XX secolo. 1
Salvador Dalí e l’infinito

COME
SCALARE
IL SACRO
MONTE

Un concetto denso di significati e difficilmente spiegabile attraverso un’unica interpretazione.
Qui proponiamo una triplice lettura dell’infinito avvalendoci di alcune opere di Salvador Dalí.

Daniele Trucco

Ci ricorda Diogene Laerzio(1) che quando chiesero a Talete che cosa fosse per lui la divinità, la risposta fu: «Quel che non ha principio né fine», definendo con astuzia “come colui che non sa” attraverso due negazioni di qualcosa che al contrario è conosciuto. A volte mancano i vocaboli giusti per dire le cose e dunque o li si conia ex novo o si ricorre a giri di parole: proprio sulla negatività, sull’antinomia tra l’esistenza e l’inesistenza dell’infinito si sviluppa tutta un’imprecisa etimologia del contrario. L’idea in-accessibile che si nasconde dietro all’in-finito è anch’essa in-finitamente in-esprimibile (in-effabile direbbero gli stilnovisti) e dunque lontana da un uomo che prova a scalare il sacro monte dell’infinito ma si ferma alla sua base e si accontenta di alcune sfumature: tra i molti apprezzabili tentativi ci sono anche quelli originalissimi di Salvador Dalí. In particolare, tra la grande mole di opere lasciateci da questo artista, riteniamo che almeno tre siano altamente significative perché saggiano ognuna una fetta diversa di infinito.


Metamorfosi di Narciso (1937), Londra, Tate.

(1) D. Laerzio, Vite dei filosofi, I, 36.

È una circolarità visiva che annienta la mancanza di circolarità logica quella creata nella Metamorfosi di Narciso (1937), anche se dal punto di vista meccanico si tratta di una semplice traslazione di una figura. 

Ciò che urge sapere all’osservatore però non è tanto il perché (ricavabile in ogni caso dal mito) ma il come dell’avvenimento soprannaturale. 

Tutto è già dato, in una sorta di assurda eternità simultaneamente immobile e in divenire: si osservi come i due Narcisi siano non solo riprodotti longitudinalmente ma anche latitudinalmente attraverso la specularità, sviluppando una simmetria tra quattro mondi differenti. Esattamente come nel sogno e nel delirio, laddove più piani temporali possono coesistere, anche nella Metamorfosi convivono le proiezioni inconsce e le loro interpretazioni, esattamente come il tempo della creazione e quello del compimento. 

Ciò che rende unica (nel senso di univoca) l’atmosfera ma soprattutto la costruzione del dipinto è la presenza simultanea di un Narciso adulto e del suo embrione floreale retto dalle dita, probabilmente, della Necessità (l’Ananke greca aleggia sulla scena facendo in modo che l’impossibile sia possibile). Se si tiene conto di questo fatto ciò che avviene sullo sfondo o non è mai avvenuto e dunque non esiste e non lo si deve vedere; o avverrà nel lasso di tempo della metamorfosi, qui rappresentata sincronicamente. 

In ogni caso l’occhio sembra non avere tempo per badare al dettaglio perché è obbligato a spostarsi circolarmente da un Narciso all’altro, dal prima al dopo, in un moto vorticoso che ricorda il concetto sotteso all’“enso” giapponese e che riproduce un tipo particolare di infinito: quello circolare. Siamo di fronte a un’estremizzazione di soggetti cari già all’arte antica, soggetti che tentavano di rendere, attraverso la simultaneità delle azioni sacre, l’onnipotente visione del tempo della divinità(2)

Nella Galatea con sfere (1952) Dalí ritorna sull’infinito ma in modo ingannevole: verrebbe di primo acchito da associarne il concetto elaborato nella tela a quello della ricerca impossibile di un punto di fuga. Non è l’infinito che ci interessa, e forse non lo è stato nemmeno per Dalí. Crediamo sia invece una delle migliori rappresentazioni visive del “multiverso”, complicatissima teoria nata come branca parallela agli studi effettuati sul comportamento delle particelle in fisica quantistica; l’ipotesi, teorizzata scientificamente solo nel 1957 dal fisico statunitense Hugh Everett III e tornata ultimamente di moda poiché applicata alla teoria del biocentrismo del “chiacchierato” dottor Robert Lanza, prevede che l’universo sia sfaccettato in molte (infinite?) dimensioni parallele quante sono le varianti possibili di un’operazione. In altre parole i sentieri che si biforcano condurrebbero sempre e comunque da qualche parte, in questo o in un altro mondo(3)

Per Dalí si trattò di conciliare l’arte con la fisica di Heisenberg; ciò che illustri studiosi quali Klein o Mathieu stavano indagando dal punto di vista scientifico, diventava nelle sue mani materia per la creazione di una nuova estetica. 

Dopo tali premesse si provi a osservare con attenzione la tela: ogni sfera è una parte possibile del tutto. 

Ogni sfera racchiude quindi in se stessa un’esistenza ma non tutte le esistenze. La contemporaneità degli avvenimenti si ottiene sezionando il soggetto con un ideale piano verticale, quasi fosse una tomografia assiale: man mano che si procede verso la profondità del quadro il volto di Gala[tea], escluso dalla nostra visione, non potrà che essere necessariamente (ecco di nuovo la Necessità) differente da quello che emerge in superficie. Ci saranno allora una Galatea triste, una allegra, una vecchissima e sicuramente una Galatea assente o ancora da venire. 

La scelta dell’artista è stata comunque quella di fermare una e una sola fra le infinite istantanee escludendo metà degli inifniti possibili (quelli che dovrebbero continuare verso lo spettatore) ma che non ci permetterebbero di scorgere alcuna immagine distinguibile. 

Dall’infinita molteplicità all’impuntarsi del tempo (di tutto il tempo) in un solo attimo. Quella dell’Ultima cena (1955) è la raffigurazione del compimento e dell’istante universale: il tempo è condensato all’interno della figura di Cristo-Gala, l’androgino che racchiude in sé la “coniunctio oppositorum”. Egli è l’asse di simmetria perfetto nella disposizione del tutto, anche nelle posture, nelle capigliature e nelle pieghe dell’abbigliamento dei commensali. Dodici sono gli apostoli (si noti come Giuda non possa essere individuato) come dodici sono le ore del giorno e le facce identiche del dodecaedro, figura platonica della perfezione perché, tra i cinque solidi inscritti in una sfera, è quella di volume maggiore e quindi più prossima alla perfezione. 

La trasparenza della struttura del solido (che assurdamente proietta ombra di se stesso) e anche del Cristo (che viceversa non possiede ombre) sono una delle chiavi di lettura del quadro: il momento storico in cui viene consumata l’Ultima cena va a fondersi in trasparenza con qualunque altro istante del mondo vissuto. Ecco il perché della baia di Port Lligat sullo sfondo, immagine cara a Dalí e universalizzata dopo essere prima stata ricordo personale; l’attimo della cena è l’attimo universale ed eterno e il Cristo centrale è lo gnomone senza ombra di una meridiana ideale in grado di indicarci con il suo essere diafano tutto il tempo e nessun tempo.


Il concetto elaborato nella tela è la ricerca impossibile di un punto di fuga


Galatea con sfere (1952), Figueres, Fundación Gala-Salvador Dalí.

(2) Si pensi alla Passione di Cristo (1470) di Memling o alle Prove di Cristo (1481-1482) di Botticelli in cui tutta una vicenda che abbraccia un certo lasso temporale è rappresentata come se fosse vista simultaneamente.
(3) A tal proposito suggerisco la visione del film Mulholland Drive, di David Lynch, poiché una sua suggestiva interpretazione potrebbe essere quella a “molti mondi”, esattamente come quella del quadro di Dalí.

La raffigurazione del compimento e dell'istante universale


Il mezzo busto acefalo che sovrasta l’azione, normalmente interpretato dalla critica come messaggio della trasfigurazione, è più probabilmente il regolo vitruviano-leonardesco in grado di misurare la dimensione delle cose. L’iconografia classica della trasfigurazione prevede che il Cristo elevi le braccia al cielo e/o rivolga se non altro i palmi verso l’alto; il quadro di Dalí suggerisce tutt’altra cosa: l’uomo (non necessariamente Cristo) abbraccia ciò che è e non tende a ciò che sarà. L’attimo, come detto, è eterno e non si proietta né verso il futuro, né verso il passato; dunque non è un messaggio escatologico ma razionalmente logico.


Ultima cena (1955), Washington, National Gallery of Art.

IN MOSTRA

Quale legame ha Salvador Dalí con l’arte del passato? A questa domanda risponde l’esposizione Dalí. Il sogno del classico a Pisa nelle sale di Palazzo blu (lungarno Gambacorti 9, orario 10-19, sabato e domenica 10-20, chiuso lunedì, fino al 5 febbraio, www.palazzoblu. it), volta a dimostrare in particolare la conoscenza della cultura del Rinascimento da parte del maestro spagnolo. Tra le opere, circa centocinquanta in totale, provenienti dalla Fundación Gala-Salvador Dalí di Figueres, dal Dalí Museum di St. Petersburg in Florida e dai Musei vaticani, ne troviamo alcune poco conosciute e inedite quali Senza titolo. Giuliano de’ Medici dalla Tomba di Giuliano de’ Medici di Michelangelo o Senza titolo. Mosè dalla Tomba di Giulio II (sempre di Michelangelo) risalenti agli anni Ottanta, ultima fase creativa dell’artista. Insieme ai dipinti, la serie completa di xilografie sulla Divina commedia, realizzate da Dalí negli anni Cinquanta su commissione dell’allora ministro della Pubblica istruzione. La serie però suscitò in Parlamento le reazioni negative dell’opposizione, contraria al fatto che uno spagnolo illustrasse un capolavoro italiano. Per questo motivo Dalí concesse i diritti di riproduzione a un editore francese, Joseph Forêt, che nel 1963 pubblicò un’edizione integrale del capolavoro di Dante Alighieri con le stampe originali del grande esponente del surrealismo. Infine oltre venti disegni e acquerelli ispirati alla Vita di Benvenuto Cellini. La mostra, a cura di Montse Aguer, è corredata da un catalogo edito da Skira.


Senza titolo. Giuliano de’ Medici dalla Tomba di Giuliano de’ Medici di Michelangelo (1982), Figueres, Fundación Gala-Salvador Dalí.

ART E DOSSIER N. 339
ART E DOSSIER N. 339
GENNAIO 2017
In questo numero: ARTE, PASSIONE, POTERE Kokoschka e Alma Mahler: una relazione tormentata. I Gentileschi: un rapporto spezzato. Gesmar e le dive Belle Epoque. IN MOSTRA Fabre a San Pietroburgo, Liberty a Reggio Emilia, Ottocento italiano a Viareggio, Scrittura mesopotamica a Venezia.Direttore: Philippe Daverio