Studi e riscoperte. 1
L’Opificio delle pietre dure e il restauro delle opere alluvionate a Firenze

a cinquant’anni
dalla furia dell’arno

Ripercorriamo con il soprintendente dell’Opificio delle pietre dure di Firenze alcuni momenti salienti dell’alluvione che colpì il capoluogo toscano nel novembre 1966: dalla perdita di vite umane agli ingenti danni provocati al patrimonio storico-artistico, alla ferma volontà di ricominciare.

Marco Ciatti

A cinquant’anni dalla disastrosa alluvione del 4 novembre 1966 la città si appresta a ricordare tale ricorrenza sotto vari punti di vista grazie a un comitato cittadino, Firenze 2016, che sosterrà varie iniziative. L’alluvione del 1966, l’ultima di una lunga serie nel capoluogo toscano, ha rappresentato un terribile evento prima di tutto per le vittime e poi per i gravissimi danni arrecati, ma ha anche contribuito a cambiare il volto della città dal punto di vista sociale: quanti negozi storici o piccole botteghe artigiane, infatti, non hanno riaperto dopo tale catastrofe? Tutto questo per ricordare che il campo del patrimonio storico-artistico è solo uno degli aspetti della nostra civiltà che hanno subito un duro impatto dalla furia dell’Arno. In questo caso, tuttavia, le scelte compiute, grazie alla competenza e alla lungimiranza di chi era allora chiamato ad assumersene la responsabilità, sono riuscite a trasformare l’emergenza in una grande occasione di crescita e di sviluppo. L’allora soprintendente Ugo Procacci, in una sua lunga relazione indirizzata al Ministero, che ho avuto modo di pubblicare, riassumeva perfettamente alcune di queste decisioni. Grazie alla lunga esperienza maturata sui problemi della conservazione a partire dal 1932 - quando aveva riformato l’attività della Soprintendenza fiorentina in questo ambito con la creazione del Gabinetto restauri, cioè con l’idea moderna di un laboratorio tecnico e scientifico secondo le più aggiornate tendenze internazionali - e alla collaborazione di abili restauratori, la risposta ai danni causati dall’acqua e dal fango fu pronta ed efficace.

Per i dipinti fu davvero decisivo inviare squadre di tecnici e di volontari per velinare le superfici pittoriche ancora bagnate con una resina acrilica, evitando così le possibili cadute di colore che questo tipo di degrado avrebbe sicuramente prodotto successivamente, nella fase di perdita dell’umidità assorbita dal legno e dalle preparazioni.


La vicenda dell’alluvione costituisce il momento di una decisa svolta per il rinnovamento del mondo del restauro fiorentino e italiano


Con l’aiuto poi di una commissione di esperti nominata dal Ministero, della quale facevano parte addetti al restauro e scienziati di chiara fama, tra i quali i rappresentanti dell’Istituto superiore per la conservazione e il restauro di Roma, fu allestito presso la limonaia del giardino di Boboli un ambiente dal microclima controllato da un imponente impianto tecnologico nel quale le opere colpite venivano fatte asciugare molto lentamente per evitare deformazioni e fratture, sotto l’attento controllo dei restauratori che provvedevano a liberarle dai vincoli rigidi e svolgevano dei test sulla superficie per comprenderne il livello di degrado. Possiamo pertanto affermare che senza la provvidenziale fase della velinatura d’emergenza, oggi non avremmo più una consistente parte della pittura fiorentina.


Alcune opere all’arrivo nel “laboratorio” della limonaia del giardino di Boboli a Firenze subiscono un trattamento contro gli attacchi biologici.

Un’altra importante decisione fu quella di respingere garbatamente le offerte di trasferire a laboratori internazionali le opere da restaurare chiedendo invece, come forma di aiuto, di inviare a Firenze restauratori, materiali e attrezzature. Questo al fine di controllare il recupero delle opere assicurando la necessaria omogeneità metodologica e per favorire la crescita in loco delle strutture del restauro. Nacque così il grande laboratorio della Fortezza da Basso, oggi parte del moderno Opificio delle pietre dure, nei cui spazi si trovarono a operare, fianco a fianco, i restauratori fiorentini e i loro migliori colleghi internazionali. La fusione tra le varie esperienze e scuole consentì ai restauratori fiorentini di compiere una selezione tra le varie tecniche arrivando a una fusione tra la tradizionale abilità manuale e le più interessanti innovazioni tecniche e scientifiche. Tutto ciò costituisce uno dei motivi per cui Firenze può oggi essere definita una delle capitali del restauro a livello internazionale.

Un terzo evento fa sì che la vicenda dell’alluvione costituisca il momento di una decisa svolta per il rinnovamento del mondo del restauro fiorentino e italiano: il rapporto tra il restauro delle opere d’arte e il mondo scientifico. La necessità di dare delle risposte efficaci ai grandi problemi tecnici provocati da un danno così grave qualitativamente e così esteso quantitativamente, insieme allo sconcerto della coscienza della città di fronte al pericolo di perdere una parte della propria storia, spinse il mondo scientifico a iniziare un legame sempre più stretto e costante con quello della conservazione.


Restauratori al lavoro nel deposito della limonaia del giardino di Boboli a Firenze.

Il miglior esempio in questo senso riguarda il tema del restauro delle pitture murali. Grazie alla geniale invenzione di un docente della Facoltà di chimica dell’Università di Firenze, Enzo Ferroni, fu messo a punto un nuovo metodo d’intervento, in collaborazione col restauratore Dino Dini, a ciò delegato da Procacci, che riuscì a invertire il processo chimico, restituendo solidità agli intonaci dipinti. Da allora non vi è stata più la necessità di staccare, con tutte le evidenti conseguenze negative intrinseche, le pitture murali che poterono essere salvate nella loro collocazione originaria.

Il risultato di questa grande attività, che aveva uno dei suoi promotori nel direttore del laboratorio della Fortezza, Umberto Baldini, fu di creare la consapevolezza della necessità di un potenziamento delle strutture per la conservazione a Firenze. Di questo sentimento si fece interprete Giovanni Spadolini che riuscì a creare nel 1975 il nuovo Ministero per i Beni culturali. Nell’ambito di tale riforma il laboratorio della Fortezza, sino ad allora dipendente dalla Soprintendenza fiorentina, e l’antico Opificio furono fusi insieme, creando così il moderno Opificio delle pietre dure e laboratori di restauro, con a capo il protagonista dei restauri dell’alluvione, Umberto Baldini. Alcuni interventi di restauro compiuti dal laboratorio della Fortezza e poi dall’Opificio sono giustamente passati alla storia per la loro capacità di rappresentare un potente simbolo della lotta per il riscatto da questa tragedia, primo fra tutti il grande Crocifisso dipinto di Cimabue del Museo dell’Opera di Santa Croce. 


I restauratori al lavoro sulla Deposizione dalla croce (1560 circa) di Alessandro Allori nel Museo dell’Opera di Santa Croce a Firenze.

Molti ricorderanno la foto di papa Paolo VI inchinato al suo cospetto all’interno della limonaia del giardino di Boboli, ma in realtà la vicenda del Crocifisso è stata assai singolare e diversa da quella della maggior parte dei dipinti, sia come danneggiamento sia come intervento di restauro. Il laboratorio inventò per quest’opera una tecnica, suggerita dalla perfetta modalità di esecuzione seguita da Cimabue, con la quale si separarono gli strati della preparazione e del colore, sostenuti dall’antica tela incollata sul legno, dal supporto senza alcuna perdita di materia. Fu così possibile restaurare separatamente i due elementi e poi ricongiungerli con l’inserimento di uno strato di resina e fibra di vetro che funzionasse come nuovo supporto, stabile e inerte, per la pittura, con molti innovativi accorgimenti tecnici in grado, tra l’altro, di assicurare la piena reversibilità nel tempo.
Anche se col passare degli anni il tema dei restauri conseguenti ai danni provocati dall’alluvione si andava progressivamente affievolendo fin quasi a scomparire dal dibattito pubblico, il laboratorio dell’Opificio continuava nell’ombra a occuparsi senza sosta di tali interventi. Nel 1986-1987, in occasione della grande mostra Capolavori e restauri (Firenze, Palazzo vecchio), l’Opificio dedicò una parte delle sue sezioni, curata da Antonio Paolucci e dallo scrivente, al tema del restauro dei dipinti su tavola alluvionati, mostrando con tre esempi concreti i propri risultati e i progressi tecnologici e di metodo compiuti. Dieci anni dopo, nel 1996, veniva ricollocata nel Museo dell’Opera di Santa Croce un’altra vittima dell’alluvione, la meno famosa Croce dipinta da Lippo di Benivieni. Per la sua mediocre tecnica di esecuzione non era stato possibile ripetere il tipo di intervento compiuto su quella di Cimabue e il laboratorio, grazie all’impegno e alla alta professionalità di un gruppo di restauratori, mise a punto una tecnologia complessa e raffinata per riuscire a evitare il tradizionale “trasporto del colore”, separando gli elementi e impiegando un supporto intermedio in resina e fibra di carbonio che replicava l’andamento superficiale delle tavole antiche, mantenendo così sia la materia sia l’immagine di un’opera antica con tutte le sue naturali irregolarità.

Il Crocifisso di Cimabue restaurato è un potente simbolo della lotta per il riscatto dalla tragedia dell’alluvione


Tale brillante risultato spinse allora lo scrivente a incrementare l’impegno del laboratorio verso tale tematica programmando per il decennale successivo un ampio recupero di otto importanti dipinti che costituì, con il titolo letterario di Angeli, santi e demoni. Otto capolavori restaurati per Santa Croce, l’evento centrale del 2006 con una mostra nel refettorio del Museo dell’Opera di Santa Croce, e un catalogo della collana monografica dell’Opificio.

Le opere allora esposte rappresentavano una rassegna di soluzioni tecniche, in alcuni casi obbligate da una prima fase dei lavori già compiuta nell’immediatezza dell’evento, ma con una ulteriore innovazione di livello metodologico. Nelle due enormi pale della Deposizione dalla croce di Francesco Salviati e della Discesa di Cristo al limbo di Agnolo Bronzino si cessò di perseguire il recupero della necessaria solidità dei materiali con il solo strumento del restauro, ma si costruì un progetto basato sull’integrazione delle possibilità dell’intervento e della conservazione preventiva, agendo così sugli effetti del degrado, ma anche sulle cause dei possibili futuri problemi. In tal modo, abbinando intervento di restauro e provvedimenti di prevenzione, si poteva assicurare la conservazione di tutti i materiali costitutivi antichi e limitare drasticamente l’invasività dell’operazione.

A seguito di questi ultimi positivi progetti di conservazione fu chiesto all’Opificio di confrontarsi con la drammatica situazione dell’Ultima cena di Giorgio Vasari, anticamente dipinta per il convento (poi carcere oggi dismesso) delle Murate, ma danneggiato anch’esso nei locali del Museo dell’Opera di Santa Croce dove era stato spostato nell’Ottocento, e rimasto dal 1966 in orizzontale nei depositi per le sue disastrose condizioni che facevano ritenere pressoché impossibile un suo recupero. 


Lippo di Benivieni, Croce (1300 circa), Firenze, Museo dell’Opera di Santa Croce.

Ben presto i primi risultati delle prove compiute mostrarono che i restauratori erano riusciti a trovare un progetto percorribile per il risanamento dell’Ultima cena, ma che il cammino sarebbe stato assai lungo e difficile. Gettando, come si suol dire, il cuore al di là dell’ostacolo il laboratorio si è a lungo impegnato nel progetto, ricevendo poi due validissimi aiuti che lo hanno reso concretamente possibile. Il progetto di risanamento del supporto fu scelto dalla Getty Foundation come progetto d’eccellenza all’interno della sua iniziativa denominata Panel Paintings Initiative e, qualche anno dopo, la parte estetica dell’intervento, e cioè le fasi di pulitura, stuccatura e ritocco, sono state rese possibili dall’aiuto di Prada con la collaborazione in una prima fase del Fai - Fondo ambiente italiano.
Questo ultimo grande progetto sta per essere concluso e verrà presentato nel Museo dell’Opera di Santa Croce il 3 novembre, in occasione del ricordo dell’alluvione cinquant’anni dopo, rappresentando così quasi la realizzazione di un sogno: un’opera considerata perduta che viene restituita alla vita e alla pubblica fruizione.
Molto più vasto di queste poche righe è stato in realtà il contributo dell’Opificio delle pietre dure al recupero delle opere d’arte fiorentine danneggiate dalla terribile alluvione del 1966, con interventi su tutte le possibili categorie di materiali artistici, dalle sculture alle terrecotte, dai tessili ai bronzi, come le grandi porte di Lorenzo Ghiberti del battistero. Si è trattato di una storia costruita sull’impegno appassionato e sulle elevate competenze di molte decine di donne e di uomini ai quali tutti va il mio pensiero grato e il sentimento orgoglioso di aver potuto collaborare con loro.

ART E DOSSIER N. 337
ART E DOSSIER N. 337
NOVEMBRE 2016
In questo numero: UNA STAGIONE DI GRANDI MOSTRE Kirkeby a Mendrisio, Soffici a Firenze, i Nabis a Rovigo, Zandomeneghi a Padova, Impressionismo a Treviso, il Seicento di Vermeer all'Aja. CINQUANT'ANNI FA L'ALLUVIONE Firenze restaurata. FAVOLE ANTICHE Il paradiso di Bosch, le cacce dell'imperatore. Direttore: Philippe Daverio.