Il Museo immaginario


IL DIAVOLO
AL MERCATO DELLE PULCI

di Alfredo Accatino - Il Museo Immaginario
ilmuseoimmaginario.blogspot.it

Un viaggio alternativo nell’arte del Novecento, alla riscoperta di grandi artisti, di opere e storie spesso dimenticate: Nicolas Kalmakoff

È il 1955. All’ospedale di Lagny-sur-Marne, a nord di Parigi, muore un emigrato russo. Solo, sconosciuto e in condizioni di estrema indigenza. Ci era arrivato qualche tempo prima grazie ai vicini di stanza, corsi a soccorrerlo dopo un malore. Viveva, infatti, da anni in una cameretta dell’hôtel de la Rochefoucauld, vicino a Pigalle, dove si diceva che fosse un tipo strano, un aristocratico russo fuggito dalla Rivoluzione. Un mezzo matto, una specie d’artista, fissato col demonio. L’attore Alexander Mgebrov, rintracciato anni dopo, racconterà di lui: «Un giorno che ero andato a fargli visita, mi sussurrò misteriosamente che, da qualche tempo, era occupato a dipingere il diavolo. “Ho tutti gli schizzi al piano di sopra”, disse con uno strano luccichio negli occhi. “Rimango sveglio fino a tarda notte e attendo che appaia. Ho intravisto gli occhi… la coda… persino gli zoccoli… ma non ho ancora visto tutto. Però ho fatto centinaia di schizzi - vuoi vederli?”».

Passano sette anni. Numero magico. Nel 1962 alcuni dipinti, diavoli compresi, tornano alla luce nel Marché de Saint-Ouen, vicino a Saint-Denis, il più grande mercato delle pulci d’Europa. Luogo che conosco bene e dove vado a fare la corte a qualche antiquario una volta l’anno, cercando di carpirne piccoli tesori, perché prima o poi, lì, ci passa di tutto (leggere Zazie dans le métro per credere).

Tra i primi a imbattersi in quel materiale e ad acquistarlo sono due collezionisti e appassionati d’arte: Bertrand Collin du Bocage e Georges Martin du Nord. Sono una quarantina di tele, tutte firmate con un monogramma stilizzato: «K». C’è una cosa che le rende però diverse dalle tante croste nascoste nel ventre del Marché aux Puces: sono straordinarie, parlano il linguaggio dell’Art Nouveau con gli accenti della cultura russa e rivelano le tracce innegabili della visione folle di un genio.

Una scoperta, lo confesso, che scatena in me uragani d’invidia: e se dico che per averla fatta io mi sarei fatto tagliare volentieri il mignolo della mano sinistra, beh, potrà parere un po’ melodrammatico, ma è la verità. Ma questa è un’altra storia.

Il commerciante ungherese che ha venduto il blocco ai due fornisce loro un manifesto di una mostra tenutasi alla Galerie Le Roy di Bruxelles nel 1924, casualmente trovato tra le tele. Qui, per la prima volta, compare il nome completo del misterioso «K»: Nicolas Kalmakoff. Le opere erano state svendute alla casa d’aste Drouot per una cifra irrisoria dal proprietario di un deposito nel quale erano state portate dall’autore e poi stoccate lì per trentaquattro anni: «Tanto non valevano una tazza di sidro», aveva detto il venditore, un certo Walbaum. E gli sarebbe venuto uno stranguglione, a Walbaum, se avesse saputo che ora superano i trecentocinquantamila euro.

Martin du Nord vuole capire quale storia si nasconde dietro a quelle tele. A ogni costo. Una curiosità che diverrà per lui una specie di ossessione. Rintraccia il direttore della galleria di Bruxelles, ma quello è devastato dalla demenza senile e non si ricorda nulla. Risale allora all’indirizzo dove aveva abitato il pittore, rue de la Rochefoucauld, ma nessuno sa dirgli niente. Pazienza. Metodo. Ostinazione. Come un detective sulle tracce di un assassino, riesce finalmente a ridare vita a un fantasma. Perché ancora oggi molti aspetti della vita di Kalmakoff rimangono sconosciuti, mentre altri si confrontano con il “pare” e il “si dice”…

Nicolas Kalmakoff, o meglio Nikolaj Konstantinovic Kalmakov, nasce sulla Riviera italiana, nel 1873. A Nervi, scelta inizialmente da russi e baltici per sfuggire ai rigori del loro inverno e poi divenuta una vera e propria colonia di “émigrés”, che arriverà a contare all’inizio del Novecento le ottocento presenze.


La Négresse (1929).

La madre dovrebbe essere una cantante lirica italiana. Il padre, a quanto si dice, un generale russo. Di certo si sa che il giovane Nicolas torna a San Pietroburgo, dove probabilmente ha dei parenti, per studiare e frequentare la Scuola imperiale di Giurisprudenza.

Nel 1905 si sposa e si trasferisce a Peterhof, vicino alla reggia estiva di Pietro il Grande, proprio di fronte al mare di Finlandia. È qui che inizia a dedicarsi alla pittura, elaborando uno stile che si arricchisce di riferimenti culturali della tradizione russa. Inizia a farsi conoscere come un eccentrico, un po’ dandy, tradisce la moglie a ripetizione ed è coinvolto in duelli, in uno dei quali ucciderà il rivale (e il fazzoletto insanguinato sarà ritrovato tra le sue cose).
Dipinge il diavolo, questo è certo, e aderisce - lui, battezzato cattolico - agli Skopcy, setta ortodossa della Russia zarista, derivata dai Chlysty cui si dice appartenesse Rasputin, nota per predicare la castrazione degli uomini e la mastectomia delle donne, al fine di raggiungere la purezza reprimendo la lussuria. La setta, nata da una costola del movimento dei Vecchi Credenti, fu decimata dal governo imperiale e poi dall’Unione Sovietica dopo la Rivoluzione, prima di finire nel dimenticatoio.

Tra il 1908 e il 1911 progetta i costumi e le scenografie per diversi spettacoli teatrali, tra cui La maschera nera, Judith, Anatema e Il granduca di Mosca. È soprattutto l’anima (nera) di una rocambolesca edizione della Salomè di Oscar Wilde a San Pietroburgo, per la quale progetta le scene, intrecciando una relazione devastante con la famosa attrice e impresaria Vera Fëdorovna Komissarževskaja. La produzione scandalizza i benpensanti e non va nemmeno in scena. La prima è cancellata. Per la Komissarževskaja il rammarico del fiasco non dura a lungo: morirà di vaiolo, a Taškent, nel febbraio del 1910.

Tre anni dopo lo scoppio della Rivoluzione, Nikolaj scappa dalla Russia, lasciandosi alle spalle moglie e figli, amanti e rivali. Prima si ferma nei paesi baltici, dove tiene anche un paio di mostre, poi nel Sud della Francia, in Provenza, nel 1924, per poi finire a Parigi. Sappiamo che stiva le sue opere nel famoso deposito dal quale usciranno solo dopo la sua morte, e si rinchiude nell’alberghetto della rue de la Rochefoucauld, sopravvivendo con una piccola rendita destinata a svanire negli ultimi tempi.

Mi sono imbattuto in lui scoprendo sul web La Négresse, la schiena di una donna nera dipinta come un Michelangelo nel 1929. Un campo e un controcampo che lasciano senza fiato: il primo a dominante blu, il secondo rossa. In altri dipinti la vediamo di fronte, la dea nera, in una posa degna di Grace Jones secondo Jean-Paul Goude.

Sarà stato ascetico, si sarà anche occupato con la sua setta di contenere l’erotismo, ma il quadro “è” l’erotismo, esaltato dai luccichii della stoffa che circonda il corpo. La carne è tesa e lucida. Dipinta in modo magistrale.

È come se un ascetismo estremo - vien da pensare allora - avesse provocato l’effetto contrario, rilasciando nelle sue tele una ricca profusione di sessualità repressa, misoginia, narcisismo. Basta guardare Leda e il cigno, opera che non lascia molto all’immaginazione, le sue Sfingi e le sue Chimere.

Sempre Mgebrov scrive: «Tutte le sue opere tradivano un certo erotismo - un erotismo così schiacciante da potersi attribuire solo a Satana in persona, o peggio, a una forza ancora più grande di Satana, qualcosa di infinitamente più spaventoso e terrificante… Un paio di anni fa ho visto un suo dipinto veramente prodigioso… pervaso interamente del suo erotismo iperdiabolico.


La Femme de Satan (1919).

Rappresenta l’unione dei sessi di un uomo e una donna. Ma, utilizzando quel suo apparato cromatico così particolare, crea intorno a essi strani motivi ritmici, che evocano un senso di mistero. I due sessi apparivano resi in modo tale da far credere di assistere alla creazione del mondo».

Un binomio di erotismo e misticismo che si esalta nella figura del diavolo, come nell’opera Satan del 1923, dove torna il tema della castrazione, realizzata con effetti di luce che nascondono il fallo. In Kalmakoff la pittura non è mai decorazione e si arricchisce di simbologie e riferimenti culturali. Come chiari appaiono i richiami a Mir iskusstva, l’importante movimento promosso da un’associazione di artisti e letterati per un rinnovamento dell’arte russa, in connessione con le esperienze artistiche delle grandi capitali europee, a cui sono legati fra gli altri i nomi di Sergej Djagilev, Aleksandr Benois e Léon Bakst.

Forse col tempo, chi lo sa, avremo nuove storie da raccontare sulla sua vita e nuove opere da condividere. Perché ancora troppi sono i tesori dispersi che la storia ci vuole tenere nascosti, come sanno bene i cavalieri coraggiosi che la domenica mattina inforcano il destriero e si lanciano a esplorare mercati e cantine sperando di trovare, nascosto in una scatola consunta, il Sacro Graal.


Bacchanalia (1930).

ART E DOSSIER N. 346
ART E DOSSIER N. 346
Settembre 2017
In questo numero: GRAFICA ITALIANA La collezione Salce di Treviso; Lanerossi 1817-2017. NUOVI MUSEI Trieste: la fotografia; Messina: il Museo interdisciplinare. IN MOSTRA Intuition a Venezia, Ytalia a Firenze.Direttore: Philippe Daverio