Con Steiner in quegli anni lavorò frequentemente Max Huber (1919-1992), che - formatosi alla Kunstgewerbeschule di Zurigo - dopo un primo soggiorno presso lo Studio Boggeri nel 1940, nel dopoguerra si fermò stabilmente a Milano. I suoi progetti, dall’immagine dell’VIII Triennale di Milano del 1948 alla celebre serie di manifesti per l’Autodromo di Monza, combinavano una gestione misurata e tecnicamente impeccabile degli strumenti tipografici con effetti spettacolari di tensione spaziale, dinamismo e moltiplicazione cromatica.
Tale sintesi fra rigore progettuale e libertà di sperimentazione divenne presto un tratto caratterizzante della grafica italiana. La scuola di progettisti che si formò a Milano nell’immediato dopoguerra fu alimentata da costanti contatti con l’ambiente della grafica europea e in particolare con la Svizzera. Dopo Huber, arrivano in Italia - quasi sempre passando per lo Studio Boggeri - molti altri designer elvetici fra cui Aldo Calabresi (1930), Lora Lamm (1928), Walter Ballmer (1923-2011) e, per un breve periodo, anche Carlo Vivarelli (1919-1986), che fu in seguito fra i maggiori esponenti della Neue Grafik elvetica(5). Tuttavia, la grafica italiana ha sempre mostrato una visibile distanza dagli orientamenti maturi della scuola svizzera, caratterizzati da una tenace ricerca di neutralità e chiarezza informativa e dall’uso di griglie modulari costruite su base matematica.
Il risultato dell’incontro fra i grafici milanesi e la cultura progettuale d’oltralpe fu un modernismo atipico, aperto a influenze eclettiche e fatto di più voci, ognuna con una forte autonomia e riconoscibilità. Una sorta di “terza via”(6) tra la linea austera e funzionale di matrice svizzera e modelli più legati all’immediatezza espressiva, alla manualità del disegno o a soluzioni surreali e umoristiche, presenti in quegli anni, per esempio, nella grafica polacca, francese e in alcune declinazioni di quella statunitense.
Il carattere aperto e non dogmatico di quello che è stato definito anche Milanese Style(7), in parte deriva dall’assenza in Italia di istituzioni didattiche consolidate, come quelle su cui potevano contare i grafici svizzeri. Più che totalmente autodidatti, tuttavia, i maggiori esponenti della grafica italiana del dopoguerra provenivano da esperienze formative diverse: scuole di arti e mestieri, accademie di belle arti, corsi di architettura ecc. I grafici italiani, d’altra parte, sentirono presto il bisogno di trasmettere attraverso la didattica il bagaglio di conoscenze che acquisirono rapidamente. Oltre che insegnare alla Scuola del libro dell’Umanitaria di Milano, molti di loro parteciparono ai primi tentativi di elevare il livello della formazione oltre le competenze tecnico-professionali nel settore della stampa: nel Corso superiore di disegno industriale di Venezia (1960- 1972) e allo CSAG - Corso superiore di arte grafica di Urbino (1962, poi ISIA).
Negli anni Cinquanta, in effetti, si allentò progressivamente il legame con i tipografi e con la cultura tipografica, che avevano rappresentato il punto di partenza per figure come Muratore, una delle personalità più versatili del dopoguerra, autore della prima immagine del Piccolo teatro di Milano. La rivista “Linea Grafica”, che iniziò le sue pubblicazioni nel 1945 con la direzione di Attilio Rossi, raccoglieva idealmente l’eredità di “Campo Grafico”, ma si distaccò sempre più dall’ambiente degli stampatori per diventare vetrina e arena di dibattito dedicata alla nuova professione del graphic design, riconosciuta ormai a livello internazionale.