UN AVVINCENTETEATRO FILOSOFICO

Nel 1730, viene pubblicato un articolo sul “County Journal”, a firma di William Hogarth,

in cui l’artista annuncia una sottoscrizione per sei incisioni, con i corrispettivi dipinti, che avranno come soggetto la triste parabola di una giovane ragazza. 

Hogarth esegue sei dipinti e, successivamente, incide altrettante lastre. Le tele le acquista il facoltoso William Beckford, la cui famiglia possiede vasti poderi in Giamaica, il quale nel 1762 viene eletto anche Lord Major di Londra; ma durante un incendio nella sua residenza di Font Hill, nel 1755, le opere di Hogarth andranno distrutte. 

Nella prima stampa, una ragazza, giunta dalla campagna, è accolta da una affabile, anziana signora. Ronald Paulson ha letto l’intera serie come una parodia messa in scena da Hogarth di noti soggetti cristiani. Nell’arrivo della ragazza della campagna in città, l’eminente studioso sostiene che Hogarth avrebbe qui beffardamente emulato la Visitazione della Vergine Maria a Elisabetta, incisa da Albrecht Dürer nel 1504.


Tavola 1 dalla serie La carriera di una prostituta (1732); New York, Metropolitan Museum of Art.


Peter Lely, Ritratto di Louise de Kérouaille (1674 circa); Los Angeles, J. Paul Getty Museum.

Nella seconda scena, la ragazza, seguendo i torbidi precetti dell’anziana, è già divenuta una cortigiana. L’interpretazione che di questo episodio dà la storiografia dedicata a Hogarth è unanime: la giovane traviata, rovesciando con una pedata un tavolino da caffè, distrae l’uomo accanto a lei, un facoltoso mercante, permettendo, allo stesso tempo, al giovane amante, nel fondo, di lasciare indisturbato il salotto aiutato dalla domestica. La circospezione con cui il presunto ricco corteggiatore stringe la tazzina di caffè tra le dita, affinché non vada distrutta nel ribaltamento del tavolino, dovrebbe essere letta alla luce di una chiave interpretativa che l’artista suggerisce allo spettatore per la piena comprensione della propria opera. Occorre quindi ricordare che nella seconda metà del Seicento, in Inghilterra, erano proliferate le “coffee-house”, locali in cui si sorbiva caffè, quell’esotico “liquore” che era stato appena importato dalla Turchia. 

E nel 1674, venne sottoscritta e inviata al re Carlo II Stuart una petizione firmata da un comitato di donne, le quali chiedevano fermamente la chiusura delle “coffee-house”, adducendo il motivo che i propri mariti, frequentandole assiduamente, tornavano ogni notte alle proprie abitazioni con le barbe impregnate di tabacco, il fisico debilitato e soprattutto privi del vigore necessario per ottemperare agli obblighi matrimoniali: «Poiché ogni donna, dal momento in cui si sposa ed accede al sacro letto matrimoniale, si attende dal proprio marito un caldo abbraccio che dia una risposta alla legittima passione di lei, lei stessa invece si accorge soltanto di avere accanto un corpo ruvido e inerte come una pietra pomice». 

L’anno successivo, nel 1675, Carlo II manifestò l’intenzione di chiudere le “coffee-house”, in quanto luoghi in cui si tramavano congiure contro la Corona; ma il re, quando s’avvide che la nobiltà era contraria alla chiusura di quei locali, cambiò idea, lasciandole aperte. 

Carlo II aveva capigliatura e carnagione di un nero corvino, tratti che gli conferivano un aspetto esotico, tanto che la madre, la francese Enrichetta Maria, lo chiamava «my black boy» (il mio ragazzo nero). Hogarth, raffigurando in questa seconda stampa un fanciullo di colore, a destra della “coppia” cortigiana-ricco corteggiatore, avrebbe alluso proprio al nomignolo di Carlo; anzi, lo stesso Carlo sarebbe ritratto nell’agiato mercante, come attesterebbe un ritratto giovanile del sovrano, realizzato da Philippe de Champaigne. Inoltre, con l’abbondante scollatura della cortigiana, Hogarth avrebbe alluso al ritratto (probabile) di una delle numerose amanti del re - ne aveva almeno undici -, l’avvenente Louise de Kérouaille, francese e cattolica.


Tavola 2 dalla serie La carriera di una prostituta (1732); New York, Metropolitan Museum of Art.

Philippe de Champaigne, Ritratto di Carlo II Stuart (1653); Cleveland, Cleveland Museum of Art.


Tavola 3 dalla serie La carriera di una prostituta (1733); New York, Metropolitan Museum of Art.

Nella terza scena, la cortigiana viene arrestata da delegati del Parlamento, che irrompono nella stanza da letto. Lo scrittore Henry Fielding, quando nel 1749 darà alle stampe Tom Jones, rivelerà come il personaggio di Mrs Partidge fosse stato desunto dalla domestica qui tratteggiata da Hogarth, che serve la colazione alla giovane traviata: «Questa donna non aveva in verità un aspetto molto amabile. Non so con certezza se servisse di modello al mio amico Hogarth: ma certo assomigliava in modo impressionante alla giovane donna che versa il tè alla padrona nel terzo quadro della Storia della prostituta». 

Nella quarta stampa, la donna varca la soglia della prigione. Impugna un martello con cui deve battere la canapa - riferimento alla corda utilizzata per l’impiccagione - contro un ceppo di legno, che invece allude alla decapitazione. 

Nella quinta stampa, il triste epilogo: come le macchioline affiorate sul volto hanno lasciato presagire, il morbo venereo della sifilide si è appropriato del corpo della sventurata. Lì attorno, i sussiegosi medici disputano su quale rimedio adottare per limitarne le sofferenze, mentre la domestica, approfittando dello stato in cui versa la moribonda, trafuga degli abiti dalla cassapanca. Accanto alla madre morente - il cui volto con gli occhi socchiusi ricorda il deliquio della Santa Teresa di Bernini - il figlio si spulcia, davanti al focolare. 

Nella sesta scena, il funerale. A sinistra, si vede il pastore anglicano che insinua trivialmente la mano tra le vesti d’una giovane donna: ben presto, la sifilide renderà giustizia di questo sordido atto, giacché anche costei è affetta dal morbo. 

Un’amica della defunta, in fondo a destra, specchiandosi, nota sul proprio volto le funeree pustole. La bara in cui giace l’ex ingenua campagnola fornisce un piano per il banchetto dei convenuti; e l’unica nota di gaudio e di speranza è il figlio della poveretta che, pasciuto e ben vestito, si balocca con un giocattolo.


Tavola 4 dalla serie La carriera di una prostituta (1733); New York, Metropolitan Museum of Art.

Tavola 5 dalla serie La carriera di una prostituta (1733); New York, Metropolitan Museum of Art.


Tavola 6 dalla serie La carriera di una prostituta (1733); New York, Metropolitan Museum of Art. Hogarth non esprime alcun giudizio morale su questo triste epilogo: la giovane campagnola è anzi ritratta con un aspetto ascetico, come se la sua dissoluta esistenza fosse stata redenta dalla sofferenza patita in punto di morte; mentre il figlio, che si spulcia accanto al fuoco, sembrerebbe prefigurare un personaggio di Charles Dickens.

Alla data del 1731 Hogarth dipinge Una recita di bambini in casa Conduit

Nell’ampio salone, inondato da un caldo fascio di luce, la prole di rinomate famiglie recita La regina indiana, commedia di John Dryden e Robert Howard andata in scena quello stesso anno al Covent Garden Theatre. I padroni di casa sono effigiati all’interno di due quadri che Hogarth colloca in alto a sinistra: John e Catherine Conduit. Quest’ultima era la nipote di Isaac Newton. Lo scienziato, negli ultimi anni della sua vita, era stato direttore della Zecca di Londra, una carica che forse era stata favorita dall’intercessione di Catherine, la quale era legata da profonda amicizia con lord Montagu, influente nobile della città. Questi, infatti, è ritratto accanto alla nipote di Newton: si tratta del primo personaggio a sinistra, quell’uomo, in piedi, che sembra cercare il nostro sguardo. Al centro e in alto, infatti, domina la scena il busto di Newton medesimo, il quale aveva pubblicato nel 1704 il trattato Opticks, al margine del quale esprimeva la propria convinzione che «il libro della natura fosse stato scritto da un essere intelligente». Inoltre nel testo dimostrava, mediante un prisma acquistato in un mercatino, come la luce fosse composta da alcuni colori, che egli stesso conteggiò nel numero di sette, e che chiamò “primari”. 

Tornando al dipinto, le due fanciulle esattamente collocate al centro della composizione sono le figlie della regina Carolina e di re Giorgio: Luisa e Anna. La prima raccoglie un ventaglio caduto sul tappeto, un gesto tramite cui Hogarth forse rimanda alla legge di gravità scoperta da Newton; la seconda è invece avvinta dalla recita dei coetanei. E non sembra casuale che la luce discendente dal busto di Newton rivesta come un manto protettivo quella scena di vita e di teatro dove i personaggi indossano abiti i cui colori sono quelli medesimi individuati dal sommo scienziato come primari e che più comunemente chiamiamo colori dell’arcobaleno.


Una recita di bambini in casa Conduit (1731).


Tavola 1, L’eredità, dalla serie La carriera di un libertino (1733); Londra, Sir John Soane’s Museum.

Nel 1733 Hogarth esegue un’altra serie di otto incisioni, con altrettanti relativi dipinti, aventi per tema La carriera di un libertino, in cui è descritta la parabola di un giovane divenuto facoltoso in virtù dell’eredità paterna. 

Nel primo dipinto, la casa del padre defunto rivela tesori nascosti ovunque: argenteria nel camino e nelle casse, monete dentro i tendaggi. L’erede è richiamato ai propri doveri dalla madre della giovane, che è in stato interessante. Dalla tasca materna emerge una lettera, su cui leggiamo il nome della fanciulla: Sarah Young. Il nome del novello gentiluomo invece è appena leggibile su una delle bronzee targhe affisse sul muro: Tom Rakewell. “Rake”, in inglese, significa “prendere” o anche, nell’accezione più gergale: “arraffare”. Intanto, il maggiordomo paterno gli sottrae dei danari dalla bisaccia. 

Nel secondo dipinto assistiamo al risveglio - La levée - con uno stuolo di adulatori che offrono i propri servigi al padrone di casa. Costui presenta dei tratti somatici variati rispetto al personaggio della prima scena. Un particolare che lascerebbe pensare che Hogarth abbia ritratto in questo giovane un personaggio reale. A corroborare questa ipotesi concorrono quelle calzature di color rosso ciliegia, che indicherebbero un preciso riferimento iconografico. In un dipinto di William Aikman è ritratto presumibilmente Richard Boyle, III conte di Burlington, colui - lo ricordiamo - che sosteneva lo stile neopalladiano e che aveva progettato la propria residenza di Chiswick House, ispirata alla Rotonda dello stesso Palladio. Ebbene, in ambedue i dipinti, quello di Aikman e quello di Hogarth, i due personaggi rivelano una evidente affinità, nell’abbigliamento e nei tratti somatici, ma soprattutto sfoggiano delle calzature pressoché identiche. 

Tornando alla scena dipinta da Hogarth, alla sinistra del giovane, in quell’uomo attempato che porge al padrone di casa un foglio su cui è tratteggiato un progetto architettonico, sarebbe legittimo riconoscere Colen Campbell, l’architetto che terminò il progetto di Burlington House e del quale ci rimane un ritratto sensibilmente somigliante al personaggio effigiato da Hogarth. Osservando il progetto che l’architetto impugna, vi scorgiamo un edificio a pianta circolare che potrebbe riferirsi alla pianta di Chiswick House, l’elegante residenza ideata da lord Burlington, con quella forte eco palladiana che era stata divulgata in Inghilterra dal volume, scritto peraltro dallo stesso Campbell, intitolato Vitruvius Britannicus

A sinistra, sullo spartito aperto sul clavicembalo, si legge «Il ratto delle sabine». 

A margine della stessa pagina, leggiamo una F e una H, che potrebbero alludere a Friedrich Händel. 

La prima residenza londinese del compositore tedesco, prima di quella stabile in Brook Street, fu appunto in Burlington House, in cui venne ospitato da lord Burlington; al quale il musicista dedicò almeno tre opere: l’Amadigi, il Teseo e Il pastor fido. Coloro che attorniano il padrone di casa sono presumibilmente un insegnante di “quarter balls”, un gioco eseguito con dei lunghi bastoni, molto in voga tra la nobiltà del tempo; un maestro di danza, che infatti accenna un armonioso passo; e un uomo dall’aspetto furfantesco, che impugna una spada di cui, a un’attenta osservazione, scorgiamo soltanto l’elsa e non la lama.


Tavola 2, Il risveglio, dalla serie La carriera di un libertino (1733); Londra, Sir John Soane’s Museum.


Robert Boyle, Progetto di Chiswick House (1727).

William Aikman (attribuito), Ritratto di Richard Boyle, III conte di Burlington, col giardiniere James Scott, di fronte alla residenza di Chiswick House (anni Venti del XVIII secolo).


Johan Joachim Streng, Ritratto di Colen Campbell (1752); Göteborg, Stads Museum.

Nel dipinto successivo, Tom sperpera i propri averi in una locanda, tra donne scollacciate e affette da sifilide. Una donna, a sinistra, si sfila una calza; un’altra, a destra, sottrae l’orologio a Tom; mentre una coppia, scambiandosi scomposte effusioni, al centro, non s’avvede degli effetti smodati che il gin ha provocato in un’altra sbandata che, lì accanto, è intenta a bruciare una tela sul cui margine superiore sta scritto: «Totus Mundus», due parole latine che ricordano il motto apposto all’entrata dello shakespeariano teatro Globe: «Totus mundus agit histrionem» (Tutti recitano come se fossero attori). 

Nell’opera seguente, Tom è arrestato: Sarah Young è attonita e offre del denaro, tentando così di evitare la prigionia al proprio amato. 

Anche in questo caso, sarebbe legittimo ipotizzare che Hogarth abbia velatamente alluso a lord Burlington. Infatti, all’estrema destra, ai piedi del soldato, notiamo un modellino ligneo, una sorta di dado su cui poggia una semisfera, che potrebbe richiamare nuovamente il progetto di Chiswick House, edificio, come abbiamo detto più volte, derivato dalla Rotonda, che a sua volta lo stesso Palladio aveva progettato traendo spunto dal Pantheon romano. E infatti il cubo sormontato da un geoide tronco era una sorta di emblema architettonico per visualizzare il concetto di architettura neopalladiana. Alle spalle di Tom Rakewell, dietro un addetto al rifornimento di olio per le lampade cittadine che non s’avvede dell’olio che fuoriesce dalla caraffa, l’intera porzione sinistra del dipinto è occupata dalla facciata di un edificio, che credibilmente potremmo identificare proprio in Burlington House, come risulterebbe evidente da una tela di Antonio Visentini e Francesco Zuccarelli che la ritrae.


Tavola 3, La taverna, dalla serie La carriera di un libertino (1733); Londra, Sir John Soane’s Museum.

Tavola 4, L’arresto, dalla serie La carriera di un libertino (1733); Londra, Sir John Soane’s Museum.


Antonio Visentini e Francesco Zuccarelli, Veduta di Burlington House (1748); Windsor, Royal Collection Trust.

Tavola 5, Il matrimonio, dalla serie La carriera di un libertino (1733); Londra, Sir John Soane’s Museum.


Tavola 6, La bisca, dalla serie La carriera di un libertino (1733); Londra, Sir John Soane’s Museum.

Nella scena successiva, Tom è ormai privo di averi: per questa ragione, è costretto a sposare una ricca e anziana vedova, mentre la miserevole Sarah Young rifinisce il vestito della facoltosa megera. 

Nella sesta tela, Tom sperpera il rimanente dei propri averi in una malfamata bisca. 

Tom, infine, è tradotto in prigione. Sarah Young è straziata e accudita da energiche donne, mentre il libertino non è più attorniato da servizievoli lacchè, ma è insidiato da loschi figuri, come l’adolescente che gli chiede denaro per la pinta di birra che gli ha appena offerto. 

Da ultimo, la caduta nell’abisso: il manicomio. A sinistra, mentre un povero mentecatto indossa una camicia simile a quella indossata da William Shakespeare nei suoi ritratti più noti e un altro farnetica, indossando un libro a mo’ di cappello, dal fondo, due nobildonne lanciano lascive occhiate al decaduto. Accanto a Tom, la caritatevole Sarah Young. 

È interessante notare come in questi ultimi due dipinti - La prigione e Il manicomio - le sembianze di Tom Rakewell siano diverse: nella figura del libertino, prima arrestato e poi internato, non riconosciamo infatti, come altrove, il probabile ritratto di lord Burlington. 

Nel 1733, Hogarth, grazie all’intercessione del suocero James Thornhill, si reca nella Fleet Prison per ritrarre Sarah Malcolm, una domestica condannata all’impiccagione con l’accusa di triplice omicidio e furto ai danni di tre donne, due anziane e un’adolescente. A tre giorni dall’esecuzione, Hogarth esegue un ritratto, in cui tenta di leggere sul volto della donna quell’innocenza che ella strenuamente professa. La ritrae insolitamente fiera, serena e col rosario sul tavolo. 

All’artista si deve anche un importante provvedimento. Hogarth raccontava di quando, passeggiando un pomeriggio per le vie del centro, si era imbattuto in una propria stampa, rivenduta da un rigattiere a un costo maggiorato rispetto al prezzo che lui stesso precedentemente aveva stabilito. Questa circostanza lo spinse a richiedere al Parlamento una legge sul diritto d’autore: quella infatti che venne emanata nel 1734 col nome di Licensing Act, ma che ancor oggi, per via di colui che ne promosse il varo, è comunemente chiamata Hogarth Act.


Tavola 7, La prigione, dalla serie La carriera di un libertino (1733); Londra, Sir John Soane’s Museum. Al solito, Hogarth non si compiace dell’amaro destino dei propri personaggi; e verrebbe da credere che, nello sgomento dipinto sul volto del libertino, Hogarth abbia evocato lo sconforto provato anche da suo padre, il letterato Richard Hogarth, quando era stato recluso nella Fleet Prison per debiti insoluti.


Tavola 8, Il manicomio, dalla serie La Carriera di un libertino (1733); Londra, Sir John Soane’s Museum.

Un decreto col quale il Parlamento vietava qualsiasi riproduzione non autorizzata di una stampa e la relativa vendita. 

Un altro ritratto di Hogarth è quello di Thomas Coram: un capitano della marina mercantile che aveva trascorso buona parte della propria esistenza andando per mare, dove aveva accumulato una fortuna col commercio di catrame, soprattutto nelle Americhe. Coram, ogni qual volta cammina lungo le strade londinesi, è tristemente impressionato dalla torma di fanciulli mendicanti che affollano la città; per questa ragione, si sente in dovere di creare un ricovero in cui questi piccoli derelitti siano curati e istruiti. Si rivolge allora alle famiglie nobili e influenti, domandando fondi per la costruzione di un ospedale. Ventuno donne, come le definisce Coram, di «qualità e distinzione», aderiscono al progetto del capitano; tra queste, figura Ann Vaughan, la quale, nonostante sia stata abbandonata da lord Bolton per l’attrice Lavinia Fenton, fornisce un autorevole esempio di generosità, emulato poi dalle altre nobildonne; un’altra di esse è Dorothy Savile, la moglie di lord Burlington. Nel ritratto, eseguito da Hogarth nel 1739, il capitano Coram mostra orgogliosamente il sigillo dell’ospedale, disegnato dallo stesso artista, e rivela una postura che risente dell’ascendenza di alcuni ritratti di Hyacinthe Rigaud. Nel 1749, Georg Friedrich Händel dirige il celebre Messiah nel teatro del Foundling Hospital - questo il nome dell’ospedale fondato da Coram - a cui lascia inoltre in eredità lo stesso spartito musicale, che ancora oggi è l’inno ufficiale della caritatevole istituzione. 

Alla data del 1743, Hogarth pubblica un articolo sul “Daily Advertiser”, in cui informa dell’esposizione delle sue opere nella propria abitazione di Leicester Fields. Ma i lavori saranno venduti, per la modesta somma di centoventicinque ghinee, soltanto nel 1750. Per incentivare la sottoscrizione, ovvero la prelazione da parte degli acquirenti, Hogarth realizza l’incisione Caratteri e caricatura, mediante la quale mostra, come appunto il titolo medesimo della stampa recita, la differenza tra il “carattere” e la “caricatura”: il primo è un tratteggio realistico di un volto, mentre la seconda, adottando caratteristiche somatiche accentuate, rivela la natura più intima dell’effigiato. Come esempio, Hogarth delinea un volto desunto dai cartoni di Raffaello per la Sistina, per rappresentare il carattere; un disegno tratto da un foglio di Pier Leone Ghezzi (1674-1755), per profilare la caricatura; e due ulteriori esempi: un ritratto di Annibale Carracci e una caricatura di Leonardo.


Ritratto di Sarah Malcolm (1733); Edimburgo, National Gallery of Scotland.

Ritratto del capitano Thomas Coram (1739); Londra, Foundling Hospital.


Caratteri e caricature (1743); Washington, National Gallery of Art.

Nel primo dipinto relativo al Matrimonio alla moda, una serie di sei tele eseguite da Hogarth nel 1745, assistiamo al contratto matrimoniale concordato tra un ricco mercante, al centro, imparruccato e occhialuto, e un nobile caduto in disgrazia, seraficamente seduto all’estrema destra del dipinto. Dalla parte opposta del salotto, la futura sposa, ovvero la figlia del mercante, dondola tristemente un fazzoletto introdotto all’interno delle fede nuziale, mentre un avvocato la consola, affilando metaforicamente la punta di una penna. 

Infine, l’ultimo personaggio a sinistra, l’imminente marito, dedica la propria attenzione a rimirarsi in uno specchio, mentre sniffa del tabacco da fiuto. In questa prima scena col Contratto di matrimonio, nelle vesti del padre dello sposo, Hogarth ha ritratto presumibilmente l’amico Henry Fielding. Nel 1793, John Ireland pubblica Hogarth illustrated. All’interno del voluminoso libro v’è una stampa, tratta da un ritratto di Fielding eseguito da Hogarth, nella quale affiora l’accentuata affinità col personaggio del dipinto. Dalla biografia di Fielding, inoltre, apprendiamo che egli soffriva di gotta, al pari della nostra figura, che infatti ha il piede visibilmente fasciato. In un dipinto, inoltre, facente parte di una serie lasciata incompiuta da Hogarth, Il matrimonio felice, ritroviamo ancora un indubbio ritratto dello scrittore: si tratta di quell’uomo, al centro, che alza il calice e che la penombra non impedisce di rivelarsi sensibilmente simile al padre della sposa nel Contratto.


Ritratto di Henry Fielding, dal volume Hogarth Illustrated (1793) di John Ireland.

Il contratto di matrimonio, primo dipinto della serie Il matrimonio alla moda (1745); Londra, National Gallery.


Il matrimonio felice (1745); Truro, Royal Cornwall Museum.

Ritratto di Voltaire (1737 circa), copia da un pastello di Maurice Quentin de La Tour; Saint-Quentin, Musée Lécuyer.


Godfrey Kneller, Ritratto di Isaac Newton (1689); Londra, National Portrait Gallery.

Il filosofo francese François-Marie Arouet, meglio noto con il nome di Voltaire, aveva trascorso due anni a Londra, dal 1726 al 1728. Vi era giunto in cerca di fondi per la pubblicazione dell’Enriade, un’opera dedicata a Enrico IV di Francia. Voltaire studiava il modello politico inglese, ammirato dal filosofo per la funzione che svolgeva in Inghilterra il Parlamento, limitando il potere reale. Nella capitale inglese leggeva lo “Spectator”, a cui collaborava Fielding, un giornale liberale diretto da Joseph Addison, e frequentava Jonathan Swift, John Gay, Alexander Pope. Il pensatore francese aveva assistito alla prima dell’Opera del mendicante, nel Drury Lane Theatre, e confessava che i primi rudimenti della lingua inglese li aveva appresi dai libretti teatrali. 

Una volta tornato in Francia, studiò l’opera di Newton, avvalendosi della collaborazione del formidabile genio matematico di Émilie du Châtelet, che era anche la sua amante. E infatti, probabilmente assieme, pubblicarono ad Amsterdam, nel 1738, Élements de la philosophie de Newton, mise à la portée de tout le monde. È un libro scritto in forma epistolare: e nella quindicesima lettera, quella inviata all’insigne matematico Maupertuis, Voltaire racconta dell’episodio in cui Newton, osservando un frutto cadere dall’albero, nel giardino della residenza di Woolsthorpe, avrebbe avuto l’intuizione della forza di gravità: «Newton si era ritirato da Cambridge, nella residenza di campagna, e, mentre faceva una passeggiata in giardino, cercando di riposarsi, vide un frutto cadere; una cirscostanza, che gli originò una profonda riflessione su questa singolare pesantezza». 

Nell’identificazione, all’interno di un dipinto, di un personaggio storico, è auspicabile un’accorta cautela. Tuttavia abbiamo ragione di credere che, nel Contratto di matrimonio, Hogarth abbia effigiato, assieme a Henry Fielding, anche Voltaire - quell’uomo in piedi e al centro, dai lunghi e lisci capelli, vestito di una giacca grigia - di cui avrebbe fatto una divertita caricatura, esemplata sul ritratto che del filosofo francese eseguì Maurice Quentin de La Tour. Sulla destra del dipinto, il padre dello sposo - il presunto ritratto di Fielding - ostenta i propri nobili natali, indicando quella lunga pergamena srotolata ai suoi piedi, su cui è raffigurato l’albero genealogico della famiglia, che risalirebbe a Guglielmo il Conquistatore; questi sarebbe effigiato, sulla stessa pergamena, in quel guerriero il cui scudo dipinto di rosso alluderebbe, dal canto suo, al frutto ai piedi dell’albero che avrebbe ispirato a Newton la legge di gravità, episodio (divulgato poi per l’appunto da Voltaire) che quindi sarebbe anch’esso, in questo modo, rappresentato nel dipinto. Ma forse, addirittura, quell’uomo togato di nero che ci volge le spalle, e che dovrebbe impersonare un architetto intento a controllare un dispendioso progetto di là dalla finestra, potremmo identificarlo, con estrema riserva, proprio con Isaac Newton che, guardando verso l’alto, alluderebbe a se stesso intento a osservare la cima dell’albero da cui sarebbe caduto il leggendario frutto. In un ritratto di Isaac Newton, eseguito da Godfrey Kneller, si nota come il solenne volto dello scienziato sia delineato da un naso e un mento fieramente pronunciati. E in effetti sono, questi, gli stessi tratti somatici che argutamente anche Hogarth lascia intravedere nell’uomo ritratto di spalle; il quale, oltretutto, è vestito, come si è detto, con una toga nera, identica all’abito indossato dai docenti dell’Università di Cambridge, quella in cui Newton per l’appunto insegnava. 

Nel successivo dipinto della serie, La mattina, la coppia si incontra nel salone della propria abitazione, a seguito di una notte trascorsa separatamente. Lo confermerebbe il cagnolino, che annusa la cuffietta femminile nella tasca di lui, e che rivelerebbe come il marito abbia visitato nottetempo un bordello, come acclara oltretutto la pustola del venereo morbo che si scorge sotto il mento di lui. Lo spadino spezzato, accanto ai suoi piedi, sul tappeto, alluderebbe a una virilità perduta. Intanto, il maggiordomo lascia la stanza vivamente preoccupato per le cambiali non pagate che stringe nella mano.


La mattina, secondo dipinto della serie Il matrimonio alla moda (1745); Londra, National Gallery.

La visita, terzo dipinto della serie Il matrimonio alla moda (1745); Londra, National Gallery.


La toilette, quarto dipinto della serie Il matrimonio alla moda (1745); Londra, National Gallery.

Nel dipinto seguente, La visita, quella ragazza che il visconte accompagna da un ciarlatano non sembra essere, come comunemente s’è scritto, la giovane moglie affetta da sifilide, giacché è evidente che non presenta le pustole tipiche del morbo; si tratta invece di una fin troppo giovane fanciulla, impunemente compromessa dal depravato nobile, come attesta l’occhiata disgustata della domestica. Accanto all’imbonitore, che dovrebbe rimediare in qualche modo all’imprudente atto commesso dal visconte, spicca sul tavolo il biancore d’un teschio; la cui presenza rimanda al personaggio di Yorick, sul cui cranio l’Amleto shakespeariano proferisce il celebre monologo attorno alla morte, evocata quale destino inevitabile per ogni individuo. 

Nella Toilette, a sinistra, l’uomo dedito al canto e dal fisico imponente è certamente il ritratto di un celebre contralto: Francesco Bernardi detto il Senesino, famoso interprete di Händel, che in realtà aveva furoreggiato nelle opere del musicista tedesco qualche anno addietro, rispetto alla data dell’esecuzione di questo dipinto. Alle sue spalle, un quadro con Ganimede e l’aquila - tratto da un noto disegno michelangiolesco - diverrebbe, in tale contesto, l’emblema d’un apollineo rapimento dell’anima. Accanto al contralto, due attendenti da camera, che sorbiscono compunti il caffè, e il cocchiere, assopito, con tanto di frustino. E mentre la madre della sposa chiacchiera animatamente con uno dei due lacchè, la giovane signora, a destra, è ammaliata dalla loquela dell’avvocato, il quale addita una figura dipinta sul pannello lì accanto. 

Nella scena con La morte di lui, all’interno d’una stanza a ore, in una di quelle taverne londinesi denominate “bagnio” - parola questa appena leggibile in un cartiglio in basso a sinistra - s’è appena consumato il dramma: l’avvocato (sapremo che di lui si tratta, nel dipinto successivo) fugge dalla finestra, non prima d’aver colpito a morte il marito della sua amante con la spada, arma che infatti è sul pavimento, ancora insanguinata. La sposa, genuflessa, implora il perdono per il fatale tradimento. 

Nella Morte di lei, la figlia della coppia, già peraltro infetta, porge alla madre l’estremo bacio; il padre della morente le sfila l’anello d’oro prima del trapasso; il medico batte il domestico che ingenuamente ha servito alla donna del laudano col quale ella si è suicidata; il cane, stremato dalla fame, addenta la cacciagione sulla tavola; lo stemma della città di Londra è incastonato nel vetro della finestra; ai piedi della moribonda, l’estremo biglietto scritto dall’avvocato - l’amante omicida, condannato alla pena capitale - prima di morire: «Last speech», l’estremo saluto; e la firma: «Silver Tongue». 

Nonostante sembri restio a ricordare la propria infanzia, la prigionia del padre, la povertà, Hogarth non dimentica i luoghi che lo hanno visto bambino: ritrae infatti il reverendo John Lloyd, pastore di St. Mildred, una parrocchia di Bread Street, la strada in cui era nato peraltro John Milton e che è ubicata nel rione limitrofo a quello in cui William era cresciuto con i genitori e le sorelle. Dal volto del curato traspaiono rettitudine e lealtà, qualità che, nella concezione religiosa di Hogarth, sono necessarie alla missione che svolge un uomo di chiesa, più rilevanti di pretese virtù misticheggianti non confortate da un animo gentile.


La morte di lui, quinto dipinto della serie Il matrimonio alla moda (1745); Londra, National Gallery. La postura della moglie, genuflessa, è identica a quella di Polly, implorante il perdono dell’amato, nell’Opera del mendicante, una scena in cui Hogarth infonde la consueta indulgenza che concede ai suoi personaggi, sia pure peccatori e perdenti.


La morte di lei, sesto dipinto della serie Il matrimonio alla moda (1745); Londra, National Gallery.

Sono Richard Boyle e sua moglie Dorothy Savile i protettori del famoso attore David Garrick, il quale, agli albori della propria carriera teatrale, è ospitato dalla facoltosa coppia nella residenza londinese di Burlington House. Garrick aveva preso alla lettera il consiglio che Amleto, nell’omonima tragedia, dà alla compagnia itinerante di attori, mentre li dispone a mettere in scena l’omicidio del padre da parte del fratello di quest’ultimo: «Qualsiasi cosa eccessiva è lontana dallo scopo della recitazione, il cui fine, ora e sempre, è di regger lo specchio alla natura». Garrick infatti introduce una nuova maniera di recitare, priva di qualsiasi esuberanza declamatoria, ma fondata su un tono calibrato e realistico. Hogarth lo ritrae nelle vesti di Riccardo III, quando, nel V atto dell’omonima tragedia shakespeariana, il monarca, al termine di un incubo, si desta, benché abbia ancora davanti agli occhi gli spettri di coloro che ha ucciso. In questo sguardo, dove sogno e realtà si fronteggiano, Hogarth condensa la propria idea di pittura, così simile al teatro, e tanto più conforme all’essenza della vita. 

Nel 1745, Hogarth effigia il proprio volto all’interno di una cornice ovale - quadro nel quadro - sostenuta dai volumi degli autori più amati: Shakespeare, Stern e Milton. Accanto all’ovale, l’amato cagnolino, un carlino di nome Trump. A sinistra, la tavolozza sulla quale è delineata la linea serpentinata, corredata dall’iscrizione: «The line of beauty and the grace» che prelude al titolo del saggio di estetica che l’artista darà alla stampe nel 1753: l’Analisi della bellezza.


Ritratto del reverendo John Lloyd (1738); New Haven, Yale Center for British Art.

David Garrick come Riccardo III (1745 circa); Liverpool, Walker Art Gallery.


Autoritratto col cane (1745); Londra, Tate.

Il capitano Graham era un nobile, appartenente al partito whig, ma soprattutto un abile condottiero navale. Nel 1745, a bordo della HMS Bridgwater, aveva infatti ottenuto una brillante vittoria contro tre navi corsare francesi davanti al porto di Ostenda. Hogarth lo ritrae all’interno della sua cabina mentre fuma una lunga pipa in compagnia di alcuni amici. Il commensale al centro dovrebbe essere John Rich, il quale era stato in gioventù un attore all’avanguardia del teatro londinese: era specializzato, infatti, in un’inedita pantomima muta di Arlecchino. Quando il suo fisico perse quella snellezza necessaria per interpretare la celebre maschera bergamasca, divenne direttore di importanti teatri quali il Drury Lane, il Lincoln’s Inn e il Covent Garden. Con Rich, Hogarth aveva fondato la Sublime Society Beefsteaks, la “Sublime Società della bistecca”, un conciliabolo di amici accomunati dallo spirito goliardico che ritroviamo anche in questa scena, con il cagnolino del pittore imparruccato, a fare il verso a un blasonato lord. 

Nel 1748, Hogarth si reca in Francia, in compagnia di alcuni amici, tra cui certamente il pittore Francis Hayman. Durante una breve sosta nel porto di Calais, Hogarth, mentre abbozza sopra un foglio uno scorcio della porta cittadina, viene arrestato, perché creduto una spia inglese. Una volta che le autorità accertano come egli sia soltanto un artista, viene rilasciato, e appena tornato in Inghilterra esegue il dipinto O’ the Roast Beef of Old England (o anche La Porta di Calais). Il titolo è tratto dal verso di una canzone di Henry Fielding, composta per una “ballad”, The Welsh Opera, in cui s’inneggia alla superiorità del roast beef inglese sullo stufato francese. In primo piano, sulla destra, un derelitto seduto per terra si nutre di pane e cipolle. Per capire a cosa allude questo personaggio, bisogna ricordare che nel 1745, neanche due anni prima del viaggio oltremanica di Hogarth, Carlo Edoardo Stuart, detto anche “the Bonnie Prince”, partendo dalla Francia, era sbarcato in Scozia e poi aveva marciato su Londra, alla testa di un esercito formato soprattutto da scozzesi giacobiti; erano così chiamati quei cattolici che consideravano il principe Carlo Edoardo il legittimo erede della Corona inglese. Dopo le prime incoraggianti vittorie, il “Principe pretendente” è sconfitto dal duca di Cumberland, il 16 aprile del 1746, nella decisiva battaglia di Culloden, in Scozia. Contemporaneamente all’avanzata del principe, sarebbe dovuta salpare in suo aiuto da Dunkerque, alla volta delle coste inglesi, la flotta francese; ma una provvidenziale tempesta aveva distrutto gran parte delle navi ormeggiate in porto. Tornando al derelitto nel quadro di Hogarth, possiamo pertanto affermare, come rivela il costume ch’egli indossa, su cui risalta il tradizionale motivo quadrettato scozzese, che si tratta appunto di un giacobita, indubbiamente un riferimento alle tramontate aspirazioni, da parte delle nobili famiglie di Scozia, d’insediare uno Stuart, il principe Carlo Edoardo, sul trono d’Inghilterra. Sulla sinistra del dipinto, giusto sotto la lunga canna del fucile, imbracciato da un prestante soldato, Hogarth ritrae se stesso intento al disegno, mentre un alabardiere, di cui scorgiamo soltanto la punta dell’arma, gli tocca la spalla per arrestarlo, credendolo una spia; allo stesso tempo, in primo piano, un frate francescano adocchia, con ingordo cipiglio, un quarto di bue. In particolare, questa figura è tratta fedelmente da una caricatura di Pier Leone Ghezzi, Il carpentiere Alexis.


Il capitano lord George Graham nella sua cabina (1748); Londra, National Maritime Museum.


O’ the Roast Beef of Old England (o La Porta di Calais) (1748); Londra, Tate Britain.

Nel 1751, Hogarth incide due celebri lastre, Beer Street e Gin Lane, in concomitanza con il cosiddetto Gin Act - ovvero The Sale of Spirits Act -, una disposizione del Parlamento con cui si vietavano le distillerie clandestine di gin, dal momento che incentivavano il tasso d’alcolismo e di criminalità. 

In Gin Lane, Hogarth sottolinea un malessere sociale: il consumo di gin, che alcuni personaggi sorbiscono in piccoli bicchieri, è corresponsabile dello sfacelo che infatti ovunque imperversa e che prende qui forma nella sagoma dell’impiccato, all’interno dell’edificio diruto, in alto a destra; così come nella coppia che vende i propri utensili all’usuraio, all’estrema sinistra; oppure, nell’uomo farneticante, al centro, che con un mantice sul capo impugna uno spiedo su cui è terribilmente infilzato un disgraziato bimbo. Al centro della stampa, tuttavia, ma in secondo piano, il corpo esanime d’una donna, deposto nella bara, mentre il figlioletto si stropiccia gli occhi pieni di lacrime, parrebbe non tanto rimandare a un decesso cagionato dal gin, quanto piuttosto a un funerale affrettato, per rimuovere prontamente un corpo, altrimenti infetto. Cosa dunque potrebbe evocare la scena? Alla data del 7 di settembre del 1665, l’umanista John Evelyn nei suoi Diarii annota: «Lungo la strada, molte bare, e molti bambini che si lamentano, chiedendo l’elemosina»; si tratta di una descrizione della peste, che in quell’anno colpì Londra per cinque mesi; prima che il grande incendio dell’anno successivo estinguesse il contagio. Ecco, Hogarth, nel dipingere il frettoloso funerale, potrebbe aver voluto ricordare proprio la pestilenza del 1665, come confermerebbe inoltre il fatto che, nel fondo della stampa, si scorge la guglia di St. Gilles: lo stesso John Evelyn ricorda come l’epidemia si propagò precisamente dall’area limitrofa a questa chiesa. Perciò, col consueto e duplice livello di lettura tipico delle opere di Hogarth, in Gin Lane troviamo sì la denuncia dei danni generati dall’uso smodato di gin, ma scorgiamo anche il ricordo di un fatale biennio - il 1665-1666, quello della peste e quello del grande incendio di Londra (cui Hogarth allude con la casa in rovina sul fondo) - quando a capo del regno d’Inghilterra c’erano gli Stuart. Nel 1649, infatti, Carlo I era stato giustiziato da Cromwell; e, quando quest’ultimo morì, al brevissimo governo del figlio Richard seguì il regno di Carlo II Stuart, il quale, nei venticinque anni in cui fu al potere, dal 1660 al 1685 - il periodo che gli storici chiamano della Restaurazione - diede nuova linfa al teatro, permettendo finalmente alle attrici di recitare (precedentemente recitavano solo gli uomini) e sostenne la cultura, con la nascita della Royal Society; ma impose una monarchia di stampo assolutista, consimile a quella di Luigi XIV in Francia, vanificando pertanto le conquiste che il Parlamento aveva ottenuto per limitare il potere della Corona.


Gin Lane (1751); Londra, Tate.

La follia giacobita, come la peste (1745); Edimburgo, National Library of Scotland.


Bicchiere giacobita, manufatto inglese (1750 circa).

Un’altra conferma del fatto che Hogarth voglia alludere alla peste la vediamo nella scena della scellerata madre che, in primo piano nella stampa, non avvedendosi del pargolo che ruzzola dalle scale, è ritratta mentre estrae da una custodia del tabacco da fiuto. È ancora John Evelyn che, sempre nei Diarii, ricorda come la popolazione, durante l’epidemia del 1665, consumasse tabacco e alcol, sperando, in tal modo, di prevenire il contagio; ed è appunto all’alcol che ricorre un’altra madre raffigurata da Hogarth, quella all’estrema destra della stampa, che, in perfetta buona fede, somministra disgraziatamente al proprio figlio in fasce una razione di gin, sperando che questo lo preservi dal contagio. Occorre rammentare, inoltre, come quest’opera sia stata eseguita nel 1751, quando era ancora attiva una frangia di giacobiti scozzesi, i cattolici sostenitori di Carlo Edoardo Stuart, i quali, come sappiamo, nel 1746 erano stati sconfitti a Culloden dall’esercito di Giorgio II. Ora, è noto che i giacobiti scozzesi erano soliti brindare a colui che ritenevano il legittimo erede del trono inglese con le parole: «Toast to the King over the water», ovvero, “Brindiamo al re, dall’altra parte dell’acqua”, alludendo al fatto che il pretendente, prima di sbarcare in Scozia, dove sarebbe poi stato sconfitto, dimorava in Francia, appunto dall’altra parte del canale della Manica. Guarda caso, i bicchieri che i giacobiti solitamente utilizzavano, per inneggiare al principe Carlo Edoardo, erano del tutto identici a quelle minuscole coppette che i personaggi di Hogarth adoperano per sorbire il gin: come quella che la madre incautamente offre al figlio in fasce; quel tipo di bicchieri erano infatti chiamati «the jacobite’s glass». Ma soprattutto, in un’incisione del 1745, “la follia giacobita” è definita “plague”, con lo stesso sostantivo, quindi, con cui era designata la peste, nel 1665, a Londra. 

In Beer Street, invece, l’efficienza contrassegna ogni mansione quotidiana. A sinistra, un pittore rifinisce l’insegna di una taverna. Nel fondo, in cima alla guglia di St. Martin in the Fields, sventola la bandiera con la croce di sant’Andrea. Ed è questo il vessillo col quale, ogni 30 ottobre, si festeggia Giorgio II Hannover. Nella celebre battaglia di Culloden in cui, come ben sappiamo, si spensero le aspirazioni al trono di Carlo Edoardo Stuart, il vincitore dello scontro armato, il duca di Cumberland - William Augustus Hannover - figlio del re Giorgio II, dette ordine ai propri soldati di finire alla baionetta i numerosi feriti giacobiti rimasti sul campo. Per via di tale crudeltà, a William fu dato il soprannome di Billy il macellaio. 

Nel 1753, Hogarth pubblica Analisi della bellezza, alla cui stesura collabora anche Benjamin Hoadley jr, autore peraltro d’una commedia, The Suspicious Husband, interpretata con successo a Londra da David Garrick. 

Secondo Hogarth, la bellezza si nasconde nel tracciato sinuoso d’un fiume, così come nell’imprevedibile direzione che prende un sentiero: «Tra la nostra varietà di linee ondeggianti, c’è solo una che merita veramente il nome della bellezza, quindi c’è solo una precisa linea serpentina che io chiamo linea della grazia». Come incipit, Hogarth trascrive un verso tratto dal Paradiso perduto di Milton, in cui l’Eden è descritto dal poeta come un luogo ricco di piante rigogliosamente ricurve. La bellezza dunque è racchiusa nel movimento dei personaggi, nel gesto, così come nello sguardo, che avvince lo spettatore, rendendolo partecipe, come se fosse davanti a uno spettacolo teatrale. Nonostante un’encomiastica recensione di Fielding, il libro di Hogarth non fu apprezzato in Inghilterra. In Germania invece venne immediatamente tradotto, e inoltre riscosse il plauso del filosofo Gotthold Ephraïm Lessing.

Il 1751 fu un anno piuttosto prolifico per Hogarth, l’artista infatti portò a termine anche un’altra serie, intitolata I quattro stadi della crudeltà, delle incisioni mediante le quali si auspica di porre un argine alle continue atrocità che quotidianamente subivano indifesi animali. Nella prima stampa, un cane viene oscenamente seviziato da un giovane, del quale conosciamo anche l’identità grazie a un monello lì accanto che, indicando il tormentatore e scrivendone il nome sul muro - Tom Nero -, ne traccia inoltre profeticamente il destino, tratteggiando una sagoma impiccata a una forca. Il manigoldo indossa un berretto tondeggiante che corrisponde alla foggia del “blue bonnet”, il tradizionale basco utilizzato dai soldati scozzesi: è indossato anche Carlo Edoardo Stuart, in un ritratto eseguito prima della fatale sconfitta di Culloden. Un giovanotto ben vestito tenta di frenare l’azione nefanda del carnefice, offrendogli quella che, per la sua forma, farebbe pensare a una scatola di tabacco da fiuto.


Beer Street (1751); Londra, Royal Academy of Arts.


Ritratto di Giorgio II (1755 circa); Londra National Portrait Gallery.

Il primo stadio della crudeltà, dalla serie I quattro stadi della crudeltà (1751); New York, Pierpont Library.


Louis Tocqué, Ritratto del principe Carlo Edoardo (1746 circa).

Nella stampa successiva, in un ampio viale, un cavallo crolla a terra, stremato da quel gravoso carico che è costretto a trainare: una possente carrozza, dalla quale escono tre giudici che imprecano per l’inconveniente, senza prestare alcuna cura al povero animale. In primo piano, un pastore s’accanisce contro una pecora, mentre, nel fondo, un nugolo di allevatori circonda un toro imbizzarrito. Questo animale, sin dal principio del Settecento, è divenuto il simbolo stesso dell’Inghilterra con il personaggio di John Bull - “bull” significa in inglese toro, appunto - creato da John Arbuthnot, un medico scozzese, pioniere nella ricerca delle cure per il vaiolo e amico di Alexander Pope e Jonathan Swift, con i quali aveva fondato lo Scriblerus Club. Hogarth, in quel toro furente, avrebbe quindi effigiato la reazione dell’Inghilterra all’insidia cattolica e giacobita. Questa ipotesi sarebbe convalidata da una delle insegne del grande palazzo a sinistra, in cui compaiono senza ombra di dubbio due chiavi incrociate, che corrispondono all’emblema della Chiesa cattolica romana: le proverbiali chiavi del regno dei cieli, che Cristo avrebbe consegnato a san Pietro. 

Nella Perfezione della crudeltà, Tom è catturato dopo aver orrendamente ucciso la propria amante, alla quale ha imposto anche di rubare degli oggetti di valore. 

Infine, nella Ricompensa della crudeltà, la “profezia” del monello della prima stampa s’è avverata: Tom, in quanto omicida, viene impiccato e il suo corpo, sezionato, è disteso sopra un tavolo d’anatomia. Il suo cuore, così sordo ai disperati latrati del cane da lui seviziato nella prima incisione, ora è diventato cibo prelibato proprio per un altro cane.


Il secondo stadio della crudeltà, dalla serie I quattro stadi della crudeltà (1751); New Haven, Yale Center for British Art.

La perfezione della crudeltà, dalla serie I quattro stadi della crudeltà (1751); New Haven, Yale Center for British Art.


La ricompensa della crudeltà, dalla serie I quattro stadi della crudeltà (1751); New Haven, Yale Center for British Art. È questo l’unico personaggio, verso il quale Hogarth sembra non provare alcuna accondiscendenza. Il torturatore di cani, divenuto efferato omicida, è dunque tratteggiato senza la consueta pietosa clemenza, braccato come una preda, avvolto dalle tenebre.

HOGARTH
HOGARTH
Luigi Senise
William Hogarth (Londra 1697-1764) inizia la sua carriera come incisore, diventa poi pittore di ritratti di gruppo per la buona società londinese, si lega al mondo del teatro e della letteratura, fino a definire una sua collocazione originale nel panorama artistico inglese. Diviene in breve il principale illustratore della società in cui vive, nel senso che ne analizza vizi e virtù, con un evidente intento morale, in alcune fortunate serie (le Carriere) di quadri e di incisioni: tra i principali la Carriera di un libertino e il Matrimonio alla moda. Ma non manca di intervenire nelle questioni estetiche che appassionano gli addetti ai lavori, assumendo posizioni decisamente anti accademiche.