Arte e letteratura
La Madonna sistina, Dostoevskij e Grossman

un modellodi amore assoluto

Una Madonna di Raffaello ricorre nella letteratura russa come immagine salvifica di amore e redenzione.
Se ne trova traccia in due scrittori diversi fra loro ma accomunati dalla ricerca di una salvezza che trascenda la contingenza per aprirsi all’eterno.

Luigi Senise

Nel 1943, la vittoria di Stalingrado rovescia le sorti del conflitto russotedesco e l’Unione Sovietica contrattacca la Germania, puntando dritta alla capitale del Reich, Berlino. Mentre attraversa la Polonia, l’armata rossa s’imbatte nel campo d’internamento di Treblinka, da poco abbandonato dai tedeschi, ormai in ritirata. Con i soldati russi viaggia Vasilij Grossman che, sebbene già conosca il crepitìo della mitragliatrice e il sordo rumore dei bombardamenti, deve ricorrere a tutta la flemma del cronista per scrivere, nel lungo articolo intitolato L’inferno di Treblinka, la testimonianza delle atrocità lì consumate ai danni del popolo ebraico(1)

Nel 1955 torna a scrivere di quel lager, in La Madonna a Treblinka(2). Qui Grossman ricorda la fredda mattina di novembre durante la quale a Mosca, al primo piano del museo Puškin, riuscì ad ammirare la Madonna sistina, tela dipinta da Raffaello attorno al 1512 (era stata portata da Dresda nella capitale sovietica nel 1945; venne poi ricollocata in sede dal 1955). Con lo spirito d’osservazione del giornalista, s’avvede che il gesto della Vergine, con la mano che sostiene il figlio, la qualifica quasi come una Pietà “ante litteram”(3)

Grossman pertanto eleva il dipinto a emblema, come se il volto della Vergine e del bimbo prefigurassero, e rappresentassero, il dolore delle donne e bambini avviati alla morte, nel 1941, a Treblinka, ma anche lo spaesamento di chi muove verso il proprio carnefice senza difesa alcuna: 

«La riconobbi [la Vergine di Raffaello] dall’espressione del viso e degli occhi. Vidi suo figlio, e riconobbi il prodigio di quel volto straordinario, non infantile. Così erano le madri e i bambini a Treblinka […]. La giovane madre ha dato alla luce il bambino nel nostro tempo. È terribile tenere in braccio il proprio figlio e udire l’ululato della folla che inneggia ad Adolf Hitler. La madre osserva il viso del neonato e sente il fragore dei cristalli infranti, il coro dei lupi intona per le vie di Berlino la marcia di Horst Wessel»(4).


Raffaello, Madonna di san Sisto (detta Madonna sistina) (1512 circa), Dresda, Gemäldegalerie Alte Meister.

(1) V. Grossman, L’inferno di Treblinka, Milano 2010; in forma di articolo, il saggio uscì sulla rivista “Znamja” (Bandiera), nel 1944.
(2) Id., La Madonna a Treblinka, Milano 2007 (traduzione di M. A. Curleto); l’articolo, scritto nel 1955, vide luce solo nel 1989, ancora su “Znamja”; in Italia venne pubblicato sull’“ Avvenire” di sabato 27 giugno 2007.
(3) Sul capolavoro di Raffaello: M. Bussagli, Dresda. I dipinti della Gemäldegalerie, Udine 2014, p.60; lo studioso, oltre che ripercorrerne la storia, ne rileva il carattere teofanico e trascendente, già notato da Sergeij Bulgakov che, al quadro, dovette la propria conversione; in proposito vedi: L. Razzano, L’estasi del bello nella sofiologia di S. N. Bulgakov, Roma 2006.
(4) V. Grossman, Vita e destino, Milano 2011, pp. 32-33.

Grossman nei suoi libri finisce per incastonare gli avvenimenti e la tragedia della morte in una dimensione di immutabile eternitˆ


La virtù immutabile di quel volto sofferente segnato dal dolore, poi, Grossman la rivede anche nelle donne affamate dalla collettivizzazione; quando Lenin confisca il grano ai contadini benestanti, i kulaki, e li porta prima alla fame e, poi, alla morte: «È venuta con noi, ha viaggiato dentro un vagone cigolante, ha tolto i pidocchi dai capelli morbidi non lavati del figlio. Ha vissuto l’epoca della collettivizzazione totale. Eccola che si avvia al treno scalza, con il suo bambino piccolo. Una lunga strada li attende, da Obojan, dalle vicinanze di Kursk, dalle terre nere della regione di Voronez alla taiga, alle paludi fitte di vegetazione oltre gli Urali, alla sabbia del Kazakistan»(5)

Non di rado, infatti, Grossman nei suoi libri finisce per incastonare gli avvenimenti e la tragedia della morte in una dimensione di immutabile eternità che li pone fuori della storia. La sua visione del mondo è questa: «C’è un uomo che respira, che pensa e piange, ma il suo tempo, quel tempo che apparteneva solo a lui se n’è andato, è volato via, scivolato via. Mentre l’uomo resta»(6). La Vergine è, perciò, l’“imago pietatis”, tragicamente presente nei lager nazisti e nell’arida campagna sovietica. 

Il quadro di Dresda è, oltretutto, un motivo ricorrente nella cultura russa; modello estetico attorno al quale si era già dibattuto nell’ambito della grande letteratura dell’Ottocento(7). In particolare, ben sappiamo quanto profonda fosse la devozione di Dostoevskij per la Madonna sistina e quanto stupore manifestò davanti alla tela nella galleria di Dresda e come, nel suo studio, ci fosse una stampa proprio del dipinto di Raffaello(8)

Romanzo piuttosto articolato, I demoni, terminato da Dostoevskij nel 1871, racconta di un manipolo di ossessi, che, contrari a ogni principio morale, ordiscono la presa del potere, incitati dal motto: “Tutto è permesso!”. Lo scrittore s’ispirò a un fatto di cronaca e buona parte del libro venne scritto a Dresda, dove egli vide la Madonna sistina nella Gemäldegalerie(9)

Stefan Trofimovič, nel romanzo, è un rispettabile erudito, l’autorità intellettuale dei nichilisti (i veri “demoni” del titolo, appunto), e prossimo a scrivere «qualcosa sulla Madonna di Dresda»; sicché, durante una mattinata letteraria, anziché sostenere la nuova ideologia, fondata sulla morte d’ogni sentimento, elogia Raffaello e Shakespeare, in questi termini: «Io dichiaro che Shakespeare e Raffaello sono più in alto della chimica, quasi più in alto di tutta l’umanità. […] e sapete voi, sapete che l’umanità può vivere senza la scienza e senza il pane, soltanto senza la bellezza non può vivere, giacché non avrebbe nulla da fare al mondo!»(10)

Stefan Trofimovič morirà, di lì a poco, in una capanna, una povera izba di contadini e, poco prima del trapasso, si comunicherà assumendo l’eucarestia, e confessando alla giovane vedova Sof’ja Matvèena, della quale si era invaghito, che l’unico amore della sua esistenza era stato quello per una ragazza dai capelli neri. Sappiamo, però, dalla trama che la sua amante, la ricca Varvara Petrovna, aveva invece folti capelli biondi. Il che ci fa sospettare che quella “ragazza” fosse la Madonna di Raffaello(11)

Anche Šatov, un altro personaggio dei Demoni, tenta di svincolarsi da quella che aveva finito per ritenere un’accolita d’invasati: è questa la ragione per cui verrà ucciso. Sua moglie, Mar’ja Šatova, con la quale Ivan Šatov aveva vissuto tre anni addietro a Ginevra, torna dal marito per dare alla luce un bimbo. Il padre della creatura che Mar’ja porta in grembo è Nikolaj Stavrogin. Costui è un nobile, annoiato e perverso, nonché (come lo studioso Trofimovič) un’altra figura carismatica che i nichlisti idolatrano. Stavrogin, però, privo di fiducia nel perdono, si suiciderà impiccandosi, dopo aver confessato a un monaco il proprio segreto (che non è il vile abbandono della partoriente Mar’ja, ma un altro peccato, ben più turpe, commesso su una bambina), sicuro che ciò aumenterà la dannazione della propria anima. 

Buona parte della sconfinata letteratura critica sul romanzo individua in Stavrogin il vero protagonista del libro. Del resto, è stato lo stesso Dostoevskij a chiarirlo in una celebre lettera dove confessa come, nel corso della stesura dell’opera, il personaggio crescesse fino divenire l’asse portante dell’impianto drammaturgico. Senza dubbio, Stavrogin su un lettore sprovveduto potrebbe suscitare un’ambigua attrazione, per via del volto apollineo e il piglio altero; ma chiunque abbia letto Dostoevskij sa bene che lo scrittore non si compiace affatto in lui: Stavrogin è incarnazione del nichilismo, impegnato nella propria distruzione, incapace di amore e privo di fede. Stavrogin e Šatov sono i cardini della storia, complementari e antitetici, come spesso accade ai personaggi di Dostoevskij: il primo si uccide; mentre il secondo esclama: «Io… io crederò in Dio!». 

Šatov, quando vede da presso l’amata Mar’ja, il giorno prima che lei partorisca e due giorni prima ch’egli muoia, così si comporta, osservando intensamente la donna: «Guardò con attenzione i tratti del suo viso: da tempo ormai era scomparso dal quel volto spossato lo splendore della prima giovinezza. Era sempre piacente, certo, e ai suoi occhi, come prima, era una bellezza. In effetti era sui venticinque anni, di corporatura abbastanza robusta, più alta della media, più alta di Šatov, con sontuosi capelli castani, un viso pallido e ovale, grandi occhi scuri, ora scintillanti di febbre»(12)

La somiglianza fra Mar’ja e la Madonna sistina è invero generica, ma non ci sono elementi che la contraddicono: non dice, per esempio, che la Šatova è bionda. Ragionando sul romanzo, però, potremmo ipotizzare che Stefan Trofimovicˇ abbia suggellato la propria conversione con l’elogio della bellezza di Raffaello (già evocato dallo studio che immagina di fare «sulla Madonna di Dresda»), necessaria a che l’umanità viva. Parte di questa umanità dolente è Šatov, che potrebbe intravedere il riflesso di quella bellezza trasferirsi dal dipinto del Sanzio al volto di Mar’ja. Morendo con l’animo redento, Šatov lascerà al mondo una creatura che già porta il suo stesso nome: Ivan. Così infatti, Mar’ja chiama il piccolo: molto vivrà in lui del padre naturale, Stavrogin, ma - grazie all’amore di sua madre - molto gli rimarrà dentro anche di Šatov, che perdona Mar’ja e ne adotta il bambino. «È mio figlio», dirà(13)

Così, verrebbe da dire che sia Dostoesvkij (scrittore cui Grossman dedica un bel dialogo in Vita e destino) sia Grossman stesso traggano il senso di un carattere universale, e soprattutto salvifico, dalla Madonna sistina(14). Infatti, in Tutto scorre, l’ultimo romanzo di Grossman, il volto della Vergine dipinta da Raffaello pare ancora affiorare nel viso di Anna, colei che consola Ivan Grigor’evicˇ, libero dopo trent’anni trascorsi in un gulag staliniano: «Ivan Grigor’evicˇ vide in sogno sua madre. Lui le gridava: “Mamma, mamma, mamma…”, ma il cupo frastuono dei trattori soffocava la sua voce. 

[…] Disperato spalancò gli occhi: china su di lui stava una donna semivestita - nel sonno aveva chiamato sua madre e la donna gli si era avvicinata […]. Gli occhi della donna non piangevano, ma egli vide in essi qualcosa di più che lacrime di commozione - vide quel che non aveva mai visto negli occhi della gente. Era bellissima perché era buona. Perché l’amore è bontà»(15).


Vasilij Grigor’evič Perov, Ritratto di Fëdor Dostoevskij (1872), Mosca, Galleria Tret’jakov.


Vasilij Grossman durante la seconda guerra mondiale.

(5) Ivi, p. 33.
(6) Ivi, pp. 30-31.
(7) P. C. Bori, La Madonna di San Sisto di Raffaello, Bologna 1990. Pavel Florenskij (oltre che Tolstoj, tra gli altri), scrisse del dipinto che la visione frontale della Vergine col Bambino ricordava la frontalità delle icone russe, uniche immagini capaci di manifestare la percezione di Dio: P. Florenskij, Le Porte regali. Saggi sulll’icona, Milano 1981, pp. 75-77.
(8) A. G. Dostoevskaja, Dostoevskij, mio marito, Milano 2006, p .102.
(9) F. M. Dostoevskij, I demoni, Milano, 1997; A. G. Dostoevskaja, op. cit., p. 7: Dostoesvkij lesse in un giornale di uno studente, tal Necaev, il quale, nel 1860, avendo formato un’accolita di adepti, pronti a prendere il potere, in nome di un fantomatico tribunale del popolo, ne uccise uno dei membri appena quello decise di uscire dal gruppo.
(10) F. M. Dostoevskij, op. cit., pp. 536-537.
(11) Ivi, p. 717: «Sof’ja Matvèena racconta del delirio di Stefan Trofimovicˇ, cui ella ha assistito, a Varvara Petrovna, appena giunta dalla città, al capezzale dell’amico: “Stefan Trofimovicˇ ha raccontato per un pezzo di una nobile signora dai capelli neri”, Sof’ja Matvèena arrossì terribilmente, notando fra l’altro i capelli biondi di Varvara Petrovna, che non assomigliava affatto alla “bruna”».
(12) Ivi, p. 624.
(13) Sui personaggi creati da Dostoevskij, vedi N. Berdajev, La concezione di Dostoevskij, Torino 2002.
(14) V. Grossman, Vita e destino, cit., pp. 265-266: Strum (il protagonista del libro) è un fisico; durante una cena con due colleghi, Mard’jakov e Sokolov, tratta vari argomenti, ma sempre con il terrore della delazione, che non permette al consesso di esprimere in piena libertà le proprie idee: v’è, pertanto, un’impercettibile ironia, in ogni frase da essi pronunciata: «Abbiamo dimenticato Dostoevskij», disse Mard’jakov, «nella biblioteche lo prestano malvolentieri, le case editrici non lo ristampano […]. Non avrebbe dovuto scrivere I demoni. I geni non possono essere ammaestrati. Non c’è posto per Dostoevskij nella nostra ideologia. Majakosvskij è lo Stato fatto emozione, fatto carne. Dostoevskij no, è l’uomo e basta, anche quando è dentro a uno Stato».
(15) Id., Tutto scorre, Milano 2010, pp. 130-131. La parabola esistenziale di Vasilij Grossman prova che la libertà vince sulla costrizione. Inviato al fronte, testimonia la battaglia di Stalingrado (1942-1943) scrivendo un testo come Per una giusta causa, dove già compaiono alcuni personaggi che saranno successivamente sviluppati in Vita e destino. La sua onestà intellettuale non gli permette di avallare i gulag staliniani e ciò lo rende inviso al Pcus che lo costringe al silenzio e quasi ne tace la morte, nel 1964, senza pubblicarne mai le opere. Due, infatti, sono i libri che hanno reso celebre Vasilij Grossman: Vita e destino e Tutto scorre, pubblicati rispettivamente a Losanna e a Parigi solo nel 1970 e 1980, quando arrivarono in forma di microfilm dopo aver varcato clandestinamente la cortina di ferro.

ART E DOSSIER N. 330
ART E DOSSIER N. 330
MARZO 2016
In questo numero: VENEZIA DOCET Un pittore per il re d'Etiopia; La maniera veneta; Il libro e la pittura; L'oriente di Zecchin. PALMIRA I ritratti sopravvissuti allo scempio. IN MOSTRA Schiavone, Manuzio, Giardini, Art Brut.Direttore: Philippe Daverio