IL RITORNO
A VENEZIA

Alla fine del maggio 1866 Zandomeneghi, insieme all’amico Abbati, si arruolò come volontario nel battaglione dei Carabinieri genovesi per combattere nella terza guerra d’indipendenza, e nell’agosto, subito dopo la liberazione del Veneto, si recò a Venezia dove l’improvvisa morte del padre lo costrinse a rimanere per prendersi cura della famiglia.

Il rientro a Venezia non comportò vistosi mutamenti nelle abitudini del pittore che continuò a partecipare con regolarità alle mostre cittadine e alle varie Promotrici italiane, proponendo scene d’interno spesso ambientate in ambienti monumentali, come nel caso della Veduta dell’interno della chiesa di San Marco a Venezia, presentata alla mostra della Reale Accademia della città nel 1868, comunque impostate sulla presenza incombente di una figura umana, come i critici più conservatori rilevavano con disapprovazione. Quel che invece andava cambiando era lo stile messo a punto da Zandomeneghi sempre più propenso ad adottare una stesura densa d’impasti, unita all’uso di colori decisi resi più vividi dai contrasti chiaroscurali; una maniera assolutamente confacente a infondere vitalità e carattere ai protagonisti dei suoi “quadrettini”, i cui soggetti contemporanei e privi di implicazioni narrative - L’attesa, Il primo chignon, Paul de Kock - venivano tacciati di futilità, quando non proprio di cattivo gusto, sebbene ne venissero apprezzate le qualità disegnative e di composizione.

I rapporti con l’ambiente fiorentino, inevitabilmente diradati data la lontananza, rimanevano comunque saldi, e anzi la morte di Abbati, avvenuta nel febbraio 1868, fortificò il legame d’amicizia tra Federico e Diego Martelli «forse l’unico», come gli confidò il pittore, a sapere quanto lui e Beppe fossero stati «legati d’amicizia».

La profonda amicizia che univa Zandomeneghi e Martelli, testimoniata dal tono schietto e confidenziale della loro corrispondenza, si manifesta in maniera lampante nel ritratto che Federico fece all’amico fra il dicembre 1869 e il gennaio 1870, quando fu ospite di Diego e della madre a Firenze.

Seduto al tavolo di lavoro in atteggiamento meditativo, Diego scrive. L’inquadratura molto ravvicinata e l’impianto serrato della composizione costringono la sua figura in uno spazio limitatissimo, fra la libreria e lo scrittoio ingombro di carte, schedari, calamaio, fogli di appunti; l’immagine richiama quelle di santi e di pensatori raccolti nella quiete dello studio, della pittura rinascimentale e in particolare della tradizione veneta, di Bellini o di Antonello. La luce, pur attentissima nel definire i particolari, si ammorbidisce per delicati trapassi a restituire gli aspetti più intimi e introspettivi dell’indole di Diego - quelle “malinconie” che ogni tanto lo perseguitavano e che tanto dispiacevano a sua madre fino a non farle apprezzare il ritratto di cui tuttavia intuiva l’attualità, senz’altro motivo d’ammirazione da parte degli amici del figlio.

A Venezia, Federico aveva ritrovato il compagno di studi Guglielmo Ciardi, uno dei pochi artisti con cui sembra avere avuto dimestichezza all’indomani del suo ritorno in patria, e per il quale aveva profonda stima come si deduce dalla lettera con cui lo presentava a Telemaco Signorini nel gennaio 1868, quando Ciardi si apprestava a partire per un soggiorno di studio a Firenze, Roma, Napoli. Nella lettera, forse la prima di un rapporto epistolare che si sarebbe infittito con l’andare del tempo, Zandomeneghi, dopo aver raccomandato di far conoscere all’amico «il buono e il meglio» che Firenze offriva in fatto d’arte, dichiarava che le doti di Ciardi erano tali che non abbisognavano di parole: egli, infatti, si sarebbe fatto «conoscere ed apprezzare ben presto da se stesso».


Signora nel parco (1871). Il profilo di una giovane donna malinconica si disegna con delicatezza sulla pallida luminosità di un cielo al tramonto. È l’abilità di colorista del pittore ad animare il dipinto molto apprezzato da Camillo Boito per il tenore evocativo della scena, tale da suscitare nello spettatore «le vaghe impressioni del crepuscolo».


Ritratto di Diego Martelli (1870); Firenze, Palazzo Pitti - Galleria d’arte moderna.

Impressioni di Roma (1872); Milano, Pinacoteca di Brera.
Il vuoto culturale e affettivo determinato dalla partenza dell’amico, venne in qualche modo compensato dalla presenza a Venezia di Michele Cammarano, il pittore napoletano che nell’aprile 1868 esponeva nelle sale della Promotrice Incoraggiamento al vizio, una tela dal drammatico tenore caravaggesco, eseguita per Angelo e Niccolò Papadopoli, e che fece molto scalpore per la crudezza del soggetto realista esaltato dalla luce impietosa che spiove dall’alto creando potenti effetti chiaroscurali. Il quadro rappresentò per Zandomeneghi un modello che si rivelò decisivo in una fase delicata della sua evoluzione artistica, situazione acuita dal senso d’immobilità che la cultura artistica veneziana andava assumendo ai suoi occhi. «Qui siamo al limbo», scriveva in proposito a Signorini nel gennaio 1869, «a dire il vero ci sono due o tre giovani che minacciano assai [...]. Ma gli artisti veneti - mio Dio!».

Insoddisfatto della maniera da lui elaborata una volta superata la rigorosa adesione alla Macchia, il pittore era alla ricerca di un proprio linguaggio pittorico in grado di esprimere con pienezza e senza possibilità di fraintendimenti la sua personalità d’artista e le sue concezioni estetiche. E la pittura di Cammarano, la cui compiutezza espressiva fondava su un tenore formale tale da travalicare il significato didascalico del soggetto, fu senz’altro di stimolo in tal senso per Zandomeneghi convinto assertore del valore autonomo dell’arte. Già l’anno dopo l’artista realizzò Il riposo. Costumi veneziani, nel quale un nugolo di spazzini sosta in pose più o meno sgraziate dinanzi alla Scuola grande di San Rocco; un quadro chiaramente debitore, per soggetto e per soluzioni formali, dell’opera di Cammarano come mise in evidenza la critica: «Federico Zandomeneghi non vuol saperne di regole e di forma, e seguendo la scuola di Cammarano tutto subordina all’effetto generale». Ma a un anno di distanza, il medesimo autore rivedeva il proprio giudizio, e paragonando le scelte pittoriche di Federico ai tentennamenti politici e culturali della società europea dei primi anni Settanta, ne lodava il «coraggio» insieme alle qualità formali e alla franchezza espressiva. Il sostegno della critica più aperta allo sperimentalismo - oltre a Pompeo Gregorio Molmenti, espressero opinioni positive sul nuovo corso dell’arte di Zandomeneghi, Jacopo Cavallucci, Diego Martelli, Camillo Boito - esortò l’artista a proseguire nella via intrapresa, e nel 1872 egli inviò a Milano, alla seconda Esposizione nazionale, Impressioni di Roma, acquistato in quell’occasione dal Ministero della pubblica istruzione per la pinacoteca milanese. Nella luce livida di una giornata di fine inverno, i poveri, radunati sulla scalinata del convento di San Gregorio al Celio, consumano il pasto dato in elemosina dai frati. L’intonazione cromatica sobria, “bassa”, e la rigorosa definizione delle figure, individuate nella loro miseria ma senza alcuna inflessione pietistica o vernacolare, sono indicative della sensibilità del pittore nel suscitare pensieri e stati d’animo affidandosi essenzialmente al linguaggio della forma, come ben intese Camillo Boito affermando che era lo «spirito contemporaneo» di Zandomeneghi a infondere al dipinto «quel certo che, che si conosce, che si ama, e che ci commuove».

L’anno seguente, sempre a Milano, il pittore presentò Preparativi per la processione, ancora un soggetto «triviale», secondo la critica, nel quale la luce gioca un ruolo di primo piano: in questo caso è il raggio potente del sole che crea ombre nette sui muri e sul sagrato, e accende i colori delle vesti dei confratelli, a determinare i valori emozionali e compositivi dell’immagine. Al cromatismo di tradizione veneziana il pittore coniuga «il magistero» di una luce indagatrice di matrice macchiaiola che gli meritò il plauso di Diego Martelli.

Al principio di quell’anno Federico era stato a Castiglioncello, ospite di Diego che gli aveva messo a disposizione una stanza voltata a tramontana da usare come studio. L’esperienza fu così piacevole ch’egli la ripeté nel 1874, e là trovò - come scrisse a Signorini - una stagione stupenda che gli permetteva «di lavorare all’aria aperta come fosse primavera», fra l’altro abbozzando «una mezza figura d’etrusca che forse non è malvagia». «Se son rose fioriranno» chiosava Zandomeneghi, giustamente consapevole della novità che quel dipinto rappresentava nel suo percorso artistico: una figura di popolana con la gerla in capo, a mo’ di moderna canefora, si staglia, grande al vero, su una visione a volo d’uccello della campagna livornese e sulla volta di un cielo trascorso di nuvole lievi di tiepolesca memoria. Un’immagine dalle indubbie assonanze con la pittura di temi rurali francese, di Jules Breton o di Jules Bastien-Lepage, nota all’artista da resoconti e da riproduzioni - e francese è anche l’impaginazione della figura “tagliata” alle ginocchia -, la cui portata emotiva è frutto della straordinaria attinenza fra il soggetto e la sua resa pittorica, proprio come è delle “contadine” di Giovanni Fattori, delle quali possiede il medesimo tenore silente e austero. Superata la crisi che nei mesi precedenti lo aveva indotto a considerare «più naturale per [sé] rimanere in una modesta e tranquilla oscurità che non rimetter[si] a lottare in mezzo a una società intelligente» dove sarebbe rimasto «schiacciato senza dubbio», così aveva confidato a Signorini, l’artista si disponeva adesso, stimolato dalla bellezza della natura di Castiglioncello dov’era «arcistracontento» d’essersi trasferito, a rinnovare il proprio linguaggio e a ritessere confronti costruttivi con i colleghi. Fu sull’onda di questa vitale condizione di spirito che il 2 giugno 1874 alle ore 10 partì per Parigi, avvisando «senza tanti preamboli» Francesco Gioli che gli aveva prestato lo studio: «ho fatto questa risoluzione e la metto in atto con la massima velocità perché non avvenga un pentimento che mi faccia piantar le radici a Firenze».


La portatrice (L'etrusca) (1874).

ZANDOMENEGHI
ZANDOMENEGHI
Silvestra Bietoletti
Un dossier dedicato a Federico Zandomeneghi (Venezia, 2 giugno 1841 - Parigi, 31 dicembre 1917). In sommario: Gli anni fiorentini; Il ritorno a Venezia; A Parigi; Il contratto con Paul Durand-Ruel. Venezia 1914. Come tutte le monografie della collana Dossier d'art, una pubblicazione agile, ricca di belle riproduzioni a colori, completa di un utilissimo quadro cronologico e di una ricca bibliografia.