Grandi mostre. 4
Piero della Francesca a Forlì

un maestososiLenzio

Nel progetto espositivo in corso nei Musei San Domenico il Rinascimento incontra la modernità. Un dialogo che intende indagare, come ci racconta qui uno dei curatori, anche l’attrazione che Piero della Francesca ha suscitato sugli artisti del Novecento.

Antonio Paolucci

Le mostre dei Musei San Domenico di Forlì, negli ultimi anni, hanno affrontato da più angoli visuali l’argomento dell’avvento della modernità nelle arti figurative in Italia fra XIX e XX secolo. D’altra parte, che Forlì abbia avuto nella sua storia recente un’attenzione e una propensione speciali per le culture, per gli stili e per gli autori del Novecento è cosa nota. Basta entrare nel cuore della città romagnola, in quella piazza Saffi che sembra davvero uno spazio metafisico di de Chirico costruito, per rendersene conto. 

Questo spiega perché negli ultimi anni si siano succedute nei Musei San Domenico (essendo sempre principale curatore delle varie edizioni Fernando Mazzocca) mostre dedicate ai protagonisti e agli argomenti meglio rappresentativi della modernità italiana: Wildt nel 2012, il Novecento nel 2013, il Liberty nel 2014, Boldini nel 2015.


Piero della Francesca, San Girolamo e un devoto (1440-1450 circa), particolare, Venezia, Gallerie dell’Accademia.

La pittura, prima di essere
discorso, è armonia di colori
e di superfici


La mostra di quest’anno ha per tema Piero della Francesca e il suo mito (in corso fino al 26 giugno), studia cioè e propone, attraverso una selezionata rappresentanza di opere, quel momento felice della modernità italiana che ha visto gli artisti affascinati dai modelli e soprattutto dai valori del pittore di Borgo Sansepolcro. 

«In San Francesco è Piero e il suo giardino. Come innanzi a un giardin profondo io stetti o Pier della Francesca» aveva scritto Gabriele D’Annunzio, a inizio secolo, nelle Città del silenzio di fronte ai murali della Leggenda della vera croce e non c’è chi non veda come quel «giardin profondo» sia già la poetica prefigurazione della «sintesi prospettica forma-colore», la veloce formula definitoria dello stile di Piero che Roberto Longhi consegnò alla sua monografia del 1927. 

Di fatto, nel primo Novecento, Piero è nell’alone di Seurat, di Cézanne, del “ritorno all’ordine” e dei “valori plastici”, e quell’orientamento di gusto, contestuale alla monografia di Longhi, contribuì non poco a renderlo celebre. A un certo momento, nella storiografia critica degli inizi dello scorso secolo, Piero della Francesca è sembrato la dimostrazione perfetta, antica e perciò profetica, di una idea che ha dominato a lungo il nostro tempo: di come cioè la pittura, prima di essere discorso, sia armonia di colori e di superfici. Talora, sopravvalutando il suo formalismo, si è finito con il sottovalutare la sua capacità di cambiamento e il fatto che egli non è, dopotutto, un artista moderno. Il formalismo quindi domina l’immagine che il Novecento si è fatto del pittore di Borgo Sansepolcro; un formalismo che il suo ruolo di maestro e teorico della prospettiva («miglior geometra che fosse ne’ tempi suoi» per il Vasari, «monarca della pittura» per Luca Pacioli) contribuì a circondare di un alone di alta e quasi esoterica scientificità.


Piero della Francesca, Madonna della misericordia (1445-1462), Sansepolcro (Arezzo), Museo civico;

Felice Casorati, Silvana Cenni (1922).

C’è un altro elemento che toccò profondamente la percezione che dell’opera e del destino di Piero ebbero i critici e gli artisti di primo Novecento. Mi riferisco al carattere rustico, locale e popolare della sua pittura. Piero fu certo pittore aristocratico di «frequentazione cortese» (Arnold Hauser, 1955) e non solo perché erano suoi clienti i signori di Urbino e di Rimini, il papa e il marchese di Ferrara. Il ritratto di Sigismondo Malatesta nell’affresco staccato custodito nel Tempio malatestiano di Rimini è un esempio insuperato di sublimazione araldica del potere autocratico e nulla appare di più elitario, cerimoniale e rituale (aristocratico quindi nell’accezione comune del termine) di scene come la Flagellazione di Cristo, il dipinto celebre della Galleria nazionale delle Marche, o L’incontro fra Salomone e la regina di Saba negli affreschi di Arezzo. 

Ma egli è anche il pittore del Cristo risorto del museo di Borgo Sansepolcro e della Madonna del parto di Monterchi (Arezzo), opere che hanno sempre sollecitato commenti sulla rusticità innata, sulle radici contadine, sulla natura popolare della sua arte. Come dimenticare, in proposito, le affascinanti immagini longhiane sul Cristo di Borgo Sansepolcro «accigliato colono imbalsamato dal sole» o sulla Madonna di Monterchi «giovane montanina sulla porta della carbonaia?». Negli anni di Strapaese e del ruralismo italiano, piaceva molto questo aspetto di Piero della Francesca, piaceva il suo radicamento nella piccola patria, nel borgo dove il pittore aveva casa e bottega, dove ricopriva cariche pubbliche (consigliere comunale, priore di confraternita), dove amministrava con fruttuosa sagacia il suo non piccolo patrimonio. 

Un altro elemento caratterizzante del suo stile, un elemento che poteva incontrare significative consonanze nelle tendenze pittoriche del Novecento fra Casorati, Cagli e de Chirico, era la “non eloquenza”, quella impressione di maestà e di silenzio che abita le sue pitture. Per Berenson «l’impersonalità è il dono col quale Piero ci incanta, la sua virtù più caratteristica». Per il grande storico americano Piero della Francesca negli affreschi di Arezzo è comparabile «all’anonimo scultore dei fregi del Partenone», per Longhi «la sua scoperta più preziosa fu quella di uno stile spontaneamente arcaico». Ma in definitiva, di fronte alle pitture di Piero della Francesca, si poteva dire (ancora con Berenson) che «l’impersonalità e l’assenza di emozione» più che una propensione mentale dell’artista, sono «una qualità intrinseca delle cose» anzi la principale di tutte le qualità, il vero e unificante carattere distintivo del mondo visibile. Date queste premesse si può meglio capire il senso della mostra che occupa l’inverno e la primavera dei Musei San Domenico nell’anno 2016.


Piero della Francesca, Santa Apollonia (1454-1469), Washington, National Gallery of Art;


Massimo Campigli, Le cucitrici (1925), San Pietroburgo, Ermitage.

Per Berenson
«l’impersonalità è il dono
col quale Piero ci incanta»


Si trattava di studiare e di proporre attraverso un coerente percorso espositivo i riflessi che, con Casorati e con Donghi, con Carrà e con Morandi, con de Chirico e con Balthus, le suggestioni da Piero della Francesca hanno storicamente prodotto in una stagione particolarmente felice della storia artistica italiana. I curatori della mostra forlivese (chi scrive, con Daniele Benati, Frank Dabell, Fernando Mazzocca e Paola Refice) hanno raccolto, intorno a un piccolo ma significativo nucleo di dipinti certi di Piero, gli autori e le opere che riflettono il suo stile o che dalla visione secondo prospettiva, nelle capitali quattrocentesche dell’Italia storica, sono stati condizionati. Chi sosterà di fronte ai dipinti antichi che popolano le sale dei Musei forlivesi nel sobrio allestimento dello studio di architettura Lucchi-Wilmotte capirà che l’arte di Piero della Francesca («un teorema che viene poi dolcemente a rivestirsi e come intiepidirsi di uno spettacolo» per usare le parole del Longhi) ha fecondato e orientato, nel XV secolo, la civiltà figurativa degli italiani; dalla Firenze di Andrea del Castagno, del Beato Angelico e di Paolo Uccello - i maestri che della visione secondo prospettiva sono antesignani e alfieri - alla Sicilia di Antonello, al Veneto del Giambellino, del Carpaccio, di Cima, alla Ferrara dello studiolo del Belvedere e degli affreschi di Schifanoia, alla Urbino di Luciano Laurana e di Francesco di Giorgio, alla Milano di Donato Bramante. I critici e gli studiosi di primo Novecento (Longhi, Berenson, Salmi, Ojetti, Brandi) hanno costruito l’immagine di una magica Italia aristocratica e rurale, modernamente “antica” e carica di ancestrale sapienza, dislocata in profondità e splendida di colori luminosi come nei murali di Arezzo. In un tempo felice della nostra storia, quella idea dell’Italia che aveva in Piero della Francesca il suo emblema è diventata l’arte di Casorati e di Donghi, di Morandi e di de Chirico, di Cagli e di Balthus e dei tanti altri autori che popolano le pareti dei Musei San Domenico.


Andrea del Castagno, Ester (1450 circa), Firenze, Galleria degli Uffizi.


Beato Angelico, Imposizione del nome al Battista (1428-1430 circa), Firenze, Museo di San Marco.

Piero della Francesca. Indagine su un mito

a cura di Antonio Paolucci, Daniele Benati, Frank Dabell,
Fernando Mazzocca e Paola Refice
Forlì, Musei San Domenico
piazza Guido da Montefeltro 12
fino al 26 giugno
orario 9.30-19, sabato, domenica e giorni festivi 9.30-20, lunedì chiuso
telefono 199-151134
catalogo Silvana Editoriale
www.mostrapierodellafrancesca.com

ART E DOSSIER N. 331
ART E DOSSIER N. 331
APRILE 2016
In questo numero: SGUARDI L'occhio nell'arte tra mito e fascinazione. STEREOTIPI Immagini d'oriente nella pittura occidentale. MITI D'OGGI Puer aeternus Murakami. LONDRA Nuove sale al V&A. IN MOSTRA Piero della Francesca a Forlì, Correggio e Parmigianino a Roma, Severini a Mamiano, Matisse a Torino.Direttore: Philippe Daverio.