La presenza del “mesiodens” nella Pietà vaticana andava interpretata come l’immagine del Cristo che assume su di sé i peccati del mondo e se ne fa carico per annullarli
Poco dopo la pubblicazione del mio testo, però, si aggiunse una nuova e interessante osservazione dovuta all’acume di un noto critico e giornalista, Maurizio Cecchetti che, avendo letto il libro ed essendo andato a recensire la bella mostra su Bramantino a Lugano, aveva notato come il Cristo dolente del pittore milanese presentasse senza dubbio l’anomalia del quinto incisivo(4). Il fatto è particolarmente importante perché - sebbene non diminuisca la profondità del pensiero di Michelangelo e non sia inficiata la relazione con le prediche di Savonarola che parla del «dente del peccato», presente pure nelle incisioni del demonio che illustrano la raccolta pubblicata delle sue invettive oratorie - indica che l’attribuzione al Cristo di questa anomalia dentaria, dal significato negativo, era già in uso nel 1490, anno al quale risale l’opera dell’artista lombardo(5). Del resto, che l’iconografia del “mesiodens” avesse una lunga storia lo avevo già segnalato citandone la presenza non soltanto gli affreschi fiorentini di Andrea di Buonaiuto al cappellone degli Spagnoli (che Michelangelo doveva aver visto) dove i diavoli lo esibiscono in digrigni satanici, ma pure nella figura dell’Ade realizzata nel mosaico di San Marco a Venezia con la scena della Discesa di Cristo al limbo, datata al XIII secolo. Pertanto, la presenza del quinto incisivo nella bocca del Salvatore dolente dipinto da Bramantino non fa che confermare la lettura fin qui esposta. C’è un aspetto in più che va sottolineato, però; ossia il fatto che il Redentore dell’artista milanese mostra tutto lo sforzo che lo impegna a prendere su di sé i peccati del mondo. A differenza di quel che accade con il Cristo della Pietà vaticana di Michelangelo, il suo volto non è radioso e sereno, ma è corrucciato e teso, segnato da una smorfia di dolore, con le lacrime che gli scorrono dagli occhi lucidi e rossi fino alla barba. Si può dunque dire che si tratta di una “messa in chiaro” del significato simbolico del “mesiodens” che, per la verità, compare anche in altre opere importanti, a cominciare dal Cristo nella Crocifissione di Grünewald, conservata alla Kunsthalle di Karlsruhe, nonché nel Crocifisso dipinto sull’altra faccia della stessa tavola e in quello dell’Altare di Isenheim (Colmar, Musée d’Unterlinden), tutti gravati dalla colpa originaria e dal peso di una corona di spine che mostra visivamente il lungo e doloroso processo di espiazione del peccato universale(6). A questo punto, lo strano sorriso della Carità della tomba di Sisto IV risulta ben comprensibile. La presenza del quinto incisivo lì, lungi dall’essere un’improvvida resa della chiostra dentaria come avevo scritto, è il portato di questa diffusa iconografia che si svilupperà compiutamente più avanti, con Michelangelo, ma che già allora era nota e utilizzata. Si tratta, infatti, del più alto segno di carità: farsi carico delle colpe degli altri. Del resto, è quanto scrive san Paolo nell’Inno alla carità che vale la pena citare integralmente: «La carità è paziente, è benigna la carità; / la carità non invidia, non si vanta, / non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, / non tiene conto del male ricevuto, ma si compiace della verità; / tutto tollera, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta»(7). Infatti, chi può essere più caritatevole di chi «sopporta» le bugie, le mancanze, i difetti, le vigliaccherie, le intemperanze, i tradimenti, le meschinità, gli eccessi e, in ultima analisi, i peccati degli altri? Pertanto, mi sembra che la presenza del quinto incisivo nella testolina della Carità di Pollaiolo, realizzata negli stessi anni del Cristo dolente di Bramantino, sia perfettamente coerente con la connotazione di negatività che quell’anomalia dentaria aveva suscitato negli uomini nel corso dei secoli. Evidentemente la presenza di quel «dente bastardo», come veniva definito, asimmetrico e spurio, era considerata, come ho cercato di spiegare nei miei scritti, un elemento di disturbo così potente da essere visto come il segno del peccato per eccellenza. Un peccato che connotava quei personaggi la cui condizione di malvagità o d’imperfezione morale, come nel caso della Sibilla delfica o del Giona di Michelangelo, doveva essere visibile; ma che segnava pure figure allegoriche come la Carità o mistiche come Gesù, la cui missione salvifica si faceva evidente con la presenza nel proprio corpo del segno del male per antonomasia. Del resto, non è un caso, come ho potuto osservare, che anche il volto di Cristo sul celebre Velo di Manoppello (al quale prossimamente dedicherò un articolo) sia segnato dalla presenza del quinto incisivo.