A PARIGI

Ammaliato dalla vitalità di Parigi, stupito dalla grandezza della città e dall’effervescenza del «movimento artistico che vi si svolge», Zandomeneghi, nei mesi seguiti all’arrivo, non s’occupò d’altro che di «guardare, guardare, guardare».

Le ripetute visite al Salon, e l’esposizione nel palazzo del Corps Legislatif di prestigiose raccolte private d’arte sette-ottocentesca, gli permisero di farsi «un’idea molto esatta della storia artistica francese dal Settecento ai nostri giorni», come scrisse a Signorini nell’agosto 1874, mettendolo a parte delle sue prime esperienze parigine.

E se la curiosità intellettuale, che lo aveva indotto a recarsi a Parigi per avere una visione più ampia e complessa dell’arte moderna, lo spronava a osservare quante più novità pittoriche possibili, la sua competenza d’artista ormai maturo gli consentì di orientarsi con sicurezza in mezzo alla miriade delle opere esposte, cogliendo le maniere più confacenti al suo temperamento e alla sua cultura. Così giudicò ostentata e brutta l’originalità di Manet, riconoscendo, però, che «nei suoi felici momenti ricorda assai la tradizione spagnuola», apprezzò il Portrait de mon grand-père di Bastien-Lepage, «la pittura forse più sana più semplice più giovane dell’esposizione», e fu Corot il più ammirato fra i tanti che lo interessarono, perché, seppur di «mestiere», «ogni sua opera rivela una poesia indefinita piena di bontà e di dolcezza, una nota di colore originalissima, una fattura inimitabile».


La disposizione di spirito che aveva portato Zandomeneghi a considerare senza pregiudizi la pittura francese, lo pose in una condizione di grande apertura nei confronti di quell’arte di cui aveva cominciato a intendere la potenza espressiva e l’ingegnosa fertilità, e ad apprezzarne in particolar modo la varietà dei concetti e dei riferimenti estetici, «segno evidente del rispetto che sente la critica per ogni diversa manifestazione d’un sentimento individuale»; aspetto, questo, dinanzi al quale l’artista era molto suscettibile, ritenendo che l’opinione dei critici raramente tenesse conto delle idee e della volontà degli artisti.


Edgar Degas, Femme nue s’essuyant le pied (1885-1886); Parigi, Musée d’Orsay.

Quell’estate l’entusiasmo di Federico per la gradevolezza della nuova vita parigina, fervida di sollecitazioni intellettuali e d’incontri interessanti, giunse al culmine grazie alla commissione di due ritratti ottenuta in seguito al successo riscosso con un primo «assai somigliante» eseguito poco dopo l’arrivo. L’opportunità di quel lavoro inaspettato convinse Zandomeneghi a prolungare il soggiorno, e ad affittare uno studio dove, a distanza di oltre un anno, continuava - per mantenersi - a far ritratti; almeno così si ricava dalla lettera affettuosamente scherzosa inviata a Fattori nel dicembre 1875, anno a cui risale il bell’Autoritratto apparentemente risolto tramite il colore steso a pennellate sciolte e vibranti, e che si connota per la forza dei contrasti dei toni bianchi e scuri accanto a cui spicca il rosso delle labbra, per le accensioni luminose e per la vivacità dell’espressione volitiva; caratteri che richiamano la coeva pittura di Manet e in particolare i suoi studi sulla pittura spagnola del Seicento, a dimostrazione della sensibilità di Federico nell’accogliere gli esiti delle ricerche più innovative, e della sua disponibilità a rivedere i propri giudizi.


Luna di miele (1878); Firenze, Palazzo Pitti - Galleria arte moderna.

Le committenze per ritratti ottenute dall’artista nell’estate 1874 fanno pensare a conoscenze presto fatte o riallacciate, come nel caso di Marcellin Desboutin stabilitosi a Parigi nel 1872 dopo esser stato costretto a lasciare Firenze per i tanti debiti insoluti. Fu quasi certamente Desboutin, che in patria aveva ritrovato il ruolo, già rivestito in Toscana, di animatore di un milieu d’intellettuali colto e spregiudicato, a introdurre Zandomeneghi in quell’ambiente abitualmente radunato al Café Nouvelle Athènes, offrendogli l’opportunità di ritrovare o di conoscere letterati e artisti - da Georges Lafenestre a Edmond Duranty, a Zola, a Jules Claretie, da Degas a Manet a Pissarro, a Guillaumin, a Gauguin, con alcuni dei quali avrebbe stretto rapporti d’amicizia che sarebbero durati per la vita.

Nonostante ciò Federico non si sentiva a proprio agio, tanto da confidare a Martelli «io intanto vegeto in mezzo a una società per la quale non sono fabbricato aspettando con la severità del giusto l’ora in cui la provvidenza vorrà mandarmi all’altro mondo». Insofferente sia verso il “decorativismo” degli artisti da Salon sia verso gli «Impressionnistes che fanno di tutto fuori che una buona impressione, e quel poco di buono che sorte dalle loro mani è di una ricerca eccellente ma ormai fritta e rifritta», come scrisse a Fattori nel maggio 1877 dopo aver visitato la mostra degli “intransigenti” (così si chiamavano fra loro gli impressionisti), era assalito da dubbi riguardo agli esiti delle proprie ricerche, forse disorientato dalle troppe sollecitazioni che lo inducevano a sperimentare una maniera più mossa e ariosa, dalla stesura rapida e acciaccata, rialzata da tocchi di luce, secondo una personale interpretazione dei modi di Berthe Morisot e dello stesso Manet.

Ma presto, accantonato un tentativo di linguaggio impostato sull’accelerazione della pennellata e sulla fragranza cromatica, affine a quello, genericamente impressionista, delle scene urbane di Giuseppe de Nittis, e che connota Luna di miele, straordinario per la garbata scherzosità del soggetto oltre che per le effervescenti soluzioni compositive, Zandomeneghi si dispose a infondere alla propria pittura una più radicale libertà espressiva, aggiornando sulle novità formali parigine i canoni della pittura macchiaiola, fondamento della sua arte.

A rassicurarlo della coerenza di una simile scelta contribuì una più profonda comprensione della pittura degli impressionisti, della severità delle loro ricerche formali fondate su un meditato procedimento teorico e tecnico. La cultura di Zandomeneghi non gli consentiva, infatti, di transigere da una concezione dell’arte che non fosse basata sul tenore della forma; si può ben comprendere, quindi, come egli ritenesse congeniali soprattutto le opere di Degas, delle quali riconosceva le qualità compositive fondate sul disegno, e come, per il medesimo motivo, Degas apprezzasse la pittura di Federico tanto da invitarlo a partecipare alla IV esposizione degli impressionisti, che avrebbe avuto luogo nell’aprile 1879.


Il Moulin de la Galette (1878).

Fra i due, a dispetto dei loro caratteri - Degas ironico fino allo scherno, Zandomeneghi scontroso e pronto a inalberarsi - s’instaurò un rapporto di stima reciproca, consolidato dall’amicizia comune per Camille Pissarro. A rendere più solida la loro intesa era anche la fede nella filosofia di Hippolyte Taine, nota a Zandomeneghi fin dal 1865 grazie a Giuseppe Abbati, che esortava gli artisti a confrontarsi con le idee e i sentimenti della vita contemporanea, nella convinzione che per la compiutezza di un’opera d’arte era essenziale il legame che la univa al luogo, al tempo, alla società in cui essa veniva prodotta. Ma a convincere il pittore ad aderire senza riserve a quella innovativa pittura fu soprattutto l’opinione di Martelli che, a Parigi per un anno dal 1878, frequentando artisti e intellettuali, visitando mostre e collezioni, si persuase dei valori pittorici dell’impressionismo, così adeguati a esprimere la mentalità di un’epoca «di agitazione nervosa», «transitoria scettica e positiva ad un tempo», come quella della società francese - e in generale europea - dopo il 1870.

Non sono molti i quadri noti eseguiti da Zandomeneghi nei primi anni del soggiorno parigino, ma bastano dipinti come A letto o il Moulin de la Galette ad attestare il nuovo corso della sua arte. Il primo, meditato dal 1876, anno cui risale il bozzetto, raffigura in una sontuosa cromia di bianchi e di azzurri una ragazzina che indugia fra le lenzuola, resa con una tale attinenza fra il soggetto e la forma da suggerire i turbamenti dell’età adolescenziale pur nell’ardita impaginazione compositiva che elimina ogni particolare superfluo. Un’immagine frutto delle riflessioni dell’artista sulla pittura di Degas, indicativa della volontà di Zandomeneghi di elaborare inusitate costruzioni spaziali nell’apparente casualità dell’inquadratura. Simile ricerca è anche alla base del Moulin de la Galette: nella risentita diagonalità della composizione, il fusto del lampione in primo piano - metro spaziale della scena - suscita nello spettatore il medesimo senso di giocosa aspettativa che anima le persone affollate all’ingresso del famoso locale parigino; figure rese tramite stilizzate silhouettes, e quasi caricaturali - ancora una volta riflesso dell’interesse per l’opera di Degas -, che sarebbero in seguito piaciute a Toulouse-Lautrec, futuro coinquilino di Zandomeneghi in rue Tourlaque, 7.

Il quadro piacque a Martelli, ma l’artista non lo espose alla mostra degli impressionisti, preferendogli opere meno sperimentali e più rappresentative del suo percorso artistico; accanto a due dipinti del periodo veneziano, figuravano Violettes d'hiver, «una figura di donna spensierata e galante» - sono parole di Martelli - dall’intrigante bidimensionalismo “japoniste”, e due ritratti, fra cui uno di Diego, quadri eseguiti «in un batter d’occhio, e con la febbre dell’arte addosso».


Violettes d’hiver (1879).

Ritratto di Diego Martelli (1879); Firenze, Palazzo Pitti - Galleria di arte moderna.


Edgar Degas, Diego Martelli (1879); Edimburgo, Scottish National Gallery.

Furono due i ritratti di Martelli presenti a quella mostra, vi era infatti anche quello realizzato da Degas, testimonianza della simpatia e della stima reciproche, agevolate dall’amicizia per Zandomeneghi. Se Martelli, pur avendo cercato più volte di acquistare il ritratto fattogli da Degas non ottenne mai il dipinto, riuscì, se pure a fatica e molto tardi, a possedere quello di Zandomeneghi, inviatogli nel 1895 con la raccomandazione di non farlo vedere a nessuno, o meglio di distruggerlo. L’inquadratura ravvicinata taglia con spigliatezza la figura seduta in posa disinvolta davanti al caminetto, lo sguardo tra sorpreso e incuriosito; un tono di affettuosa familiarità intesse il ritratto che, a conferma delle doti di ritrattista del pittore e della sua sensibilità introspettiva, rivela nell’intimo l’indole di Diego.

La critica fu favorevole all’artista giudicato «un moderno» che sarebbe diventato «un precursore», e lo fu ancor più nel 1880 dinanzi a Mère et fille, presentato alla V mostra degli “intransigenti”: un interno domestico intonato a una gamma cromatica che dai bianchi diafani vira al nero, quasi a ricreare col colore l’approfondirsi in musica di una sequenza di note. La tessitura filamentosa delle pennellate, lieve e fitta a un tempo, esalta l’atmosfera sentimentale che aleggia nella stanza dove, in un prezioso effetto di controluce, una giovane donna viene aiutata dalla madre ad appuntare una fermatura fra i capelli.

Nel quadro, per cui posarono la madre e la sorella del pittore, il colore è trasfuso in luce secondo le regole della rifrazione luminosa, e il disegno diviene elemento di organizzazione spaziale, rispondendo così pienamente ai criteri della pittura impressionista, espressi nel testo di Edmond Duranty, La Nouvelle Peinture, pubblicato nel 1876, con l’intento di definire l’origine e i principi estetici di quel movimento. E fu forse su sollecitazione di quel testo se all’inizio degli anni Ottanta Zandomeneghi dipinse vedute urbane - come quelle di Place d’Anvers o di Place du Tertre, ispirate ai nuovi “squares” alberati che andavano mutando l’aspetto di Montmartre - infondendovi il senso della trascorrenza, tipico della società moderna, grazie agli impianti compositivi, alla gamma cromatica spesso giocata su tinte pacate, alla pennellata intessuta di luce fino a divenire abbagliante.


Mère et fille, (1879), Viareggio (Lucca), Istituto Matteucci.

Place d’Anvers (1880); Piacenza, Galleria d’arte moderna Ricci Oddi.


Place du Tertre (1880).

Sono immagini dagli scorci risentiti, costruite su diagonali prospettiche audaci tali da accentuare il senso di straniamento insito nell’apparente casualità delle vedute - spesso ribadito dall’inquadratura ribassata che taglia perentoriamente la visione ravvicinandola - e che rivelano, al di là della comune matrice degasiana, intrinseche assonanze con l’opera coeva di Gustave Caillebotte. Ma le vedute urbane, come i paesaggi che pure Zando (come lo chiamavano gli amici di Montmartre) avrebbe realizzato, ammaliato dalla vivezza dei colori della campagna in confronto al «grigio polveroso» di Parigi, sono soggetti occasionali per il pittore che non lo distolgono dalla ricerca sulla figura; nel giro di poche stagioni egli eseguì dipinti straordinariamente eloquenti per compiutezza espressiva, coerenza dell’impianto compositivo, perfetto equilibrio fra la funzione organizzativa del disegno e la profusa ricchezza della gamma cromatica. Sono il Ritratto del dottore, La cuoca, Il violoncellista: immagini che campeggiano isolate in interni risolti con pochi elementi, quando non con il colore soltanto, esemplificativi della disinvoltura di Zandomeneghi nell’uso del lessico impressionista, tanto consolidato da permettergli espressioni assolutamente individuali. Un’autonomia che suscitò le rimostranze di Gauguin come già quelle di Caillebotte, e se da parte di quest’ultimo si trattava essenzialmente di gelosia per le attenzioni dimostrate da Degas a Zando “dessinateur”, per Gauguin era proprio l’interpretazione personale dell’impressionismo di Federico, il motivo delle lamentele. Fra i due, infatti, correvano rapporti cordiali cui certo contribuiva l’ammirazione di Zandomeneghi per i quadri del collega «pieni di qualità artistiche e originali », tanto da acquistarne uno: L’allée des Alycamps.


Il dottore (1881).


Il violoncellista (1882 circa).


La cuoca (1881); Mantova, Palazzo Te.


La sicurezza espressiva acquisita dal pittore rispecchia la maggiore stabilità raggiunta da Zando sia nei rapporti umani, sia economicamente. Sebbene egli quasi se ne vergognasse, il suo lavoro di figurinista gli permetteva di dedicarsi alla pittura senza troppe preoccupazioni, e i suoi legami con i colleghi erano distesi, e spesso - come con Guillaumin e con Pissarro - sempre più intrinseci, fondati sull’amicizia oltre che sulla stima. I suoi giudizi sull’arte erano tenuti in gran conto, e se talvolta era schernito - da Degas o da Renoir - per il suo campanilismo, la sua pittura era apprezzata al pari delle sue opinioni estetiche.

In sintonia con le ricerche della “nouvelle peinture”, anch’egli cominciò a utilizzare il pastello, mezzo grafico estremamente duttile che gli permise di ottenere vibranti effetti di luce e di colore. Con la tecnica del pastello è eseguito Coppia al caffè, giocato sull’intrigante rapporto cromatico fra la figura scura dell’uomo e quella intessuta di luce della giovane dal volto soffuso di tenerezza. Un brano di vita moderna dalla grazia neosettecentesca, ben lontana dalla stretta aderenza al linguaggio di Degas messo a punto da Zando nel 1884 per dipingere Al caffè, incentrato sull’immagine della donna la cui affabilità verso un interlocutore precluso alla vista è accresciuta dalla prospettiva divaricata che scandisce lo spazio in una sequenza serrata di pianicolore, creando un forte contrasto emotivo con l’uomo sullo sfondo, indifferente a quanto lo circonda.

Ambientato in un caffè è anche il quadro presentato nel 1886 all’VIII (e ultima) esposizione degli impressionisti. Quell’anno il pittore partecipò, come francese, all’esposizione belga dell’Association des XX, ma fu quella parigina - da lui definita «la nostra mostra» -, a spronarlo a preparare nuovi dipinti fra cui Al Caffè Nouvelle Athènes, nel quale la coppia seduta al tavolino è formata da Suzanne Valadon, la modella di Degas, Renoir e poi di Toulouse-Lautrec e pittrice lei stessa, e dal pittore medesimo, la cui effigie appare nello specchio sul fondo, tra una miriade di lampade accese. Nel quadro, le maturate riflessioni di Zando sull’opera di Degas e di Pissarro si manifestano con chiarezza: sono i tocchi fitti e divisi del pennello, accostati secondo il procedimento elaborato da Pissarro, a costruire la scena concepita di scorcio in assonanza con le espressioni di Degas, e a creare i diffusi bagliori della luce artificiale; è però la bravura dell’artista che, memore della tradizione veneziana, affida al colore l’equilibrio compositivo dell’immagine, a stabilire la coerenza formale e narrativa del dipinto.


La toilette (Femme se coiffant) (1887).


Femme au bar (Al caffè) (1884); Mantova, Palazzo Te

Al Caffè Nouvelle Athènes (1885).


Calzette nere (1886-1890).


Le lever: femme s’étirant (1886).

L’ammirazione del pittore per l’energia dei movimenti e del «carattere» dei nudi di donna di Degas giunse al culmine in quell’occasione dinanzi alla Suite de nus de femmes - fra cui Le tub, Femme nue s’essuyant le pied, Femme à son lever -, da lui giudicati di «prima forza». Ciò non di meno, nel copioso repertorio di nudi da allora realizzato da Zando, la tensione del segno andò attenuandosi a favore di contorni più morbidi e sinuosi, di una stesura vaporosa e di una tavolozza fastosa di colore e di luce ove affiora il ricordo del cromatismo veneto; una maniera indicativa dell’interesse per la pittura di Renoir, per i suoi nudi torniti e lievitanti, per le sue cromie saporose anch’esse di ascendenza veneta.

La mostra del 1886 offrì all’artista più di un motivo di riflessione: «Guillaumin e Pissarro fecero pure una bellissima esposizione. Poi due nuovi giovani, Seurat e Signac ebbero un gran successo d’impressionismo »; Mary Cassatt presentava Jeune fille à la fenêtre, una giovane donna assorta in tristi pensieri, seduta davanti alla ringhiera di un balcone. Un soggetto che Zando avrebbe ripreso a distanza di anni, infondendovi un senso di trepidazione e di malinconia tale da suscitare sentimenti struggenti, segno della sensibilità del pittore nei confronti della solitudine dell’uomo moderno e della fragilità che gliene derivava; sentimento che gli ispirò dipinti come La fête soffuso di partecipazione per la bambina attenta a non far cadere il pesante vaso di fiori, omaggio per un onomastico.

Paesaggio (1886).


L’albero (1886-1890).


La fête (1894), Mantova, Palazzo Te.

Ben presto anche il «successo d’impressionismo» ottenuto dai quadri di Seurat e di Signac dovette indurre il pittore a una più attenta lettura di quel nuovo metodo di trasposizione pittorica che tendeva a una severa ricomposizione del visibile in forme nitidamente scandite. Nell’ottobre del 1886 egli trascorse una vacanza a Damiette, nella valle di Chevreuse, ospite di Armand Guillaumin, dedicandosi con ritrovato entusiasmo a studi di paesaggio. La familiarità con il pittore, molto legato a Seurat e a Signac al punto che Pissarro aveva coniato l’espressione «Guillaumin et C.ie» per alludere a quel gruppetto di artisti cui apparteneva anche Gauguin, comportò una maggior comprensione di quella maniera che opponeva alla frantumazione impressionistica la metodica applicazione del colore diviso, tanto più che Pissarro stesso guardava con interesse al pointillisme fino ad acquisirne la tecnica. Anche Zando, intorno al 1888, eseguì quadri indicativi delle sue riflessioni sulla pittura pointilliste, sebbene a interessare l’artista non fosse tanto l’aspetto scientifico di quel metodo, da lui ritenuto troppo programmatico, quanto, piuttosto, il senso d’immobilità e di astrazione che emana dalle immagini con esso realizzate. Nello spazio senz’aria della Leçon de chant, per esempio, le figure della maestra e delle allieve, rese con tocchi minuti di pennello metodicamente accostati, hanno una consistenza dichiaratamente bidimensionale, acuita dalla luce che ne accentua l’incorporeità.


La leçon de chant (1885-1890) Milano, Gallerie dÕItalia.

A quell’epoca l’esistenza dell’artista scorreva con relativa quiete. «Non cerco più le analisi e le definizioni di quello che mi succede», scriveva a Martelli nel dicembre 1888, «lavoro più che posso per distrarmi, e spero di non lasciare in chi m’avrà conosciuto il ricordo di un cretino e di un farabutto»; anche la sua sensazione di “esiliato” era acquietata ed egli ammetteva di non detestare affatto la Francia, condizione di spirito in buona parte dovuta alla sempre maggiore familiarità di rapporti con gli amici artisti, in particolare con l’ambiente che faceva capo a Degas, come testimoniano le lettere sue e degli altri pittori del gruppo, soprattutto quelle di Camille Pissarro, nelle quali il nome del “venitien” ricorre spesso perché compagno di serate, di villeggiature, di gite, ma ancor più perché arbitro di un gusto estetico cui poter fare riferimento.

Nella corrispondenza di Zandomeneghi a Diego Martelli, i nomi degli artisti che il pittore frequentava di più tornano con regolarità, legati ai fatti semplici del quotidiano, o a quelli più drammatici dell’esistenza. Aneddoti e avvenimenti da cui traspaiono sentimenti di cordialità e di simpatia verso quelle persone che, sole ormai, rappresentavano la vita sociale dell’artista: dai successi da loro riportati alle mostre alla speranza per una ripresa economica di Pissarro, al condolersi con Mary Cassatt per la morte della sorella. Da amico, Zando si preoccupava di fare loro piccole commissioni - come quando chiese a Martelli di procurargli alla Farmacia fiorentina di Santa Maria Novella «qualche sacchetto di polvere d’Iride, qualche bottiglietta di Alchermes e qualche pezzo di sapone al succo di lattuga» per farne dono a Degas -; forniva a Pissarro e al figlio Lucien antiche ricette per la composizione della tempera all’uovo; indicava a Renoir - che gli era molto affezionato, e fin dai tempi della Nouvelle Athènes - l’atelier da affittare per compiervi Le bagnanti.


Albert Bartholomé, Ritratto di Federico Zandomeneghi (1890), Parigi, Musée d’Orsay. Il ritratto, identificato di recente grazie a una vecchia fotografia, è, intensamente evocativo dell’indole di Zando e attesta la familiarità nata fra i due artisti nel 1887, che spesso li vedeva coinvolti in discussioni riguardo alla superiorità della Francia sull’Italia e viceversa.

Fu Degas, comunque, almeno fino alle soglie del Novecento, l’artista che Federico incontrava più spesso, quel Degas pungente - talvolta addirittura feroce, ma al quale egli perdonava tutto perché era un «grande artista» - che lo consigliava nell’acquisto di opere d’arte, ne eseguiva il ritratto in cera, lo introduceva presso altri conoscenti come nel caso dello scultore Albert Bartholomé, «uomo amabilissimo» che a sua volta avrebbe ritratto Federico. Insieme, nel 1895, i tre amici trascorsero amabili giornate di vacanza nella campagna francese fotografandosi in pose amene e andando in bicicletta; non Degas, però, che «dopo aver sconquassato la macchina [di Zando] trovò che [quel mezzo] non s’accordava con lui!».

Risalgono a quegli anni i pastelli raffiguranti giovani cicliste, resi con una stesura rapida e filamentosa quasi a suggerire l’immediatezza dello studio dal vero, sensazione acuita dal taglio delle inquadrature che infonde alle scene il senso di una veloce impressione. Sono immagini che in parte risentono del mestiere d’illustratore di figurini di moda, “cifra” del tutto estranea a La coiffure o a La toilette, eseguiti in quegli stessi anni, e intonati a suadenti cromie azzurre, nei quali il tema della donna intenta alla propria toilette, soffuso della consueta affettuosa tenerezza, acquisisce toni d’attualità per il segno morbido che tornisce le figure rese tramite le campiture di colore sintetiste sperimentate allora da Gauguin e dai giovani Nabis. L’azzurro è il colore che domina anche in Femme qui s'étire, un’immagine dalla complessa costruzione spaziale, nella quale il riferimento a simili composizioni di Degas s’intesse, acquisendo amabilità, di colti rimandi alla pittura di Fragonard, di cui rimedita il tono di scherzevole sensualità qui ricondotta nell’ambiente un po’ equivoco di una “demi-mondaine” di fine Ottocento. La predilezione di Zando per le gamme variate degli azzurri dovette essere motivo di disquisizioni fra il pittore e gli amici, tanto da divenire proverbiale e dar vita a aneddoti, come ricordava Julie Manet, la figlia di Berthe Morisot.


La toilette (1890 circa).

Le repos des bicyclettes (1896 circa).


Femme qui s’étire (1895); Mantova, Palazzo Te.

ZANDOMENEGHI
ZANDOMENEGHI
Silvestra Bietoletti
Un dossier dedicato a Federico Zandomeneghi (Venezia, 2 giugno 1841 - Parigi, 31 dicembre 1917). In sommario: Gli anni fiorentini; Il ritorno a Venezia; A Parigi; Il contratto con Paul Durand-Ruel. Venezia 1914. Come tutte le monografie della collana Dossier d'art, una pubblicazione agile, ricca di belle riproduzioni a colori, completa di un utilissimo quadro cronologico e di una ricca bibliografia.