LA RIVOLUZIONE
DELLA MACCHIA

La vicenda artistica di Signorini aveva avuto origine nelle sale chiassose e affumicate del Caffè Michelangelo,

frequentate anche da tutti i giovani pittori italiani e stranieri che passavano da Firenze e smaniavano per cambiare il mondo.

Erano state la sua vera palestra. Aveva infatti sempre rifiutato di entrare in Accademia, preferendo imparare il mestiere dal padre Giovanni, pittore del granduca, specializzato in vedute di Firenze, riprese solitamente dai colli, lungo l’Arno o nelle grandi piazze monumentali, frequentate dai ricchi turisti stranieri, soprattutto gli inglesi. Da loro, destinati a diventare i suoi principali collezionisti, Telemaco prenderà quello stile elegante e disinvolto, da dandy ironico e svagato, che lo contraddistinguerà sempre, nei modi e nel vestire. Molto diverso dalla ruvidezza campagnola che non riusciranno, o non vorranno, mai scrollarsi di dosso i suoi compagni di LA RIVOLUZIONE DELLA MACCHIA strada, in particolare Fattori e Lega. Una straordinaria serie di fotografie d’epoca ci restituisce perfettamente questo aspetto.
Nato a Firenze nel 1835, figlio d’arte come il grande amico ferrarese Boldini, amava ricordare come fosse stato costretto a seguire, nonostante la vocazione letteraria, la carriera pittorica, dove però riuscì subito a dimostrare la sua indole ribelle. Fu il primo, della nuova generazione dei postromantici, a rompere con le regole e a inventare un nuovo modo di dipingere. L’occasione furono i viaggi di studio a Venezia nel 1856 e nel 1858, e soprattutto i lunghi soggiorni tra le rive incontaminate del golfo di La Spezia, tra Lerici e Portovenere, sempre nel 1858 e nel 1860. In quello che era stato il romantico Golfo dei poeti, il luogo prediletto da Shelley e Byron, doveva nascere la prima rivoluzione della moderna pittura italiana.
L’attento studio dei grandi coloristi della scuola veneziana e degli straordinari effetti di luce provocati dai riflessi dell’acqua lungo i canali aveva prodotto delle piccole vedute assolutamente anticonvenzionali, di angoli mai rappresentati di Venezia, in particolare il popolare quartiere del ghetto, rappresentato in dipinti che fecero subito scandalo.
Le prime reazioni negative rispetto all’audacia e alla provocazione degli esperimenti macchiaioli presentati a Firenze, dopo il soggiorno di studio a Venezia del 1856, sono ricordate dalla Lettera informativa dove segnalava come «al mio ritorno […] ebbi i miei primi lavori rigettati dalla nostra Promotrice per eccessiva violenza di chiaroscuro e fui attaccato dai giornali come macchiajuolo». Ancora nel 1861, a proposito dell’esposizione torinese del Quartiere degli israeliti a Venezia precisava come «il più sovversivo dei miei dipinti, per eccesso di chiaroscuro» avesse sollevato «in Torino le più clamorose polemiche«.
Mentre, come ricorderà Cecioni nel 1884, in Liguria, insieme agli amici Cristiano Banti e Vincenzo Cabianca, altri due protagonisti della rivoluzione macchiaiola, tutti e tre «sorretti dal giovanile entusiasmo col quale a venticinque anni si va al mare quando ne sian nati lontani, e si studia l’arte», si erano «sfogati a trattare gli effetti di sole, dipingendo delle donne portanti delle brocche d’acqua in capo, quando di tono sul mare, quando sotto l’ombra di un arco col sole in fondo e sul davanti del quadro, e a forza di studi, lavori e tentativi arditissimi fecero, in tutto il tempo passato alla Spezia un vero progresso».
I risultati di questa prima esaltante stagione sono capolavori come Il merciaio di La Spezia, Pescivendole a Lerici, Acquaiole a La Spezia, dove umili momenti di vita quotidiana appaiono come sorpresi, bloccati attraverso il contrasto esasperato tra le parti in ombra e quelle investite da una luce zenitale, quella che isola nell’azzurro limpidissimo del cielo bianche nuvole striate.


Il merciaio di La Spezia (1859).

Il quartiere degli israeliti a Venezia (1860).

Pescivendole a Lerici (1860).


Acquaiole a La Spezia(1862).

Rispetto alla pittura di genere precedente, subentra alla narrazione particolareggiata una potente sintesi che domina la composizione e le figure ridotte appunto a macchie di luce e colore ricomponibili a una visione a distanza. Era dunque in quel sereno rifugio marino, e non tanto nella campagna toscana tra Piagentina e Castiglioncello, dove poi proseguiranno le sperimentazioni, che nasceva la Macchia, termine coniato per indicare appunto i volumi di colore intenso e luminoso, cioè senza più il chiaroscuro tradizionale, con cui erano composti i dipinti.
Oltre che su quello artistico Signorini era impeganto sul fronte politico e sociale. Già nel 1855 aveva dichiarato di leggere il «socialista» Proudhon, il grande ideologo di riferimento per l’ambiente progressista e un vero mito per i macchiaioli, e di diventare «apostata delle idee mazziniane». La voglia dunque di cambiare insieme con l’arte anche la società lo spinse nel 1859 a partecipare come volontario alla seconda guerra d’Indipendenza. Questa esperienza si trova riflessa in alcuni straordinari quadri di soggetto militare che non rappresentano però delle battaglie, ma degli episodi umanitari, come il trasporto dei feriti. Una scelta condivisa con altri pittori macchiaioli, se pensiamo alla mestizia dei dipinti che rappresentano le scene sorprese nelle retrovie, con protagonisti gli sconfitti, di Lega o alla dimensione antiretorica delle grandi battaglie di Fattori, a partire dallo straordinario Campo italiano dopo la battaglia di Magenta con cui vinceva addirittura il premio bandito nel 1859 dal ministro Bettino Ricasoli per un dipinto di storia contemporanea. Qualcosa di analogo suggellò l’altrimenti brevissimo cimento di Signorini in questo genere. Non sappiamo se sia stata la partecipazione morale o la novità dello stile, con quei superbi effetti di contrasto tra luci e ombre in primo piano, a fargli guadagnare la medaglia all’Esposizione nazionale di Firenze del 1861. Mentre un capolavoro come L’artiglieria toscana a Montechiaro salutata dai francesi feriti a Solferino era stato addirittura acquistato, come già ricordato, dal principe di Carignano all’esposizione della Società Promotrice nel 1859.

Avanti a braccia (1859); Firenze, palazzo Pitti, Galleria d’arte moderna.


L’artiglieria toscana a Montechiaro salutata dai francesi feriti a Solferino (1860).

Oltre che su quello artistico Signorini era impeganto sul fronte politico e sociale. Già nel 1855 aveva dichiarato di leggere il «socialista» Proudhon, il grande ideologo di riferimento per l’ambiente progressista e un vero mito per i macchiaioli, e di diventare «apostata delle idee mazziniane». La voglia dunque di cambiare insieme con l’arte anche la società lo spinse nel 1859 a partecipare come volontario alla seconda guerra d’Indipendenza. Questa esperienza si trova riflessa in alcuni straordinari quadri di soggetto militare che non rappresentano però delle battaglie, ma degli episodi umanitari, come il trasporto dei feriti. Una scelta condivisa con altri pittori macchiaioli, se pensiamo alla mestizia dei dipinti che rappresentano le scene sorprese nelle retrovie, con protagonisti gli sconfitti, di Lega o alla dimensione antiretorica delle grandi battaglie di Fattori, a partire dallo straordinario Campo italiano dopo la battaglia di Magenta con cui vinceva addirittura il premio bandito nel 1859 dal ministro Bettino Ricasoli per un dipinto di storia contemporanea. Qualcosa di analogo suggellò l’altrimenti brevissimo cimento di Signorini in questo genere. Non sappiamo se sia stata la partecipazione morale o la novità dello stile, con quei superbi effetti di contrasto tra luci e ombre in primo piano, a fargli guadagnare la medaglia all’Esposizione nazionale di Firenze del 1861. Mentre un capolavoro come L’artiglieria toscana a Montechiaro salutata dai francesi feriti a Solferino era stato addirittura acquistato, come già ricordato, dal principe di Carignano all’esposizione della Società Promotrice nel 1859.

Pascoli a Castiglioncello (1861). È una delle opere più emblematiche della “rivoluzione della Macchia”, quando i suoi protagonisti, come Fattori, Lega e Signorini, si ritrovarono, ospiti di Diego Martelli, il loro grande critico e mecenate, nella natura incontaminata di Castiglioncello, un luogo leggendario sulla costa toscana dove elaborarono un nuovo modo di dipingere basato sugli effetti di luce “estremi”.


Piagentina (1862-1865); Firenze, palazzo Pitti, Galleria d’arte moderna.

Dopo questa momentanea pausa di consenso, ritornando il pittore alla volgarità quotidiana della pittura realizzata “en plein air”, l’accoglienza sarà di nuovo controversa. Ne abbiamo un significativo riflesso in un testo popolare come il Viaggio attraverso l’esposizione italiana del 1861 di Yorick (pseudonimo dell’arguto scrittore livornese Pietro Coccoluto Ferrigni) che lo liquidò, ironicamente insieme a Cabianca e Borrani, tra gli esponenti «della scuola moderna degli effettisti», di cui «si dovrebbe dire come dello zelo: Pas trop n’en faut». Mentre a proposito di un quadro lì esposto, un caposaldo della sperimentazione macchiaiola come il solare Pascoli a Castiglioncello, aveva riferito quasi a farla propria l’irriverente incomprensione della sua straordinaria resa formale: «e finalmente», aveva sottolineato «un quadretto del signor Temistocle [sic] Signorini, uno de’ nuovi, conto dell’originalità di un’opera dove la campagna bruciata dall’estate della leggendaria località della Maremma frequentata dai macchaioli era stata resa nella sua essenza dominante che era lo splendore assoluto della luce.
Di fronte a tali reazioni sarà allora lo stesso Signorini a voler parlare di sé, recensendo tra l’ottobre e il novembre del 1862 l’esposizione della Società Promotrice di Firenze, in un momento in cui doveva considerare conclusa, come transitoria nella sua programmatica provocazione formale, la prima esperienza della Macchia. Argomentò come: «Nei lavori del Signorini, se troviamo da encomiare il suo intento di studiare la natura e di cercare in essa quei momenti che esprimono un carattere e ispirano un sentimento speciale, non sapremmo astenerci dal criticare una certa tendenza ad esagerare questo proposito inserendoci alcun che in cui una contadinella che guarda le sue vacche pascolanti si fa della mano vela alla faccia contro i raggi del sole che sferza, non velato da nubi, il campicello annesso all’umile capanna. Un maligno lo ha chiamato una frittata ripiena di vacche in gelatina!».
La spiritosa notazione dipendeva certamente anche dall’umiltà sconcertante del soggetto, ma dava paradossalmente di troppo soggettivo e individuale; tanto più se si considera quanto sia malagevole rendere col ministero dell’arte questi concetti, ed ottenere che il pubblico possa, al pari dell’artista, rendersi ragione di ciò che questi intese manifestare. Sebbene convinti delle difficoltà che egli tenta, non vorremmo con ciò mettergli dubbio alcuno, né distoglierlo dalla via in cui si è messo».

Asinello poppante (1860 circa); Piacenza, Galleria d’arte moderna Ricci Oddi.


La raccolta delle olive (1862-1863); Bari, Pinacoteca provinciale.

SIGNORINI
SIGNORINI
Fernando Mazzocca
La presente pubblicazione è dedicata a Telemaco Signorini (Firenze, 18 agosto 1835 - Firenze, 10 febbraio 1901). In sommario: Uno scrittore mancato; La rivoluzione della macchia; Il grande realismo di denuncia della condizione umana; Il sentimento della natura. Ritorno alla pittura en plein air; La fortuna delle vedute urbane tra Edimburgo e Firenze; La natura come rifugio tra Settignano e Riomaggiore; La consacrazione di uno spirito ribelle. Come tutte le monografie della collana Dossier d'art, una pubblicazione agile, ricca di belle riproduzioni a colori, completa di un utilissimo quadro cronologico e di una ricca bibliografia.