La pagina nera

i rimedi sugLi archivi
saran sempre un po’ tardivi

Ancora brutte notizie sul nostro patrimonio. La situazione degli archivi è a dir poco drammatica. Personale perlopiù ridotto all’osso, quando c’è, anziano e non sempre formato. Concorsi saltuari e non sufficienti a coprire l’uscita di chi andrà in pensione. Per non parlare delle sedi, magari storiche ma spesso con gravi problemi. Che fine farà la nostra memoria? E nel resto d’Europa come vanno le cose? E la sfida del digitale?

di Fabio Isman

L'“archistar” italiana Massimiliano Fuksas crea il nuovo edificio degli archivi, con 350 milioni di euro dello Stato: ma di quello francese; perché siamo a Pierrefitte-sur-Seine, a nord di Parigi, dove lo ha realizzato tre anni fa. Perché, da noi, i centouno luoghi statali che conservano la memoria collettiva del paese sono in condizioni assai disastrose. Pochi uomini e mezzi, nonostante i recenti sforzi del ministro; antiquati e con scarse speranze per il futuro, almeno immediato. Perfino Lorenzo Casini, giurista e consigliere tra i più seguiti da Dario Franceschini, parla del «pessimo trattamento del settore negli ultimi quindici anni» da parte del ministero, e cita stipendi tra i più bassi: nel 2013, per gli straordinari c’erano in media 88 euro per dipendente, contro i 145 del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca e gli oltre 300 di altri dicasteri. La famosa indagine della Commissione Franceschini (del 1960, nessuna parentela con l’attuale ministro) dice che gli scaffali in cui il passato è allineato costituiscono un primato italiano: ne possediamo il doppio di tutta l’Europa messa assieme; 1.563 chilometri di lunghezza: la distanza che c’è tra Roma e Parigi. Quasi un decimo del totale sono soltanto quelli dell’Archivio centrale di Stato a Roma, sorto nel 1960 e al quale tutti i pubblici uffici versano i loro documenti: è uno dei dieci più grandi al mondo, e presto ne riparleremo.

Gli archivi hanno una duplice funzione: devono conservare la nostra memoria, fin dagli Stati preunitari, e permettere la consultazione dei documenti che la tramandano. Il sistema è mutato più volte: nel 1975, quando dal Ministero dell’interno gli istituti sono passati al Ministero per i beni culturali; dopo la riforma del Titolo V della Costituzione del 2001, perché anche la tutela dei beni librari è stata attribuita allo Stato (prima, spettava alle Regioni), ed è recentemente finita alle soprintendenze archivistiche; nel 2016, quando Franceschini ha introdotto le ultime novità nell’organizzazione del dicastero. Di questo bendidio si occupano i dipendenti più anziani dell’amministrazione pubblica. Seicentoventi persone, di cui due terzi di oltre sessant’anni, e poco meno di un terzo con più di sessantacinque: presto, novantacinque su cento se ne andranno (ma ha oltre sessant’anni anche il sessantasei per cento degli architetti e il sessantatré dei bibliotecari ora in servizio nel Ministero). Né bastano a compensarne l’esodo le ottantacinque assunzioni previste dal concorso appena svolto. Non solo: recentemente, per la “spending review”, in periferia sono stati aboliti quindici posti dirigenziali su trentacinque: quasi dimezzati. Neppure trenta funzionari hanno meno di cinquant’anni, e appena quattro sono sotto i quaranta; e per formare un archivista, diceva qualcuno, forse non bastano quattro lustri. Del resto, per gli archivi non si facevano più concorsi dal 2009; e gli ultimi erano per pochissimi posti.


I nuovi archivi nazionali di Francia a Parigi progettati da Massimiliano Fuksas (2005-2013).

Le nove province siciliane hanno in tutto tre archivisti; la Liguria un solo funzionario


Se c’è qualche problema con il personale, ce ne sono anche con le sedi, spesso in luoghi storici, e talora bellissimi: a Torino, il palazzo di Filippo Juvarra per i re Savoia. La sede centrale dell’Archivio di Stato di Roma è in un spazio magnifico, il complesso di Sant’Ivo alla Sapienza, uno dei capolavori completati nel Seicento da Francesco Borromini. Ma recentemente, proprio davanti all’ufficio del direttore, la volta è crollata; per fortuna, sotto non c’era nessuno. Mentre l’Archivio centrale, all’Eur, è nell’edificio progettato per la grande Mostra dell’autarchia, del corporativismo e della previdenza sociale, opera di Mario De Renzi, Luigi Figini e Gino Pollini per l’Esposizione universale del 1942, che, com’è noto, non si svolse. Soffitti alti nove metri, che per uffici e archivi non è davvero il massimo; e, in più, scoppia. I depositi sono pieni come uova; quaranta chilometri di scaffali sono stati spostati a Pomezia, e occorrono tre giorni per ottenere un foglio; da duecento che erano, i dipendenti si sono dimezzati; un terzo, anche cinque funzionari su tredici, andrà in pensione nel 2017. Qui sono stati scritti migliaia di libri sul fascismo e l’antifascismo; qui si può capire come il paese è cambiato dopo la guerra, fino agli anni Settanta e anche dopo. A complicare le cose, i mille uffici pubblici del paese non devono più versare i documenti quando abbiano quarant’anni, ma dopo trenta. Lavoro in più. Della “memoria statale”, in Francia si occupano quattrocento anime; la Gran Bretagna ha un Public Record Office con seicento addetti, e un bilancio di sei volte superiore al “cugino” italiano. Ma a Roma, per prelevare un documento da Pomezia, neppure un camioncino, o una vettura: forse l’avranno considerata “auto blu” e populisticamente soppressa (oltre a quelle “blu”, ci sono anche le grigie: non servono per rappresentanza, bensì per lavoro). Però sono a rischio anche parte dei depositi: per risparmiare affitti, e riorganizzare il “polo” espositivo all’Eur, il Ministero vorrebbe portarci il Museo orientale e forse altro. Ma lo stesso Archivio centrale è in affitto: cinque milioni all’anno all’Inail. La Corte dei conti calcola che per locare gli spazi di immobili che contengono solo dei depositi archivistici, le amministrazioni da lei controllate spendano quasi altri cinque milioni di euro ogni anno.

Negli archivi italiani, sono in forte riduzione anche i restauratori; e affidare i lavori all’esterno non si può, per mancanza di fondi. Poco tempo fa, i documenti su Caravaggio, o il testamento di Arcangelo Corelli, furono salvati solo per merito degli sponsor; ma trovare sponsor, in un settore che regala scarsi ritorni di immagine, non è così facile. Per rispettare la necessità di tenerli aperti al pubblico, la riduzione degli addetti costringe a ridurre altre attività di tutela: dalla conservazione al riordino degli stessi istituti. Nell’archivio di Milano, per quarantacinque chilometri di documenti, ci sono appena sei funzionari, «e rischiamo di restare in tre», dice Benedetto Luigi Compagnoni, che lo dirige; «inoltre, sono in arrivo i documenti del tribunale per i minorenni dal 1956 al 1983»: chi li riordinerà? Già adesso, si può chiedere l’ultimo documento da consultare soltanto prima delle 13. Il soprintendente per Umbria e Marche, per tutto il 2016, ha avuto 500 euro per le missioni: non andrà molto lontano. Quello di Palermo, Claudio Torrisi, spiega che ad Agrigento, Caltanissetta ed Enna non esistono archivisti: solo un dirigente amministrativo; che le nove province siciliane hanno in tutto tre archivisti; che dei nove funzionari previsti lui ne possiede due, ma «uno va in pensione tra un anno, e io tra due». Messina ha dovuto spedire una pratica pensionistica alla direzione generale a Roma, perché non esiste nessuno, in tutta l’isola, che possa firmarla. A Venezia, l’archivio è nell’ex convento dei Frari: un gioiello; infinite “fonti aperte” (i volumi liberamente consultabili dagli utenti senza doverli richiedere), ottanta moderni posti in sala di studio sempre pieni (specie di stranieri); due altre sedi sono alla Giudecca e a Mestre; però «siamo in quarantasei persone, e l’ottimale sarebbe almeno sessanta», spiega il direttore, Raffaele Santoro. In Liguria, c’è un solo funzionario archivista; nelle soprintendenze italiane sono in tutto centosei, ma con oltre sessantamila raccolte da controllare.

Però, c’è (assai) di più. Il vicepresidente dell’Anai - Associazione nazionale archivistica italiana, Augusto Cherchi, spiega che, «per non smantellare lo scenario della tutela», non può bastare il concorso appena svolto: «Ce ne dovrebbe essere uno ogni tre anni». 


Già nel 2009 «si ipotizzava che, nei depositi, i documenti della Pubblica amministrazione ammontassero a 2.369 chilometri: una volta e mezza quelli già negli archivi statali»; «Palermo e Napoli non possono riceverne più: sono saturi», dice Torrisi; «gli archivi notarili si fermano a metà Ottocento: se ci fosse spazio, potrebbero arrivare al 1916»; «e quale personale esaminerà le “carte” che arriveranno, per deciderne gli scarti, cioè quali conservare e quali no, e riordinarle?», si chiede Cherchi; «scartandone anche un terzo, poi, dove si potranno conservare?». Serve «un progetto globale per il settore».

E c’è anche il passaggio agli “archivi di domani”: non semplice, e l’Italia è in ritardo. Il digitale, «la British Library è stata tra i primi [istituti] ad affrontarlo: conserva materiali così formati dal 2004; ma frattanto, il novantaquattro per cento di essi è andato perduto», racconta Cherchi; sono le incertezze e le sperimentazioni tecnologiche. «Noi dobbiamo però almeno porci il problema: dei primi tentativi resteranno scarni lacerti, ma bisognerà pur cominciare». Invece, oltre ai dipendenti, diciamo così “normali”, «agli archivi mancano anche certe figure professionali, informatiche e amministrative», spiega Cherchi. E intanto, varie sezioni di Archivio di Stato sono state promosse archivi autonomi, e dovrebbero possedere un direttore; e qualche amministrazione, divenuta agenzia, non è più tenuta a versare i propri documenti, «come le Entrate; e così nasceranno archivi paralleli», dice Torrisi; continua: «Forse, in periferia, le sedi sono troppe»; ma il problema è il solito: «Occorre un grande progetto complessivo, che magari riordini, però soprattutto rilanci, un settore drammaticamente trascurato», conclude il vicepresidente dell’Anai. Al III millennio a.C. risale uno dei più antichi, quello di Ebla, città siriana non molto lontana da Aleppo, scoperta da un archeologo italiano, Paolo Matthiae: è composto da oltre diciassettemila tavolette d’argilla, a caratteri cuneiformi. Di tempo, ne è passato moltissimo; ma per gli archivi nuovi, quelli non più su carta, non siamo ancora troppo preparati.

ART E DOSSIER N. 337
ART E DOSSIER N. 337
NOVEMBRE 2016
In questo numero: UNA STAGIONE DI GRANDI MOSTRE Kirkeby a Mendrisio, Soffici a Firenze, i Nabis a Rovigo, Zandomeneghi a Padova, Impressionismo a Treviso, il Seicento di Vermeer all'Aja. CINQUANT'ANNI FA L'ALLUVIONE Firenze restaurata. FAVOLE ANTICHE Il paradiso di Bosch, le cacce dell'imperatore. Direttore: Philippe Daverio.