tuttavia è qui, dove la critica più perspicace sceglie oggi di indagare, che si nascondono chiavi di lettura utili per la comprensione dell’intera attività dell’artista. Assai vicini ai modi grafico-lineari di Jean Cocteau (1889-1963) e del più idiosincratico classicismo parigino del periodo “entre-deux-guerres”, le immagini di scarpine fallomorfiche, santi, scimmiette dalla lunga coda, canarini in gabbia ed efebici nudi maschili compongono un repertorio per metà casto, per metà impudico di oggetti d’affezione, emblemi e pulsioni sessuali dichiarate per via metaforica. Con il loro carattere intimo o fantasioso, il racconto libertino o le voluttuose semplificazioni in senso finto-infantile della linea di contorno, i disegni giovanili ci presentano un’immagine di Warhol distante da quella consolidata. Che ne è, nelle esili silhouette a china e nelle sagome riempite con foglia d’oro, del film-maker distaccato e metallico di metà anni Sessanta, la cui leggenda ci è tramandata da così tante fotografie, impassibile dietro la macchina da presa, quasi “uomo-macchina” di tradizione modernista sovietica? O dell’istrione luciferino e scarmigliato, il produttore dei Velvet Underground?
Secondo l’opinione corrente, a partire dal 1960 Warhol avrebbe raffigurato prodotti da supermercato o divi di Hollywood perché desiderava rappresentare la società dei consumi e trasferire sulla tela ciò che vedeva attorno a sé, per strada, al cinema o sui rotocalchi di cui era avido lettore. È questa l’interpretazione più convincente di un artista in costante adattamento? Una maggiore familiarità con i disegni giovanili spinge a dubitare della nostra effettiva conoscenza del divo pop o delle sue motivazioni meno immediate e palesi.