La virtù immutabile di quel volto sofferente segnato dal dolore, poi, Grossman la rivede anche nelle donne affamate dalla collettivizzazione; quando Lenin confisca il grano ai contadini benestanti, i kulaki, e li porta prima alla fame e, poi, alla morte: «È venuta con noi, ha viaggiato dentro un vagone cigolante, ha tolto i pidocchi dai capelli morbidi non lavati del figlio. Ha vissuto l’epoca della collettivizzazione totale. Eccola che si avvia al treno scalza, con il suo bambino piccolo. Una lunga strada li attende, da Obojan, dalle vicinanze di Kursk, dalle terre nere della regione di Voronez alla taiga, alle paludi fitte di vegetazione oltre gli Urali, alla sabbia del Kazakistan»(5).
Non di rado, infatti, Grossman nei suoi libri finisce per incastonare gli avvenimenti e la tragedia della morte in una dimensione di immutabile eternità che li pone fuori della storia. La sua visione del mondo è questa: «C’è un uomo che respira, che pensa e piange, ma il suo tempo, quel tempo che apparteneva solo a lui se n’è andato, è volato via, scivolato via. Mentre l’uomo resta»(6). La Vergine è, perciò, l’“imago pietatis”, tragicamente presente nei lager nazisti e nell’arida campagna sovietica.
Il quadro di Dresda è, oltretutto, un motivo ricorrente nella cultura russa; modello estetico attorno al quale si era già dibattuto nell’ambito della grande letteratura dell’Ottocento(7). In particolare, ben sappiamo quanto profonda fosse la devozione di Dostoevskij per la Madonna sistina e quanto stupore manifestò davanti alla tela nella galleria di Dresda e come, nel suo studio, ci fosse una stampa proprio del dipinto di Raffaello(8).
Romanzo piuttosto articolato, I demoni, terminato da Dostoevskij nel 1871, racconta di un manipolo di ossessi, che, contrari a ogni principio morale, ordiscono la presa del potere, incitati dal motto: “Tutto è permesso!”. Lo scrittore s’ispirò a un fatto di cronaca e buona parte del libro venne scritto a Dresda, dove egli vide la Madonna sistina nella Gemäldegalerie(9).
Stefan Trofimovič, nel romanzo, è un rispettabile erudito, l’autorità intellettuale dei nichilisti (i veri “demoni” del titolo, appunto), e prossimo a scrivere «qualcosa sulla Madonna di Dresda»; sicché, durante una mattinata letteraria, anziché sostenere la nuova ideologia, fondata sulla morte d’ogni sentimento, elogia Raffaello e Shakespeare, in questi termini: «Io dichiaro che Shakespeare e Raffaello sono più in alto della chimica, quasi più in alto di tutta l’umanità. […] e sapete voi, sapete che l’umanità può vivere senza la scienza e senza il pane, soltanto senza la bellezza non può vivere, giacché non avrebbe nulla da fare al mondo!»(10).
Stefan Trofimovič morirà, di lì a poco, in una capanna, una povera izba di contadini e, poco prima del trapasso, si comunicherà assumendo l’eucarestia, e confessando alla giovane vedova Sof’ja Matvèena, della quale si era invaghito, che l’unico amore della sua esistenza era stato quello per una ragazza dai capelli neri. Sappiamo, però, dalla trama che la sua amante, la ricca Varvara Petrovna, aveva invece folti capelli biondi. Il che ci fa sospettare che quella “ragazza” fosse la Madonna di Raffaello(11).
Anche Šatov, un altro personaggio dei Demoni, tenta di svincolarsi da quella che aveva finito per ritenere un’accolita d’invasati: è questa la ragione per cui verrà ucciso. Sua moglie, Mar’ja Šatova, con la quale Ivan Šatov aveva vissuto tre anni addietro a Ginevra, torna dal marito per dare alla luce un bimbo. Il padre della creatura che Mar’ja porta in grembo è Nikolaj Stavrogin. Costui è un nobile, annoiato e perverso, nonché (come lo studioso Trofimovič) un’altra figura carismatica che i nichlisti idolatrano. Stavrogin, però, privo di fiducia nel perdono, si suiciderà impiccandosi, dopo aver confessato a un monaco il proprio segreto (che non è il vile abbandono della partoriente Mar’ja, ma un altro peccato, ben più turpe, commesso su una bambina), sicuro che ciò aumenterà la dannazione della propria anima.
Buona parte della sconfinata letteratura critica sul romanzo individua in Stavrogin il vero protagonista del libro. Del resto, è stato lo stesso Dostoevskij a chiarirlo in una celebre lettera dove confessa come, nel corso della stesura dell’opera, il personaggio crescesse fino divenire l’asse portante dell’impianto drammaturgico. Senza dubbio, Stavrogin su un lettore sprovveduto potrebbe suscitare un’ambigua attrazione, per via del volto apollineo e il piglio altero; ma chiunque abbia letto Dostoevskij sa bene che lo scrittore non si compiace affatto in lui: Stavrogin è incarnazione del nichilismo, impegnato nella propria distruzione, incapace di amore e privo di fede. Stavrogin e Šatov sono i cardini della storia, complementari e antitetici, come spesso accade ai personaggi di Dostoevskij: il primo si uccide; mentre il secondo esclama: «Io… io crederò in Dio!».
Šatov, quando vede da presso l’amata Mar’ja, il giorno prima che lei partorisca e due giorni prima ch’egli muoia, così si comporta, osservando intensamente la donna: «Guardò con attenzione i tratti del suo viso: da tempo ormai era scomparso dal quel volto spossato lo splendore della prima giovinezza. Era sempre piacente, certo, e ai suoi occhi, come prima, era una bellezza. In effetti era sui venticinque anni, di corporatura abbastanza robusta, più alta della media, più alta di Šatov, con sontuosi capelli castani, un viso pallido e ovale, grandi occhi scuri, ora scintillanti di febbre»(12).
La somiglianza fra Mar’ja e la Madonna sistina è invero generica, ma non ci sono elementi che la contraddicono: non dice, per esempio, che la Šatova è bionda. Ragionando sul romanzo, però, potremmo ipotizzare che Stefan Trofimovicˇ abbia suggellato la propria conversione con l’elogio della bellezza di Raffaello (già evocato dallo studio che immagina di fare «sulla Madonna di Dresda»), necessaria a che l’umanità viva. Parte di questa umanità dolente è Šatov, che potrebbe intravedere il riflesso di quella bellezza trasferirsi dal dipinto del Sanzio al volto di Mar’ja. Morendo con l’animo redento, Šatov lascerà al mondo una creatura che già porta il suo stesso nome: Ivan. Così infatti, Mar’ja chiama il piccolo: molto vivrà in lui del padre naturale, Stavrogin, ma - grazie all’amore di sua madre - molto gli rimarrà dentro anche di Šatov, che perdona Mar’ja e ne adotta il bambino. «È mio figlio», dirà(13).
Così, verrebbe da dire che sia Dostoesvkij (scrittore cui Grossman dedica un bel dialogo in Vita e destino) sia Grossman stesso traggano il senso di un carattere universale, e soprattutto salvifico, dalla Madonna sistina(14). Infatti, in Tutto scorre, l’ultimo romanzo di Grossman, il volto della Vergine dipinta da Raffaello pare ancora affiorare nel viso di Anna, colei che consola Ivan Grigor’evicˇ, libero dopo trent’anni trascorsi in un gulag staliniano: «Ivan Grigor’evicˇ vide in sogno sua madre. Lui le gridava: “Mamma, mamma, mamma…”, ma il cupo frastuono dei trattori soffocava la sua voce.
[…] Disperato spalancò gli occhi: china su di lui stava una donna semivestita - nel sonno aveva chiamato sua madre e la donna gli si era avvicinata […]. Gli occhi della donna non piangevano, ma egli vide in essi qualcosa di più che lacrime di commozione - vide quel che non aveva mai visto negli occhi della gente. Era bellissima perché era buona. Perché l’amore è bontà»(15).