di marmi greci e romani che esista al mondo: è appena un primo passo, non è certo un trionfo. Non solo: da oltre mezzo secolo, la collezione è al centro di “querelles” anche in tribunale; e di parentesi ed episodi oscuri, che non sono ancora archiviati. Carlo, il primogenito tra gli eredi, sostiene di essere stato defraudato, dopo che, nel 2017, è morto il padre Alessandro: ci sono stati anche dei sequestri, poi revocati. Un tempo si diceva: «O i Torlonia prosciugano il Fucino, o il Fucino prosciugherà i Torlonia». Ora la banca di famiglia, che reca il nome del bacino bonificato e di cui Carlo è stato anche vicepresidente finché il padre l’ha voluto, non è più florida come un tempo; e forse qualche rischio di impoverimento, se non di prosciugamento almeno parziale, potrebbe esistere. 

Ma questa è soltanto l’ultima delle “grane” che hanno colpito la collezione. La nascita ufficiale del museo in cui era conservata data al 1876: in un ex opificio per la lana, vicino a Porta Settimiana. Erano settantasette stanze: ce n’è ancora la pianta. Non era un vero e proprio museo: piuttosto, un tempio. Non vi entrava tutto il pubblico: solo le persone gradite; in certe foto del conte Giuseppe Primoli si vedono anche dei rari visitatori: donne con il cappellino, uomini in bombetta o cilindro. Si racconta che, per ammirare quelle opere, Ranuccio Bianchi Bandinelli si sia dovuto travestire da netturbino, e chissà se è vero, considerato quel certo snobismo di cui egli è accreditato. 

Le guide del tempo descrivono quel luogo, con le statue poste su basi in legno, a simulare il granito rosa, e suddiviso in settori: all’inizio, erano gallerie e corsie, e compartimenti. C’erano la Sala arcaica, quelle degli “atleti” e dei “sarcofagi”, una con gli affreschi dalla Tomba François di Vulci (Viterbo). Però, all’inizio degli anni Settanta del Novecento, senza dirlo a nessuno e senza permessi, con una licenza per rifare il tetto, quelle settantasette sale diventano novantanove miniappartamenti. E la collezione è rinchiusa in locali adibiti a depositi, le statue una accanto all’altra, e per giunta ben vigilate con scarsa spesa, perché, al di là del muro, c’è una caserma di carabinieri. E così è rimasta: un tesoro d’antichità sottratto a generazioni di visitatori e di studiosi. Quantunque Alessandro Poma Murialdo, nipote del principe Alessandro Torlonia, che presiede la fondazione creata dal nonno poco prima di andarsene, presentando la mostra abbia parlato di «rigorosa tutela» da parte della famiglia. Ricordo ancora gli affreschi della Tomba François, nella “coffee house” a villa Albani poi Torlonia appena restaurata, malamente avvolti da fogli del “Messaggero” del 1954, e Antonio Giuliano, famoso archeologo, che diceva a don Alessandro: «Principe, scusi, ma non si tengono così le cose». In seguito, sono stati restaurati e, pur se poche volte, anche esposti.


Ritratto di fanciulla da Vulci (50-40 a.C. circa). Questa e le altre opere qui riprodotte fanno parte della collezione Torlonia e si riferiscono alla mostra I Marmi Torlonia. Collezionare Capolavori (Roma, Musei capitolini, villa Caffarelli, fino al 29 giugno), qui alle pp. 68-73.


Visitatori nel museo Torlonia in una foto del conte Primoli.

La sparizione del museo produce un grande clamore. Il processo per l’abuso edilizio è prescritto. Antonio Cederna, quando è senatore, chiede invano l’esproprio dell’intera raccolta


Sta di fatto che la sparizione del museo produce un grande clamore. Il processo per l’abuso edilizio è prescritto. Antonio Cederna, quando è senatore, chiede invano l’esproprio della raccolta. Le trattative per un acquisto non vanno mai in porto: solo a parole, se n’era interessato anche Berlusconi; pare che Emmanuele Francesco Maria Emanuele, per la Fondazione Roma, avesse proposto centotrenta milioni di euro, e il Vaticano quasi una decina per gli affreschi etruschi più belli al mondo, con le Storie di Mastarna, il futuro Servio Tullio, e Vel Saties (i corredi del sepolcro sono tuttavia al Louvre). I Torlonia vendono soltanto, per un miliardo allora di lire, quanto è stato ripescato dal Fucino: elmi di varie stagioni, armi, suppellettili, anche il più grande rilievo imperiale romano di una città, del II secolo, ora al castello Piccolomini di Celano (L’Aquila), divenuto un museo. 

Ma la parentesi forse più oscura (e dolorosa) della collezione è databile a poco prima dell’accordo con lo Stato italiano. La Phoenix Ancient Art dei fratelli libanesi Hicham e Ali Aboutaam, mercanti d’antichità a New York, Ginevra e Bruxelles, ben noti alle inchieste del compianto magistrato Paolo Giorgio Ferri sulla “grande razzia” di beni provenienti dal sottosuolo della penisola, il 12 gennaio 2017 presenta a una Corte giudiziaria americana un atto, in cui pretende settantasette milioni di dollari, pari a sessantatre milioni di euro: la provvigione per la mancata vendita al Getty Museum di Los Angeles dei marmi Torlonia, valutati «da trecento a cinquecento milioni di dollari», quattrocento milioni e rotti di euro. I fratelli Aboutaam raccontano di una visita ai Torlonia, a Roma, del direttore del museo americano; dicono di avere catalogato, in mesi di lavoro, la raccolta, dopo il famoso volumone di Carlo Ludovico Visconti nel 1876: il primo al mondo di una collezione privata con tutte le immagini, in fototipia. L’idea era che il Getty Museum acquisisse la raccolta, per collocarla in un palazzo di Roma: quello Mancini a via del Corso, che è in vendita; e con una serie di mostre, da lì ne esportasse poi, temporaneamente, i capolavori in tutto il mondo. 

I fratelli libanesi affermano che dopo, e violando i segreti, sono stati estromessi dall’operazione di disvelamento di un insieme tanto a lungo precluso. Manca una sentenza che dia loro ragione; ma la cronistoria è minuziosa, puntuale, e quanto mai dettagliata. È soltanto l’ultimo «pasticciaccio brutto» che coinvolge una collezione, per qualcuno addirittura «pari a un buon terzo del patrimonio antico posseduto dalla città di Roma», e che, già per Visconti, «di gran lunga eccedendo i limiti d’ogni privata raccolta, più non trova paragone, se non solo nelle sovrane e pubbliche collezioni, che insigni sono nel Vaticano e nel Campidoglio», le quali potrebbero invidiarne «non pochi degli oggetti», e «non senza giusta ragione». Ma di tutto ciò, e lo si può ben capire, il pur lussuoso catalogo dell’esposizione accuratamente non fa parola.


Statua di divinità con peplo, detta Hestia Giustiniani, replica del 120-140 d.C. circa da originale del 470-460 a.C.


Veduta dell’esposizione romana con alcuni dei ventitré ritratti restaurati per l’occasione da uno sponsor, Bulgari.


Veduta dell’esposizione romana con alcuni dei ventitré ritratti restaurati per l’occasione da uno sponsor, Bulgari.

ART E DOSSIER N. 385
ART E DOSSIER N. 385
MARZO 2021
In questo numero: IN MOSTRA: Signac a Parigi; La collezione Ramo a Houston; Olmechi a Parigi. MARMI DI TORLONIA: Vita complicata di una grande collezione. COSA CI DICE IL VOLTO: Della Porta e la fisiognomica; il filosofo di Porticello; gli autoritratti di Francesca Woodman. CONTEMPORANEI TRANSNAZIONALI: Le non-sculture di Lee Seung-Taek, Alighiero Boetti e Salman Ali. Direttore: Claudio Pescio