Grandi mostre. 7
Il Cinquecento a Firenze

TRA MANIERA MODERNA
E CONTRORIFORMA

L’arte a Firenze nella seconda metà del Cinquecento trova nell’esposizione di Palazzo Strozzi, qui illustrata dai curatori, la giusta riflessione storica con una cospicua presenza di artisti anche meno noti ma di fondamentale importanza per una piena comprensione dell’epoca.

Carlo Falciani e Antonio Natali

Il volto bello, roseo di carnato, del riccioluto angelo biondo, che nella cosiddetta Deposizione del Pontormo si fa carico del corpo di Cristo morto, è il dettaglio scelto dalla Fondazione Palazzo Strozzi per promuovere l’esposizione dedicata all’arte a Firenze nella seconda metà del Cinquecento. Quel viso stupefacente ha riempito di sé tabelloni di stazioni ferroviarie e d’aeroporti, manifesti, stendardi, fiancate d’autobus, muri e cartelloni; e financo gl’inviti all’inaugurazione della mostra medesima.

Chi s’è risolto a battere questa via ha dato per certo un impatto forte sulla gente. E non c’è da dubitarne. Il sospetto però aggalla che molti possano pensare alla nostra nuova rassegna come a uno di quei “seguiti” cinematografici apparecchiati sulla scia d’un successo grande (si ricorderà che l’esposizione di Pontormo e Rosso - essa pure a nostra cura - fu giudicata, da una ragguardevole rivista inglese di storia dell’arte, come la migliore al mondo nel 2014). Sgombriamo allora il campo da ogni possibile fraintendimento: la mostra di quest’anno verte su altro.

Prima di tutto, il titolo. Quello ufficiale è Il Cinquecento a Firenze. “Maniera moderna” e controriforma. Titolo a tal segno didascalico e icastico da non lasciare spazio a equivoci. Titolo che, se fosse stato sovrimpresso sull’immagine pontormesca scelta, le avrebbe conferito plausibilità, giacché Jacopo è appunto uno degli artefici che della “maniera moderna” sono emblemi acclarati. Stampando invece sull’effigie, che della mostra è guida, la scritta Il Cinquecento a Firenze. Tra Michelangelo, Pontormo e Giambologna, il rischio del travisamento è forte; e davvero potrebbe esserci chi abbia congetturato una riesumazione del Pontormo.

Andrea del Sarto, Rosso, Bronzino; ognuno con un’unica opera, ma d’altissimo tenore


Noi due, autori di questo articolo, facciamo il mestiere dello storico; e dunque diverse sono le nostre competenze rispetto a chi s’intende di pubblicità e mercato; sicché magari la strategia imboccata è quella migliore. Proprio da storici, però, desideriamo sia chiaro a tutti che la rassegna in questione propone - come recita il titolo ufficiale - pensieri e riflessioni sugli artefici che a Firenze operarono nella seconda metà del Cinquecento (solo per inciso rammentiamo che la Deposizione fu invece dipinta da Jacopo nella prima metà, fra il 1525 e il 1528).


Michelangelo Buonarroti, Dio fluviale (1526-1527 circa), Firenze, Accademia delle arti del disegno, in deposito presso Casa Buonarroti.


Andrea del Sarto, Compianto su Cristo morto (Pietà di Luco) (1523-1524), Firenze, Galleria palatina.

Di quella stagione non si sarebbe potuto tuttavia ragionare senza esibire all’esordio del percorso le creazioni di coloro che per quegli stessi artefici rappresentarono i modelli insuperabili. E dunque, sì: Michelangelo e Pontormo, ma anche Andrea del Sarto, Rosso, Bronzino; ognuno con un’unica opera, ma d’altissimo tenore, voluta per attestare il peso del loro magistero: Michelangelo col Dio fluviale (che era scuro, a simulare il bronzo, e ora, in virtù d’un restauro condotto per l’occasione, è di coloritura chiara a evocare il marmo), Andrea del Sarto con la Pietà di Luco (profezia magnifica, per chiarezza espositiva e per i modi accostanti, della pittura riformata), il Pontormo con la Deposizione (essa pure restaurata nella circostanza), il Rosso (che ebbe minor seguito, ma quanto spregiudicato) con la teatrale Deposizione volterrana, e infine il Bronzino con la prima redazione del Compianto per la cappella d’Eleonora da Toledo, donata quasi subito da Cosimo a un dignitario vicino all’imperatore Carlo V nel 1545 e da allora mai più tornata in Italia.

Un preambolo spettacolare, dunque; ma preambolo, appunto. Cinque opere su settantacinque esposte e cinque artisti su più di quaranta presenti. Preludio indispensabile per inquadrare un’epoca che avrà anche conosciuto indagini perspicue, ma che non ha mai goduto d’una diffusione democratica. Esattamente cinquant’anni fa Luciano Berti pubblicava Il principe dello studiolo (Francesco I de’ Medici, cioè; figura centrale nella mostra di cui stiamo parlando) e quel libro, di bella scrittura e criticamente fondamentale, dette avvio a studi sull’arte a Firenze nel secondo Cinquecento e su molti artefici che n’erano stati esponenti di spicco. Sempre però (o quasi) è mancata la volontà di una divulgazione che andasse oltre i peraltro non numerosi storici che s’impegnavano su quel periodo.


Rosso Fiorentino, Deposizione dalla croce (1521), Volterra, Pinacoteca e Museo civico.


Agnolo di Cosimo, detto il Bronzino, e bottega, Immacolata concezione (1570-1572), Firenze, Santa Maria della Pace, in deposito esterno dalle Gallerie fiorentine.

I nomi degli artisti, di lirica vibrante, che al tempo di Francesco e poi di suo fratello Ferdinando (entrambi granduchi) lavorarono, non davano garanzie d’un ritorno economico a chi su di loro intendesse ordinare esposizioni in grado di mostrarne l’espressione libera, volta ora a illustrare temi profani anche con figurazioni audaci, ora a rappresentare storie sacre con spirito conforme ai precetti sortiti dal Concilio di Trento (sono giusto questi gli aspetti evocati dal sottotitolo ufficiale della mostra).

C’era in noi la coscienza che, esponendo in apertura i capi d’opera di quei maestri celebratissimi, fosse forte il rischio della delusione dei tanti che, avendo ancora nelle orecchie i nomi di Michelangelo e del resto di quella compagnia eminente risuonanti nelle prime due stanze, sarebbero rimasti sconcertati al cospetto d’artisti che neppure sui banchi di scuola avevano sentito ventilare. Ma l’unico modo per combattere il conformismo d’oggi è offrire alternative ai feticci su cui ossessivamente insiste l’industria culturale.


Alessandro Allori, Venere e Amore (1575-1580), Montpellier, Musée Fabre.

Le forme robuste eppure dolci e naturali d’Alessandro Allori


Sostenuti da Palazzo Strozzi nella produzione di una mostra obiettivamente non facile, abbiamo affrontato l’azzardo nella fiducia che le indubbie qualità poetiche di pittori e scultori misconosciuti sarebbero alla fine emerse e nella convinzione che una mostra debba essere bella e insieme capace d’offrire pensieri e opportunità di riflessione a visitatori consapevoli; che noi ci rifiutiamo di considerare come passivi consumatori di prodotti alla moda. E se pure lo fossero, sarebbe comunque colpa da imputare a noi, che dovremmo educare e non viziare.
Le forme robuste eppure dolci e naturali d’Alessandro Allori, la lirica vivida e soave a un tempo di Santi di Tito, il vigore crudo e fiammingo delle scene dello Stradano, la grazia palpitante di Cavalori e quella salda e quasi parmense di Macchietti, e poi, ancora, la leggiadria colta di Cellini, i bronzi e i marmi avvitati del Giambologna, quelli severi di Caccini, e via discorrendo, eravamo certi che non sarebbero rimasti silenti agli occhi di coloro che si fossero risolti a fare un viaggio a Firenze per una mostra priva di nomi di richiamo nella titolazione ufficiale.

Una mostra che peraltro ha dato modo di metter mano a interventi (ben diciassette) di restauro o recupero, com’è quello, importantissimo, dell’ultimo lavoro del Bronzino: un’Immacolata concezione, che pochissimi (anche fra gl’intendenti d’arte) conoscono, per via della sua collocazione sull’altar maggiore d’una chiesa moderna situata nella sgangherata periferia fiorentina. E per la maggior parte di quest’interventi si dovrà ancora una volta rammentare la generosità appassionata della Fondazione non profit Friends of Florence e del loro presidente Simonetta Brandolini d’Adda.

Fatta ormai l’inagurazione, vedremo entro breve se esisterà una volontà nel pubblico delle mostre d’andare anche oltre le esposizioni di Botticelli, Leonardo, Michelangelo, Caravaggio, Van Gogh e gl’immancabili impressionisti. Vedremo se ci sarà una disponibilità a conoscere cose nuove. Ci piacerebbe fosse così, per cominciare a tacitare la voce di chi intona sempre il medesimo ritornello: «Perché tanto moralismo? In fondo diamo alla gente quello che la gente chiede».

Mai che si pensi che la gente chieda quello che noi avremmo voluto chiedesse. Un dubbio che il governo culturale della nazione per primo sarebbe bene coltivasse in cuor suo.


Girolamo Macchietti, La Liberalità e la Ricchezza/Proserpina (1565 circa), Venezia, Galleria Giorgio Franchetti alla Ca’ d’oro.

Il Cinquecento a Firenze.
“Maniera moderna” e controriforma

Firenze, Palazzo Strozzi
a cura di Carlo Falciani e Antonio Natali
fino al 21 gennaio 2018
orario 10-20, giovedì 10-23
catalogo Mandragora
www.palazzostrozzi.org

ART E DOSSIER N. 347
ART E DOSSIER N. 347
Ottobre 2017
In questo numero: AUTUNNO, TEMPO DI MOSTRE Jasper Johns a Londra, Marino Marini a Pistoia, Magritte a Bruxelles, Paul Klee a Basilea, Mägi a Roma, Caravaggio a Milano, Il Cinquecento a Firenze, I Longobardi a Pavia.Direttore: Philippe Daverio