È una circolarità visiva che annienta la mancanza di circolarità logica quella creata nella Metamorfosi di Narciso (1937), anche se dal punto di vista meccanico si tratta di una semplice traslazione di una figura.
Ciò che urge sapere all’osservatore però non è tanto il perché (ricavabile in ogni caso dal mito) ma il come dell’avvenimento soprannaturale.
Tutto è già dato, in una sorta di assurda eternità simultaneamente immobile e in divenire: si osservi come i due Narcisi siano non solo riprodotti longitudinalmente ma anche latitudinalmente attraverso la specularità, sviluppando una simmetria tra quattro mondi differenti. Esattamente come nel sogno e nel delirio, laddove più piani temporali possono coesistere, anche nella Metamorfosi convivono le proiezioni inconsce e le loro interpretazioni, esattamente come il tempo della creazione e quello del compimento.
Ciò che rende unica (nel senso di univoca) l’atmosfera ma soprattutto la costruzione del dipinto è la presenza simultanea di un Narciso adulto e del suo embrione floreale retto dalle dita, probabilmente, della Necessità (l’Ananke greca aleggia sulla scena facendo in modo che l’impossibile sia possibile). Se si tiene conto di questo fatto ciò che avviene sullo sfondo o non è mai avvenuto e dunque non esiste e non lo si deve vedere; o avverrà nel lasso di tempo della metamorfosi, qui rappresentata sincronicamente.
In ogni caso l’occhio sembra non avere tempo per badare al dettaglio perché è obbligato a spostarsi circolarmente da un Narciso all’altro, dal prima al dopo, in un moto vorticoso che ricorda il concetto sotteso all’“enso” giapponese e che riproduce un tipo particolare di infinito: quello circolare. Siamo di fronte a un’estremizzazione di soggetti cari già all’arte antica, soggetti che tentavano di rendere, attraverso la simultaneità delle azioni sacre, l’onnipotente visione del tempo della divinità(2).
Nella Galatea con sfere (1952) Dalí ritorna sull’infinito ma in modo ingannevole: verrebbe di primo acchito da associarne il concetto elaborato nella tela a quello della ricerca impossibile di un punto di fuga. Non è l’infinito che ci interessa, e forse non lo è stato nemmeno per Dalí. Crediamo sia invece una delle migliori rappresentazioni visive del “multiverso”, complicatissima teoria nata come branca parallela agli studi effettuati sul comportamento delle particelle in fisica quantistica; l’ipotesi, teorizzata scientificamente solo nel 1957 dal fisico statunitense Hugh Everett III e tornata ultimamente di moda poiché applicata alla teoria del biocentrismo del “chiacchierato” dottor Robert Lanza, prevede che l’universo sia sfaccettato in molte (infinite?) dimensioni parallele quante sono le varianti possibili di un’operazione. In altre parole i sentieri che si biforcano condurrebbero sempre e comunque da qualche parte, in questo o in un altro mondo(3).
Per Dalí si trattò di conciliare l’arte con la fisica di Heisenberg; ciò che illustri studiosi quali Klein o Mathieu stavano indagando dal punto di vista scientifico, diventava nelle sue mani materia per la creazione di una nuova estetica.
Dopo tali premesse si provi a osservare con attenzione la tela: ogni sfera è una parte possibile del tutto.
Ogni sfera racchiude quindi in se stessa un’esistenza ma non tutte le esistenze. La contemporaneità degli avvenimenti si ottiene sezionando il soggetto con un ideale piano verticale, quasi fosse una tomografia assiale: man mano che si procede verso la profondità del quadro il volto di Gala[tea], escluso dalla nostra visione, non potrà che essere necessariamente (ecco di nuovo la Necessità) differente da quello che emerge in superficie. Ci saranno allora una Galatea triste, una allegra, una vecchissima e sicuramente una Galatea assente o ancora da venire.
La scelta dell’artista è stata comunque quella di fermare una e una sola fra le infinite istantanee escludendo metà degli inifniti possibili (quelli che dovrebbero continuare verso lo spettatore) ma che non ci permetterebbero di scorgere alcuna immagine distinguibile.
Dall’infinita molteplicità all’impuntarsi del tempo (di tutto il tempo) in un solo attimo. Quella dell’Ultima cena (1955) è la raffigurazione del compimento e dell’istante universale: il tempo è condensato all’interno della figura di Cristo-Gala, l’androgino che racchiude in sé la “coniunctio oppositorum”. Egli è l’asse di simmetria perfetto nella disposizione del tutto, anche nelle posture, nelle capigliature e nelle pieghe dell’abbigliamento dei commensali. Dodici sono gli apostoli (si noti come Giuda non possa essere individuato) come dodici sono le ore del giorno e le facce identiche del dodecaedro, figura platonica della perfezione perché, tra i cinque solidi inscritti in una sfera, è quella di volume maggiore e quindi più prossima alla perfezione.
La trasparenza della struttura del solido (che assurdamente proietta ombra di se stesso) e anche del Cristo (che viceversa non possiede ombre) sono una delle chiavi di lettura del quadro: il momento storico in cui viene consumata l’Ultima cena va a fondersi in trasparenza con qualunque altro istante del mondo vissuto. Ecco il perché della baia di Port Lligat sullo sfondo, immagine cara a Dalí e universalizzata dopo essere prima stata ricordo personale; l’attimo della cena è l’attimo universale ed eterno e il Cristo centrale è lo gnomone senza ombra di una meridiana ideale in grado di indicarci con il suo essere diafano tutto il tempo e nessun tempo.