dall’immagine coordinata
all’“altra grafica”
(1961-1973)

Durante gli anni Sessanta, nel quadro di più ampie trasformazioni economiche, sociali e culturali,

il paesaggio della grafica italiana mutò significativamente. 

Nel corso del decennio, la vertiginosa espansione dei consumi e il progressivo emergere delle contraddizioni insite nel rapido processo di industrializzazione del paese portò, anche nel design grafico, all’emergere di una diversa coscienza del ruolo del progettista. 

Il delinearsi della società dei consumi costituì per i grafici una sfida a interpretare il senso di nuovi bisogni e desideri. Persino un’azienda come l’Olivetti cambiò il proprio approccio pubblicitario, come si vede nella campagna di lancio della celebre portatile Valentine, presentata non più come uno strumento tecnico per l’ufficio, ma come un oggetto di consumo individuale per il tempo libero. Tale passaggio dalla sfera organizzata della produzione al tempo liberato dal lavoro fu scelto come tema della XIII Triennale di Milano, un allestimento spettacolare segnato da influenze provenienti dalla Pop Art, alla cui realizzazione i grafici parteciparono insieme ad architetti e artisti. 

In questo nuovo clima culturale si colloca il lavoro di un progettista come Giancarlo Iliprandi (1925), che diede un contributo importante all’affermarsi del concetto di direzione artistica, anche con la fondazione dell’Art Directors Club di Milano nel 1966. In questi anni, la figura dell’art director, in grado di coordinare il lavoro di professionisti con competenze diverse, cominciava a farsi strada nel mondo dell’editoria periodica e in quello della pubblicità, dove del resto anche i fotografi, grazie ai progressi nella riproduzione a stampa dei colori, guadagnavano un nuovo ruolo. Tra di essi, Serge Libiszewski (1930) e Aldo Ballo (1928-1994) furono fra i più assidui collaboratori dei grafici milanesi.


Massimo Vignelli, Aldo Ballo XXXII Biennale internazionale d’arte Venezia (1964), manifesto.

Pino Tovaglia, “Pirelli” (n. 2, 1968), copertina.


Ettore Sottsass Jr., Roberto Pieraccini, Valentine (1969), manifesto. Altri manifesti di questa campagna usavano l’illustrazione e la fotografia per sottolineare la libertà e l’informalità delle nuove situazioni d’uso, ormai lontane dalla sfera organizzata del lavoro.


Giancarlo Iliprandi, fotografia di Serge Libiszewski, Uomo lR (1964), manifesto per la Rinascente.

Almeno fino alla fine del decennio, la grande impresa italiana d’impianto fordista continuò a offrire interessanti occasioni di lavoro ai grafici. Nel corso della sua collaborazione con la Cornigliano di Genova (poi Italsider), Eugenio Carmi (1920), per esempio, poté pubblicare su ogni copertina della rivista aziendale un’opera di un artista contemporaneo, mentre progettava numerosi artefatti grafici rivolti alla comunità dei lavoratori come la nota serie di cartelli antinfortunistici del 1965. Altro esempio eccellente di quegli anni, l’immagine Pirelli era caratterizzata dalla compresenza di registri stilistici assai diversi, dal modernismo eterogeneo dei protagonisti della grafica milanese al segno umoristico di Alberto Manzi (1924-1997), Raymond Savignac e André François. Il denominatore comune, come notò il critico inglese Reyner Banham, era semplicemente il buon gusto come «stile di comunicazione di massa»(12)

Tale approccio flessibile e aperto era destinato a essere spazzato via dai nuovi metodi pubblicitari orientati al marketing e dall’avvento dei sistemi di corporate identity, entrambi provenienti dagli Stati Uniti. I professionisti della pubblicità più influenzati dai saperi strategici di origine anglo-americana cominciarono a giudicare le creazioni dei grafici troppo audaci, raffinate e allusive per il pubblico sempre più vasto che aveva accesso ai consumi. Quando, nel corso degli anni Sessanta, agenzie di pubblicità americane come Jay Walter Thompson, Lintas e CPV, cominciarono a conquistare il mercato italiano, imponendo nuovi procedimenti di lavoro e figure professionali (account executives, ricercatori di mercato ecc.), la reazione dei grafici fu quella adottare il metodo che in Italia assunse la denominazione di «immagine coordinata»(13). Il grafico non progettava più singoli manifesti, annunci, biglietti da visita, opuscoli o riviste, ma un sistema in grado di durare nel tempo e di essere declinato in molteplici applicazioni, senza perdere unità e coerenza.


Bob Noorda, Progetto della segnaletica per la linea 1 della metropolitana milanese (1964). La meticolosa attenzione ai dettagli tipografici e alla percezione dei segni in movimento, insieme all’idea di adottare una fascia continua con il nome della stazione ripetuto a intervalli costanti, hanno fatto di questo lavoro un modello ancora oggi di riferimento.


Eugenio Carmi, Cartelli antinfortunistici per gli operai Italsider (1965). I cartelli si concentravano esclusivamente sull’organo in pericolo (gli occhi; le mani; la testa), eliminando tutti gli elementi descrittivi o aneddotici che dominavano altri esempi allora in circolazione.

(12) R. Banham, Pirelli Building, Milan, in “The Architectural Review”, 769, marzo 1961.
(13) Tale definizione, ancora oggi in uso, venne ricavata probabilmente dal termine “design coordination”, introdotto da F.H.K. Henrion e Alan Parkin nel loro volume Design coordination and Corporate image, Londra 1967.

Primi esempi evidenti di questo nuovo approccio furono i progetti realizzati in Italia dalla Unimark International, una multinazionale del design fondata a Chicago nel 1965 per iniziativa di Massimo Vignelli (1931-2014). Per Unimark lavoreranno molti grafici italiani fra cui spiccano le figure di Heinz Waibl (1931) e Salvatore Gregorietti (1941). Gli uffici di Milano furono guidati a lungo dal designer olandese Bob Noorda (1927-2010), che mise a punto i primi manuali per clienti come Dreher (tra il 1966 e il 1967) e Agip (1971-1974), in cui venivano codificate le regole di impiego di elementi come il logotipo, i caratteri tipografici, i colori di bandiera e le griglie di impaginazione. 

Noorda era allora già autore di un progetto pionieristico: il sistema di segnaletica per la Linea 1 della metropolitana di Milano, realizzato in stretta collaborazione con gli architetti Franco Albini e Franca Helg. Tale lavoro, che costituisce ancora oggi un modello di riferimento nel settore del design dell’informazione per i sistemi di trasporto pubblico, fu premiato nel 1964 con il Compasso d’oro e aprì la strada a una serie di interventi che Noorda stesso portò a termine con Unimark per le metropolitane di New York (a partire dal 1966) e di San Paolo del Brasile (dal 1973). Alla fine degli anni Sessanta, anche la Fiat si dotò di un’immagine rigorosa a opera di Giovanni Brunazzi (1938), mentre sistemi di identità visiva ipercodificati, realizzati con il contributo di progettisti provenienti dall’esperienza della Hochschule für Gestaltung di Ulm, venivano sperimentati sia alla Rinascente-Upim (1967- 1969), con la regia di Tomás Maldonado (1922), sia in Olivetti (1971-1977). 

Parallelamente il metodo del progetto coordinato veniva applicato anche nel campo dell’editoria dove vari progettisti grafici avevano trovato spazio di azione già nell’immediato dopoguerra. Editori come Giulio Einaudi hanno legato molto presto il proprio nome alla ricerca di qualità anche nella grafica. Dopo le prime collaborazioni con Steiner e Huber, tra il 1956 e il 1958, grazie alla mediazione del responsabile editoriale Oreste Molina, la casa editrice torinese aveva avviato la progettazione di un carattere tipografico specifico per le proprie edizioni: una versione del Garamond che prese il nome dall’azienda bolognese che lo produsse: Simoncini. Tale esperimento restò pressoché isolato nel panorama italiano e il lavoro dei professionisti della grafica si concentrò prevalentemente sull’identità visiva delle collane. Per Einaudi negli anni Sessanta fu Munari a curare l’immagine di collezioni memorabili come “Piccola Biblioteca”, “Nuovo Politecnico” o “Nuova Universale”. A un editore più “generalista” come Mondadori si legarono figure come Anita Klintz (1925-2013), che diede un contributo fondamentale anche alla nascita di Il Saggiatore, e Bruno Binosi (1922) , ideatore della grafica degli “Oscar” nel 1965. 

Sulla scia di esempi internazionali come i tascabili dell’inglese Penguin, che negli anni Sessanta furono affidati alla direzione artistica dell’italiano Germano Facetti (1926-2006), l’intervento dei designer contribuì fortemente a trasformare il libro in un prodotto moderno dell’industria culturale. Sostituendo definitivamente la neutralità dell’impostazione tipografica classica, il progetto visivo mirava a garantire riconoscibilità alle collane e, nello stesso tempo, a fornire in copertina un assaggio dei contenuti specifici di ogni singolo titolo.

I grafici italiani riuscirono a tenere in equilibrio questa duplice esigenza, a volte puntando unicamente sull’articolazione visiva della tipografia - è il caso, per esempio, di “I Gabbiani” impostati da Anita Klinz per Il Saggiatore -, altre volte optando per la ripetizione di elementi grafici costanti con leggere variazioni cromatiche o compositive in ogni volume. Il tema della sequenza cinetica fu esplorato per la “Universale Scientifica” Boringhieri da Enzo Mari, che ebbe un ruolo anche nella prima impostazione dei “Classici” Adelphi. In molte altre occasioni, i grafici si affidarono al montaggio e all’elaborazione dell’immagine fotografica, ricercando una capacità di evocazione più immediata. Due esempi per tutti: i tascabili Vallecchi progettati da Mimmo Castellano e la coraggiosa collana Feltrinelli “I franchi narratori”, con il design di Silvio Coppola (1920-1985). Infine, un contributo fondamentale lo diedero anche illustratori come Ferenc Pinter o designer che sono ricorsi frequentemente all’illustrazione come Fulvio Bianconi (1915-1996) e Mario Dagrada (1934).


Bob Noorda (Studio Unimark International), Immagine aziendale Agip (1971-1974).


Bruno Munari, Collana “Il Nuovo Politecnico” Einaudi (1965). Munari realizzò una sintesi felice fra la sua matrice astrattogeometrica e concretista e la tradizione einaudiana di sobria eleganza tipografica.

Silvio Coppola, Collana “Franchi narratori” Feltrinelli (1970-1983).

Anita Klinz, Collana “I Gabbiani” Il Saggiatore (1964-1978).


Mimmo Castellano, Collana “TV tascabili” Vallecchi (1974).

Al di là del lavoro per la comunicazione di impresa e per l’editoria, i graphic designer in Italia mantennero sempre una relazione molto stretta con gli ambienti della cultura e dell’arte. Movimenti come il MAC (Movimento arte concreta) e l’Arte cinetica e programmata hanno incrociato in più occasioni gli sviluppi della grafica. 

Il concetto di moltiplicazione dell’opera d’arte e quello di programma aperto, variabile, costruito attraverso l’esperienza dei fruitori, affascinarono molti di coloro che - come Mari, Munari, Giovanni Anceschi (1939) o il gruppo Mid - lavoravano a cavallo fra arte, design e comunicazione visiva. Negli stessi anni cominciò il percorso coerente e radicale di un autore come AG Fronzoni (1923-2002), fondato su una sottile ricerca del limite e di un’estrema economia espressiva, con esiti spesso molto vicini alla poesia visiva. 

Non mancarono anche nessi e scambi con il versante più “caldo” delle neoavanguardie. Da un lato, per inseguire il sogno di un’arte in grado di saltare la mediazione dei tradizionali circuiti culturali, artisti e poeti visivi producevano libri, riviste, cartoline, fogli volanti e manifesti. Dall’altro, periodici rivolti ai professionisti della grafica come “Pagina” o “Imago” ospitavano di frequente saggi di poesia concreta e lavori artistici, offrendo nello stesso tempo ai designer uno spazio di sperimentazione libera.


Michele Provinciali (ideazione e direzione artistica), Imago. Proposte per una nuova immagine (1960). Composto da materiali di formati, autori e linguaggi eterogenei, Imago, della Bossoli Fotoincisioni, diede ai grafici la possibilità di sperimentare con modi vicini a quelli dell’arte.


AG Fronzoni, Fontana, Galleria La Polena Genova 1-28 ottobre 1966 (1966), manifesto. Il manifesto fu considerato dallo stesso Lucio Fontana uno straordinario esempio di poesia visiva.

Magdalo Mussio, pagine interne di “Marcatré, rivista di cultura contemporanea”, (n. 50/55, 1969). Legata agli intellettuali del Gruppo ’63, la rivista guadagnò con l’apporto di Mussio un carattere più sperimentale, in linea con i contenuti.


Bruno Munari, L’Altra Grafica, Almanacco Bompiani (1973.), copertina.

Proprio nel territorio di confine fra arte e progetto grafico si trovano alcune figure di spicco che esordirono nella seconda metà del decennio. Magdalo Mussio (1925-2006), artista in grado di svolgere nell’editoria i ruoli di autore, redattore e grafico, cominciò la sua collaborazione con Lerici rivoluzionando l’impostazione della rivista “Marcatré”, precedentemente affidata al rigore modernista di Confalonieri. Personaggio difficilmente inquadrabile in un singolo ambito, Gianni Sassi (1948-1993) ha attraversato la grafica partendo da territori ogni volta diversi come la musica, l’arte, la poesia o il cibo. Fra le altre iniziative, alla metà degli anni Sessanta con Sergio Albergoni, Gianni Emilio Simonetti e Till Neuburg diede vita alla casa editrice indipendente ED912, che mostrava influenze dell’Internazionale situazionista e di Fluxus, e produsse tra le altre cose la rivista d’arte contemporanea “Bit”. 

A segnare un’ulteriore svolta nelle pratiche e nei linguaggi della comunicazione grafica furono, sul finire del decennio, i mutamenti culturali e politici che investirono il mondo giovanile e più estesamente la società. L’arrivo in Italia di modelli come l’Atelier Populaire parigino andava di pari passo con l’emergere dei mondi della controcultura e dell’underground, di cui Ettore Sottsass e Fernanda Pivano diedero la loro personale interpretazione in riviste come “Room East 128 Chronicle” e “Pianeta Fresco”. Nel 1968 sia la Biennale di Venezia sia la Triennale di Milano, due istituzioni per le quali i professionisti della grafica lavoravano assiduamente, furono contestate da studenti e da gruppi politici. Da quel momento in poi le giovani generazioni di grafici cercarono spazi di autonomia per guadagnare distanza da una professione che sentivano sempre più compromessa con la civiltà dei consumi. Nel 1973, in un numero dell’Almanacco Bompiani, Umberto Eco si chiedeva se fosse possibile isolare i tratti distintivi di una grafica “altra” rispetto al sistema di comunicazione di massa. Tale ricerca di alterità caratterizzò fortemente gli sviluppi successivi della grafica in Italia.


Gianni Sassi (copertina), Till Neuburg (testata), “Bit. Arte oggi in italia” (n. 6, 1967).


Ettore Sottsass Jr., pagina di “Pianeta Fresco” (1968). Sottsass adotta e rielabora procedimenti tipici della stampa underground come la sovrapposizione di colori acidi e la totale compenetrazione di scrittura e immagine.

GRAFICA ITALIANA DAL 1945 A OGGI
GRAFICA ITALIANA DAL 1945 A OGGI
Carlo Vinti
Un dossier dedicato alla grafica italiana dal 1945 a oggi. In sommario: La nascita della grafica moderna in Italia; La ''terza via'' della grafica italiana (1945-1961); Dall'immagine coordinata all'''altra grafica'' (1961-1973); Fra pubblica utilità e postmodernismo (1973-1989); L'era digitale: dal 1989 a oggi. Come tutte le monografie della collana Dossier d'art, una pubblicazione agile, ricca di belle riproduzioni a colori, completa di un utilissimo quadro cronologico e di una ricca bibliografia.