Con i grandi artisti delle Fiandre Fabre intrattiene un dialogo serrato, a volte ironico, a volte più introspettivo; con loro spartisce la poetica ancorata nel quotidiano, l’afflato spirituale che nasce dal corpo, dai suoi piaceri e dai suoi bisogni: la risata, la pulsione erotica, che nell’opera di Fabre spesso si accompagnano a una riflessione sulla morte e sul dolore, come nelle “vanitas” degli antichi, sono un’affermazione della perenne possibilità di metamorfosi e di rinascita, di inesauribile slancio vitale.
L’incontro non è privo di tormento e di senso di inadeguatezza: «Sono un nano al cospetto di giganti», dichiara l’artista. I let myself drain (dwarf) (Mi lascio sanguinare - nano), del 2007, l’opera che apre il percorso espositivo all’interno del museo, esplicita visivamente la perentoria affermazione di Fabre: un fantoccio in cera a grandezza naturale, con i suoi lineamenti, schiaccia il naso contro la copia di un’opera antica, fino a sanguinare. Dal naso, il sangue cola sul vetro del dipinto, gocciola sui piedi e schizza sul pavimento. Alle pareti, alcuni disegni realizzati con il sangue, della fine degli anni Settanta, testimoniano le sperimentazioni dell’artista, in quegli anni, con i fluidi corporei, con la materia vitale che diventa mezzo espressivo.
Accanto a San Luca disegna la Madonna col Bambino di Van der Weyden, il guanto di un’armatura da cavaliere sorregge una sfera rivestita con carapaci di scarabeo, da cui nasce una colonna vertebrale. L’identificazione dell’artista con il cavaliere rivestito dall’armatura - che nell’universo di Fabre è da avvicinare, nella figura corazzata e nella portata simbolica, agli insetti, dotati di un esoscheletro che nel tempo si trasforma - è ricorrente. Due armature con l’elmo a forma di testa di insetto si affiancano alle ricostruzioni di guerrieri a cavallo realizzate con le magnifiche armature d’epoca della collezione degli zar. Sulla scia di due celebri azioni del 2004, Virgin/Warrior, con Marina Abramović, e Lancelot, nel giugno 2016 Fabre ha realizzato nelle sale dell’Ermitage una nuova performance, Love is the Power Supreme, in cui l’artista, vestito con un’armatura da cavaliere, con gesti d’amore rende omaggio alla bellezza, testimonianza visibile della vita, rappresentata dalle opere d’arte.
La conversazione con la raccolta permanente si infittisce grazie alle Carnival Series, di cui le piccole e bizzarre figure richiamano e accompagnano La fiera e rappresentazione teatrale di Pieter Brueghel il Giovane, o il San Cristoforo di Jan Mandijn. Grandi pannelli interamente rivestiti con corazze di scarabeo verde, intitolati After the King Feast, si affiancano ai grandi dipinti fiamminghi del XVII secolo, mentre nella sala di Rubens, esemplari della serie The Hour Blue, realizzati con inchiostro di penna bic, sono avvicinati alla celebre personificazione di Anversa e soprattutto al Bacco, la cui fisionomia è entrata prepotentemente nell’immaginario di Fabre come figura-chiave del suo spettacolo teatrale Mount Olympus, rappresentazione di ventiquattro ore portata in scena finora due volte, ad Anversa e a Roma, in cui l’artista ha condensato molti dei motivi della propria poetica.
Nella stanza che ospita alcuni tra i più celebri ritratti di Antoon van Dyck, Fabre rovescia e quasi irride la magniloquenza delle pose di nobili e regnanti del tempo affiancando loro una serie di grandi bassorilievi in marmo di Carrara in cui sono rappresentati, di profilo e con il guizzo divertito di un cappellino a punta, i volti delle donne per lui importanti, le amiche, «le mie regine», accompagnati da un ritratto in marmo a tutto tondo e a figura intera (sempre con il copricapo carnevalesco) della principessa Elisabetta, quattordicenne, futura regina del Belgio. Una galleria di donne per una «pièce de résistence», così la definisce l’artista, nei confronti delle immagini di potere legate a una consuetudine molto spesso maschile e maschilista.
Un incredibile insieme di nature morte, scene di caccia e di cucina di Frans Snyders è sfondo visivo e simbolico per alcune opere tridimensionali create ad hoc: teschi umani rivestiti da cangianti corazze di insetti, che portano tra i denti piccoli animali impagliati - scoiattoli, gatti - o pennelli, si alternano ai dipinti in cui si individua la lepre tra le fauci del cane da caccia o il pesce ormai morto tra le mani della cuoca. Fanno eco, di fronte, due grandi sculture in cui un pavone impagliato e un cigno, rispettivamente, si ergono sopra due scheletri umani, rivestiti da corazze di insetti.
Preceduto da una serie di autoritratti in bronzo, ibridi tra uomo e animale, circondati da disegni antichi in tema, un grande angelo acefalo, dalle forme femminili, ricoperto da lucidi e bluastri carapaci di scarabeo, è al centro dell’ultima sala. I disegni a penna bic e gli studi fiamminghi sul tema dell’angelo o dell’amore pagano, esposti intorno, rivelano l’ambivalenza del suo ruolo di figura al contempo oggetto di desiderio carnale e portatrice di rivelazione spirituale, di messaggero di bellezza, di guardiano, senz’altro richiamo emblematico all’angelo con la croce, protettore e simbolo di San Pietroburgo, che sovrasta l’alta colonna nella piazza davanti all’Ermitage e la guglia della cattedrale dei Santi Pietro e Paolo.
Negli spazi del palazzo dello Stato maggiore si chiude il percorso espositivo: vicino alle grandi installazioni con animali impagliati e alle sculture di ossa, nonché a opere monumentali rivestite di carta colorata con il blu della penna bic, ricompare - vero trait d’union tra le due sezioni della mostra - il “cavaliere della disperazione / guerriero della bellezza”, nel video della performance Love is the Power Supreme, donato dall’artista e ora parte della collezione permanente del museo. Artista che alla soglia dei sessant’anni, dopo più di trent’anni di carriera, anche nei confronti dei suoi predecessori si sente molto più libero di quando ha cominciato, e questa retrospettiva lo dimostra. «Ci vuole una vita intera per diventare un giovane artista», dice, «per non farsi spaventare dalla storia».