WaRhol e l’ameRIca.
l’aRte pop tRa “dIaRIo IntImo”
e “socIologIa”

Se passiamo a considerare le prime immagini pop di Warhol, eseguite nel 1960 con colori acrilici, osserviamo come la transizione sia rapida e irreversibile.

L'artista “fiore di serra” dei disegni a inchiostro e foglia d’oro si trasforma adesso in un brutale paesaggista urbano di tradizione futurista e dada. Annunci, loghi, grafiche di giornale, etichette di prodotti da supermercato e spoglie tavole anatomiche si affollano su tele che celebrano la precisione tecnica e la ripetibilità dello stereotipo. Tutto ciò che sino ad alcuni anni prima si offriva in forma esitante o ritrosa è espulso dal processo creativo, che diviene esclamativo e vigoroso. Il culto delle convenzioni linguistico-ideografiche della pubblicità prende il posto del tratto incerto da “libro d’ore”.

Tutto suggerisce che Warhol, nel dare avvio al periodo pop, si lasci alle spalle inclinazioni simboliche e memorie storico-artistiche. Ma è davvero così? Storici e critici americani hanno giocato a “nazionalizzare” l’Arte pop, rivendicandone la piena indipendenza da precedenti europei. Nella citazione posta in epigrafe di questo saggio Geldzahler, critico e curatore amico di Warhol, descrive la Pop Art come «un nuovo regionalismo americano »: ai suoi occhi, è evidente, dobbiamo cercare le fonti pop nelle “sottoculture” del cinema e della pubblicità. Tutto chiaro dunque? Cerchiamo di spostare il punto di vista.

Due mostre di esordienti, sul finire degli anni Cinquanta, mutano improvvisamente la scena artistica newyorkese. Johns (1930) e Rauschenberg (1925-2008) espongono da Leo Castelli, gallerista italiano di origini ebraiche riparato in America per sfuggire alla persecuzione razziale. Castelli è un abile imprenditore: Warhol lo corteggerà a lungo senza mai riuscire a convincerlo del tutto. Affabile, cortese, grande lavoratore, applica al mercato dell’arte principi aziendali. Investe in pubblicità, sostiene economicamente gli artisti con cui sceglie di collaborare, li rappresenta in esclusiva mirando a una distribuzione planetaria.

Per raggiungere quest’ultimo obiettivo, particolarmente ambizioso per un gallerista, non esita a stabilire rapporti di franchising con galleristi europei, come Konrad Fischer a Colonia e Gian Enzo Sperone a Torino. Ma è soprattutto l’ex moglie di Castelli, Ileana Sonnabend, a costituire la più efficace testa di ponte della Galleria Castelli in Europa. Dopo un breve e burrascoso interregno romano, Sonnabend apre una propria galleria a Parigi nel 1962. La galleria di Sonnabend non è una mera succursale parigina della galleria di Castelli: Ileana mostrerà sempre uno spiccato gusto individuale e autonomia di conduzione. Malgrado il divorzio, tuttavia, la sua partnership imprenditoriale con Leo è solida. Tanto Johns quanto Rauschenberg ne beneficiano precocemente, esponendo a Parigi e ampliando così la propria fama europea prima che importanti riconoscimenti istituzionali giungano a consolidarla (Rauschenberg ottiene il Leone d’oro alla Biennale di Venezia del 1964).

Considerati oggi, a distanza di decenni, Johns e Rauschenberg ci sembrano artisti molto diversi tra di loro, persino conflittuali. Tuttavia al tempo si ha una percezione meno chiara e definita della novità che ciascuno rappresenta. Appaiono irriconducibili all’espressionismo astratto, da cui si distanziano con gli strumenti della polemica e dell’ironia. Introdotti dal loro mentore, Cage, all’arte (e in seguito all’amicizia) di Duchamp, possono accedere a una tradizione che la generazione più anziana ignora.


Controporta (1961).

Le loro opere, accomunate in tutta fretta dall’etichetta del “New Dada”, sono figurative, colme di riferimenti al mondo circostante e incuranti del dogma formalistico della bidimensionalità. Popolati dagli oggetti più disparati e persino da animali in tassidermia, gli assemblaggi di Rauschenberg riconoscono dignità artistica a tutte le cose del mondo. La loro “joie de vivre”, resa qui e là più manifesta da gustosi riferimenti a Charlie Chaplin, prende vistosamente le distanze dal pathos tragico-eroico dell’arte astratto-espressionista. Le composizioni di Johns appaiono più controllate ma non meno eretiche. In entrambi mancano i riferimenti alla tradizione mistico-esoterica dello “spirituale” e compaiono invece “ready-mades” o inattese citazioni di luoghi comuni figurativi, come i bersagli del tiro a segno o la bandiera americana.


Jasper Johns, Bersaglio con calchi in gesso (1955).

Warhol, Dal’, Rauschenberg
Possiamo tracciare una linea retta tra Johns e Rauschenberg da un lato, Warhol dall’altro? Senz’altro sì. Non dobbiamo anzi esitare a farlo. Warhol, che dedica un celebre omaggio a Rauschenberg nel 1963, dall’inequivoco titolo di Lode agli uomini famosi, è affascinato dalla versatilità con cui Rauschenberg recluta oggetti quotidiani per i “combine-paintings” più grandiosi. Ma i motivi della sua ammirazione sono diramati e profondi. A cavallo tra Cinquanta e Sessanta, Rauschenberg impone agli artisti della sua generazione (o di poco più giovani) quell’atteggiamento di entusiastica disponibilità al mondo e di disinvolta magniloquenza che distingue la Pop Art americana dalla Pop inglese, cronologicamente anteriore.
Pop deriva dall’inglese “popular”: potremmo tradurre il termine in italiano con gli aggettivi “demotico” o “vernacolare”. L’interesse colto per la cultura visiva delle classi medie nasce in Inghilterra subito dopo la seconda guerra mondiale e si sviluppa negli Stati Uniti nei secondi anni Cinquanta. Rivela tratti di continuità tra la Pop nascente e l’esplorazione già dada- surrealista dello stereotipo figurativo, l’immagine commerciale o l’illustrazione scientifica da assortire liberamente in collage vivaci e maliziosi.

Lode agli uomini famosi (1963). Warhol è abitualmente a suo agio con l’arte dell’adulazione e dell’encomio. Qui rende omaggio a Rauschenberg, al tempo l’artista americano forse più celebre e corteggiato, rappresentato dalla galleria di Leo Castelli.

Nell’eseguire i “combine-paintings”, a partire dal 1954 Rauschenberg aggiunge elementi decisivi agli ingredienti dell’“ immagine commista” di tradizione europea: l’ambizione monumentale, che spinge la pratica del collage verso esiti inattesi, tali da sfidare la pittura dei musei; l’eclettica combinazione, entro la stessa immagine, di pittura, ready-made e fotografia; e un sottile pathos apostolico e neopagano insieme, vicino alla poesia di Walt Whitman, che si intreccia intimamente alla celebrazione del carattere democratico della società americana e al suo primato culturale e tecnologico.

Per quanto solitamente si insista sul rapporto diretto tra il New Dada newyorkese e Duchamp, la commistione di sacro e profano che troviamo nei “combinepaintings” di Rauschenberg non ha niente in comune con l’autore del Grande vetro, così come l’enfasi patriottica che diviene in Rauschenberg via via più riconoscibile a partire dai primi anni Sessanta (e che subentra all’atteggiamento giovanile di sottile derisione del conformismo delle classi medie, da cui l’artista stesso proviene). Rimandano invece ad altre e più segrete influenze.


Robert Rauschenberg, Coca Cola Plan (1958); Los Angeles, MoCA - Museum of Contemporary Art.


Salvador Dalí, La poesia d’America: atleti cosmici (1943); Figueres, Fundació Gala-Salvador Dalí.

«Mi dispiace davvero che alcune persone ritengano orribili saponette, specchi o bottigliette di Coca Cola», confida Rauschenberg in una circostanza cruciale. «Perché queste persone vivono tutti i giorni tra oggetti simili, e la circostanza deve farli sentire profondamente infelici». Come non riconoscere, in questa proposta di innalzamento di uno standard industriale - la bottiglietta di Coca Cola, appunto - a oggetto rituale, l’eredità di Dalí, che per primo, rifugiatosi negli Stati Uniti per sfuggire alle violenze della seconda guerra mondiale, insegna a cercare proprio nella bottiglietta della Coca Cola la legittimità del “nuovo ordine” mondiale, amministrato dall’“impero” americano?

Nel grande quadro La poesia d’America, dipinto da Dalí nel 1943, troviamo la bottiglietta al centro della composizione: ne fuoriesce, in forma di stilla, un cuore allegorico che si raccoglie a terra. Il “mistico” cuore d’America, suggerisce Dalí, pulsa per l’uguaglianza che unisce milioni di cittadini-consumatori e si riflette nei costumi atletici della grande nazione democratica. 


Cinque bottiglie di Coca Cola (1962).

Dalí rimane negli Stati Uniti dal 1939 al 1947, esponendosi al pettegolezzo e accrescendo in modo spregiudicato la propria notorietà, tanto da conquistarsi l’aperta riprovazione di André Breton (1896-1966). Negli stessi anni si riavvicina al cattolicesimo e lancia accattivanti profezie filoamericane. Queste non sono certo destinate a passare inosservate: la più giovane generazione, avviata a raggiungere la maturità nel decennio postbellico, ha ragioni sin troppo valide per coltivare sentimenti antieuropei.
Torniamo a Warhol e richiamiamo alla mente il suo celebre motto su ciò che costituisce il primato americano. Verifichiamo istantaneamente la rapida propagazione del mito a stelle e strisce divulgato da Dalí e Rauschenberg. «Quel che è davvero grande in questo paese», cinguetta Warhol, «è che in America si è affermato il costume secondo cui il consumatore più ricco compra essenzialmente le stesse cose del consumatore più povero. Mentre guardi la pubblicità della Coca Cola in televisione, sai che anche il tuo presidente beve Coca Cola. Liz Taylor beve Coca Cola e anche tu puoi berla. Una Coca Cola è una Coca Cola e nessuna somma di denaro ti può garantire una Coca miglior di quella che beve il barbone all’angolo della strada. Ogni Coca Cola è uguale a tutte le altre e ognuna è ugualmente buona. Liz Taylor lo sa, lo sanno il presidente e il barbone e anche tu lo sai». L’affermazione trova puntuale conferma nelle opere, e contribuisce a situare l’attività dell’artista nel contesto sottilmente “chauvinista” degli anni Sessanta americani.

Ci si è spesso interrogati sulle opinioni politiche di Warhol, che a molti sono sembrate orientate a destra, in senso moderatamente repubblicano. L’artista, che nel 1963 dedica un’ampia serie alla Statua della libertà, si è espresso a più riprese in proposito, alternando ironiche ammissioni e ambigue boutade.

All’indomani delle elezioni presidenziali del 1984, che conferiscono a Reagan il suo secondo mandato, Warhol rivela all’intervistatrice di avere votato «i vincitori». Non esistono motivi per dubitare di quanto Warhol stesso afferma nell’occasione, e che pare in linea, più che con astratte questioni ideologiche, libertariane o altro, con l’importanza da lui sempre attribuita al “lavoro”. Possiamo nutrire dubbi sulla saldezza o profondità della sua fede politica, che nel periodo giovanile sembra essersi invece orientata in senso più progressista, vicino alle posizioni democratiche. Pare comunque eccessivo voler fare dell’artista una sorta di critico dell’«ideologia americana», se non il paladino delle «vittime [del capitalismo] e cioè i consumatori» (Benjamin Buchloh). Warhol non ha mai preteso di essere un artista politico. È vero però che ha fatto di tutto, con le prime serie serigrafiche, per poter essere scambiato per tale. È facile attribuire stringenti propositi di denuncia alle immagini più crude del periodo pop, databili al triennio 1962-1964: tra queste gli incidenti d’auto, i tumulti razziali, le esplosioni atomiche, la serie dei ricercati e infine le sedie elettriche. L’atteggiamento dell’artista è tuttavia mimetico o strategicamente opportunistico.


Bomba atomica (1965); Londra, Saatchi Gallery.

Incidente automobilistico Op-Art (1962); Basilea, Öffentliche Kunstsammlung.


Disordine razziale color senape (1963).


Grande sedia elettrica (1967); Stoccolma, Moderna Museet.

Warhol si muove come un direttore di tabloid o di telegiornale che intenda rivolgersi a una platea quanto più possibile ampia e indifferenziata di spettatori. Sceglie immagini (o “notizie”) suscettibili di avvincere un pubblico avido di intrighi e sciagure. Celebrità autodistruttive, il volto di Kennedy appena ucciso o di Jacqueline straziata dal dolore, avvelenamenti, suicidi: agli occhi di Warhol tutto questo è verosimilmente niente più che il pasto per le belve. A rigore non possiamo neppure dire che Warhol dia libero corso al cinismo pur di alzare lo share e trarre vantaggio dal voyeurismo delle folle. La sua mancanza di coinvolgimento riflette in realtà una convinzione radicata: non ritiene interessante commentare in pubblico né comunicare il suo stato d’animo individuale, cui non attribuisce particolare rilievo. L’artista che sta dietro agli stormi di bombardieri o ai funghi atomici non è troppo diverso da quello che, poco prima, con tecnica diversa, ha dipinto fasci di banconote o adulteri a corte. Warhol insegue, raccoglie e edita immagini che non lascino indifferenti. Sperimenta su sé per primo questo livello di dipendenza anonima e collettiva.

Alcuni temi delle più famose serie serigrafiche sono omaggi o citazioni indirette, facilmente riconoscibili come tali e utili a supportare le ambizioni di Warhol, che desidera essere riconosciuto come artista tout court anche da quanti, come Rauschenberg o Johns, considerano con condiscendenza o tollerano a malapena la sua attività. Le Monne Lise del 1962 evocano la beffa duchampiana di L.H.O.O.Q., celebre “ready-made” ritoccato del 1919, in cui Duchamp aggiunge barba e baffi alla Gioconda; e le Mona Lisa di Rauschenberg, datate 1958. La serie degli Uomini più ricercati, esposta sulla parete d’ingresso del padiglione dello Stato di New York all’Esposizione universale di New York, tenutasi nel 1964, rimanda pur sempre a Duchamp, che nel 1923, con Duchamp Wanted, aveva modificato la locandinatipo usata dalla polizia newyorkese per inserire il proprio volto. Nell’attingere a piene mani da quotidiani e rotocalchi a fini di autopromozione si muove nel solco di un’astuta e venerabile tradizione che ha alle origini i “papiers collés” di Picasso. Già qui, attraverso ritagli di giornali scelti strategicamente in base alle notizie riportate e disposti in modo segnaletico, l’immagine si trasforma in una sorta di edicola. L’attualità per così dire svetta e induce lo spettatore a sostare, aumentando a dismisura l’importanza delle novità stilistiche o formali.


Sedici Jackie (1964); Minneapolis, Walker Art Center.

Un ragazzo per Meg (1961); Washington, National Gallery of Art.


I tredici uomini più ricercati (1964), installazione sulla parete esterna del padiglione dello Stato di New York in occasione dell’Esposizione universale di New York del 1964.

Marcel Duchamp, Duchamp Wanted (1923).


Pablo Picasso, Chitarra, spartito e bicchiere (1912); San Antonio (Texas), McNay Art Museum.

WARHOL
WARHOL
Michele Dantini
Un dossier dedicato a Andy Warhol (Pittsburgh 1928 - New York 1987), il padrino della Pop Art. In sommario: Introduzione; La tradizione dada-concettuale; Pittura e cinema; Le tribù della Factory e il cinema underground; Artista, produttore, imprenditore; I disegni giovanili a inchiostro e foglia d'oro. Warhol e le primizie dello stile ''camp''; Warhol e l'America. L'arte pop tra ''diario intimo'' e ''sociologia''; Wahrol, Dalì, Rauschenberg; La stampa serigrafica e le sue implicazioni sul piano dello ''stile''; Wahrol, Johns e l'eredità americana di Duchamp; Zuppe, Campbell e celebrità hollywoodiane; La scatola Brillo; L'ultimo Warhol. Teschi, omaggi, ''camouflages''. Come tutte le monografie della collana Dossier d'art, una pubblicazione agile, ricca di belle riproduzioni a colori, completa di un utilissimo quadro cronologico e di una ricca bibliografia.