la stampa seRIgRafIca
e le sue ImplIcazIonI
sul pIano dello “stIle”

A partire dal 1962 la tecnica di Warhol mostra un mutamento sostanziale. Nei ritratti multipli dei divi del cinema o nelle luttuose immagini di cronaca Warhol introduce un nuovo procedimento, la stampa serigrafica. Così chiamata perché affidata in origine a un tessuto di seta, questo particolare tipo di stampa lo aiuta a mettere a punto uno stile (o meglio un “antistile”) meccanico o paratipografico. È facile cogliere la differenza da quanto precede.

Nelle prime composizioni pop del 1960, nei dipinti di lattine della zuppa Campbell o delle bottigliette di Coca Cola, Warhol dipinge a mano con colori acrilici, impiegando tinte vivaci e definendo talvolta a matita un dettaglio. In seguito prescinde invece da matita e pennello per servirsi di una matrice in tessuto montata su telaio. Imbevuta di colore in base all’immagine designata, la matrice è impressa sulla tela una sola volta o un numero imprecisato di volte, secondo le esigenze dell’artista. Nascono così immagini costituite da sequenze di immagini più piccole, caratterizzate da ripetizione e uniformità. L’effetto è sconcertante, suggerisce impersonalità e disattende il criterio dell’“autografia”, così strettamente unito al nostro interesse per la storia dell’arte, le opere dei maestri o le collezioni dei musei.

«Qualcuno ha detto che Brecht voleva che tutti pensassero nella stessa maniera. Anch’io voglio che tutti pensino nella stessa maniera. Brecht voleva riuscirci con il comunismo. Il regime sovietico ottiene lo stesso risultato con le sue politiche di governo, negli Stati Uniti invece questo avviene spontaneamente, senza necessità di un regime coercitivo. Perché funziona da sé - e perché mai non dovrebbe funzionare senza comunismo?

Tutti si assomigliano e tutti si comportano in modo identico, e questo è vero per una maggioranza sempre crescente di persone. Penso che tutti dovrebbero essere delle macchine, e che tutti dovrebbero amare tutti». Cosa ci rivelano, sull’attività di Warhol, affermazioni come questa appena citata, tanto casuale e svagata (in apparenza) da sembrarci derivata da un manuale di “comunismo per dummies”, eppure a suo modo acuta e paradossale?

Con il passaggio alla serigrafia Warhol accoglie e rilancia la polemica postbellica contro la tradizione liberale delle arti e il culto dei “classici del moderno”, come Picasso, Matisse e soprattutto Dalí. Le loro opere, contestano minimalisti e “post-painterly” come Ad Reinhardt (1913-1967) o Frank Stella (1936), sono sì ricercate avidamente dai più facoltosi collezionisti della East Coast ed esibite come trofei di buon gusto o preminenza sociale. Tradiscono però il tratto democratico della società americana e, nel diffondere attitudini decadenti, incoraggiano un apprezzamento idolatrico della sensibilità individuale. A differenza della “squisitezza” europea, l’arte americana dovrà consolidare il costume di una razionalità egualitaria: sarà semplice, robusta, efficace, regolare (un po’ come una buona vecchia Ford modello T). Non è interessante discutere adesso la legittimità dell’argomento polemico quanto mostrarne le implicazioni per l’attività di Warhol. La ricerca di standard spinge l’artista in direzioni nuove e radicali. Torniamo alle serie serigrafiche: non solo la mano non prende parte diretta all’esecuzione, ma le “sporcizie” connesse ai processi di impermeabilizzazione e inchiostrazione della matrice, a irregolarità di costruzione o alla progressiva perdita di definizione dei contorni del disegno contribuiscono al processo di stampa, che accoglie un gran numero di casualità al suo interno. Il motivo dei biglietti di banca, cui Warhol ricorre più volte nel 1962, corrisponde argutamente all’intenzione di “banalità”. Lo verifichiamo facilmente considerando le Ottanta banconote da due dollari, recto e verso (1962). Non ancora separate l’una dall’altra, le banconote sembrano appena uscite dalla Zecca di Stato, esito di un procedimento artistico-industriale al cui interno l’abilità del singolo artista non gioca alcun ruolo.


Ottanta banconote da due dollari, recto e verso (1962); Colonia, Museum Ludwig.

Warhol, Johns e l’eredità americana di Duchamp
Nel trattare di Rauschenberg e Warhol abbiamo toccato un punto che merita maggiore attenzione. Qual è il rapporto tra “journal intime” (cioè diario segreto) e “sociologia” nell’immagine new dada e pop? In altre parole: qual è il criterio in base al quale gli artisti giungono a scegliere i propri temi? Dobbiamo ritenere che questa scelta maturi attraverso segrete corrispondenze tra “motivi” ed esistenza individuale, quasi si trattasse di fantasie o capricci; oppure faremmo meglio ad avvicinare le opere da punti di vista distaccati e impersonali, come momenti di un’inchiesta sociologico-antropologica sulla classe media americana?
Tra 1955 e 1959, come abbiamo visto, Warhol adotta un sofisticato stile neobizantino, vagamente decadente, distinto dall’oro e dalla profusione di dettagli nel piccolo formato. Nel 1960 inizia invece a dipingere ad acrilico i suoi primi quadri pop. Grandi, semplici, elementari. Cosa sopravvive, dell’originario interesse per simboli ed emblemi individuali, nelle chiassose immagini che riprendono pubblicità e fumetti? Per comprenderlo dobbiamo volgerci brevemente a Duchamp e Johns. Nel 1958, prima ancora di debuttare da Castelli, Johns esegue una serie di disegni a matita e carboncino che può lasciare perplessi, tanto i fogli appaiono spogli e inattraenti. Tuttavia Johns affida proprio a questi disegni il senso riposto di Bersagli e Bandiere, tanto più celebri. Nella serie cui mi riferisco, caratterizzata da una misteriosa oscurità e rigorosamente monocroma, raffigura grucce e uncini. Nient’altro. Grucce e uncini: in che senso possono aiutarci a capire meglio i procedimenti new dada e pop, in particolar modo la scelta di questo o quel “motivo”? Questa è in definitiva la domanda da cui siamo partiti.
Tra 1914 e 1917 Duchamp è particolarmente interessato al tema dell’uncino. Troviamo una coorte di uncini nello Scolabottiglie (1914). Troviamo uncini (o ganci) nell’Appendicappello (1917) e nel Trabocchetto (1917), “ready-made” noto altresì come Trappola. Troviamo infine un uncino all’origine della buffa e intricata vicenda evocata nel Grande vetro: tiene sospesa nel vuoto la bottiglia di amaro benedettino il cui zampillo muove mulino ad acqua e slitta.

Non è questa la sede per un’analisi approfondita del Grande vetro, cui ci siamo più volte riferiti. Ci basti sapere adesso che La sposa messa a nudo dai suoi celibatari, anche, dipinto su vetro noto appunto come Grande vetro, è una sorta di esposizione figurata del trasporto amoroso e del processo di cristallizzazione che a esso si accompagna. I “celibatari” rivestono di ogni ornamento simbolico la “sposa”, oggetto del loro desiderio. La sposa è peraltro disposta a suscitare e accogliere questo specifico investimento amoroso. Ma è difficile stabilire in che misura meriti davvero la passione degli spasimanti: nelle note pubblicate in facsimile nella Scatola verde (1934) Duchamp la descrive infatti come un mero “scheletro”, cioè un manichino. Attratti in un gran palazzo dell’illusione, gli innamorati del Grande vetro ci appaiono predestinati a corteggiare un miraggio, o meglio il pretesto, l’occasione del miraggio.

Stabiliamo (con brutale semplificazione) che i “celibatari” siano gli artisti e la sposa l’“idea”. Il Grande vetro è un’interrogazione figurativa sul “capolavoro”: come vestire o abbigliare la “sposa” così da darle forma compiuta e definitiva? Cosa appendere all’uncino? Nel dipingere grucce e uncini, Johns riproduce la domanda duchampiana sulla “sposa”. Si interroga sui “motivi” da scegliere - banalmente: sui “contenuti” da dare all’opera d’arte perché questa divenga quel capolavoro che tutti ci attendiamo. I bersagli del luna park o le bandiere a stelle e strisce non interessano Johns come documenti di questa o quella cultura popolare, come potrebbero interessare uno scienziato sociale o un pubblicitario, ma come tracce, indicazioni, simboli della propria attività. Rimandano perdipiù a interlocutori elettivi, come Picabia (1879-1953), Magritte (1898- 1967) e ovviamente Duchamp, quasi ad avviare con essi una conversazione illustre sugli enigmi del talento e il nutrimento del processo creativo. In parole semplici e dirette: Johns non è un artista pop. È un caso curioso della storia dell’arte postbellica che lo si sia acclamato come precursore, e che lo sia divenuto di fatto.


Marcel Duchamp, Grande vetro (1915-1923); Filadelfia, Philadelphia Museum of Art.

Zuppe Campbell e celebrità hollywoodiane
Warhol ha espresso in più occasioni un’incondizionata ammirazione per Johns. Se anche non lo avesse fatto la sua opera starebbe lì a dimostrarlo. Ben poco di ciò che Warhol realizza tra 1960 e 1962 si sottrae all’influenza di Johns. Esemplifichiamo. La scelta di sterotipi figurativi, come immagini pubblicitarie o altro, rimanda alle Bandiere e ai Bersagli johnsiani. I leggiadri paesaggi “da completare” della serie Do It Yourself, risalenti al biennio 1962-1963, con le indicazioni numeriche delle diverse aree di colore, trovano un immediato precedente in una serie johnsiana di “bersagli” recanti lo stesso titolo.
Le Scatole Brillo, inneggianti alla paglietta metallica di cui ci serviamo per pulire i piatti, al tempo appena introdotta sul mercato, sono finti “ready-mades” nel senso dei piccoli bronzi dipinti realizzati da Johns nel 1960. La serie dei Fiori, esposta una prima volta nel 1965 alla galleria parigina di Ileana Sonnabend, mostra il tipo di ambiguità che possiamo attenderci da un erede di Johns leggiadramente svagato, malizioso e sensuale. Ben poco distingue le piatte corolle disposte attorno a un’adombrata cavità centrale da un nudo maschile, ed è sicuramente qui, da questo uso relativamente smaccato di metafore visive a sfondo erotico-sessuale, che prende l’avvio l’esplorazione dei genitali maschili quali oggi associamo comunemente all’arte di Mapplethorpe, per fare un esempio. L’immagine primaria nasconde un’immagine latente o secondaria, che in questo caso è relativamente semplice trovare.

Jasper Johns, Dipingilo tu (1960).

Dipingilo tu (Violino) (1962).


Dipingilo tu (Paesaggio) (1962).

WARHOL
WARHOL
Michele Dantini
Un dossier dedicato a Andy Warhol (Pittsburgh 1928 - New York 1987), il padrino della Pop Art. In sommario: Introduzione; La tradizione dada-concettuale; Pittura e cinema; Le tribù della Factory e il cinema underground; Artista, produttore, imprenditore; I disegni giovanili a inchiostro e foglia d'oro. Warhol e le primizie dello stile ''camp''; Warhol e l'America. L'arte pop tra ''diario intimo'' e ''sociologia''; Wahrol, Dalì, Rauschenberg; La stampa serigrafica e le sue implicazioni sul piano dello ''stile''; Wahrol, Johns e l'eredità americana di Duchamp; Zuppe, Campbell e celebrità hollywoodiane; La scatola Brillo; L'ultimo Warhol. Teschi, omaggi, ''camouflages''. Come tutte le monografie della collana Dossier d'art, una pubblicazione agile, ricca di belle riproduzioni a colori, completa di un utilissimo quadro cronologico e di una ricca bibliografia.