CATALOGHI E LIBRI

MARZO 2015

MEMLING

Rinascimento fiammingo
Dopo la mostra di palazzo Pitti su Firenze e le Fiandre (Firenze e gli antichi Paesi Bassi 1430-1530. Dialoghi tra artisti: da Jan van Eyck a Ghirlandaio, da Memling a Raffaello, 20 giugno - 26 ottobre 2008, a cura di B.W. Meijer, catalogo Sillabe, Livorno 2008), un altro evento impeccabile su questi temi raramente affrontati in Italia si è svolto alle Scuderie del Quirinale in una mostra raffinata e didatticamente perfetta, da poco conclusa, di cui resta memoria nel catalogo. Questa può considerarsi in effetti la più aggiornata monografia italiana non solo su Memling ma sulle influenze svariate e reciproche fra fiamminghi e italiani come Ghirlandaio, Botticelli, Perugino, Filippino Lippi e perfino Leonardo. Memling (1435 circa- 1494), d’origine tedesca, si era formato a Bruxelles presso Rogier van der Weyden, artista d’intensa spiritualità che non a caso amava Beato Angelico, e presto era divenuto il più noto ritrattista e pittore di scene sacre a Bruges. Proprio l’accostamento ravvicinato fra la splendida Deposizione di Rogier degli Uffizi e le opere di Memling fa capire quanto forte fosse stata l’influenza del maestro, e quanto complessi e non unilaterali fossero stati i rapporti fra arte italiana e fiamminga fra Quattro e Cinquecento. Ci auguriamo che tali argomenti interessino finalmente anche il pubblico italiano, ancora poco avvezzo all’arte straniera che non porti nomi stellari. Spicca il saggio di Federica Veratelli sui clienti italiani di Memling (Portinari, Tani, Baroncelli e altri) che a Bruges, porto fondamentale per i commerci, e cittadina fra le più floride dell’Occidente, si erano talmente integrati da farsi raffigurare (soprattutto le donne) con abiti più consoni alla moda delle Fiandre che a quella d’origine. Di pagina in pagina, poi, i saggi di Paula Nuttal, Barbara Lane e del curatore indagano su una trama di relazioni stilistiche che confermano come né l’arte dei fiamminghi né quella di alcuni italiani (non solo fiorentini) sarebbe stata la stessa senza tali relazioni, ancora molto da indagare.

A cura di till-holger Borchert Skira, Ginevra-Milano 2014 250 pp., 130 ill. colore € 38

CHE COS'È L'ARTE

Fra i più acuti critici e filosofi dell’arte del Novecento, l’americano Arthur C. Danto è scomparso nel 2013, quasi novantenne, e opportunamente l’editore Johan & Levi ha appena pubblicato l’ultima raccolta di scritti, tradotti egregiamente da Nicoletta Poo. Esiste una definizione comune di arte? C’è un filo conduttore che lega la creazione artistica, da Giotto a Michelangelo, da Duchamp ad Andy Warhol? Kant capirebbe un’installazione di David Hammons? E soprattutto, la giudicherebbe un’opera d’arte? Danto espone qui in maniera piana i principali temi della sua prolifica attività di critico d’arte, apprezzata anche in Italia. Non a caso nel 2007 ebbe la laurea honoris causa in Filosofia a Torino, e molti sono i suoi libri tradotti da noi come La trasfigurazione del banale (2007) e La destituzione filosofica dell’arte (2008). Un libro denso di riferimenti, di osservazioni lucide e perfino didattiche anche per chi voglia entrare in punta di piedi nel mondo della critica d’arte contemporanea.


Arthur c. Danto Johan & Levi, Milano 2014 128 pp. € 16

ANTONIO E PIERO DEL POLLAIOLO

“Nell’argento e nell’ori, in pittura e nel bronzo…”
Una lunga diatriba fra gli studiosi di pittura del Rinascimento, non ancora conclusa, è a proposito della distinzione di mani fra i due versatili artisti fiorentini: Antonio e Piero Benci del Pollaiolo (dal mestiere di rivenditore di polli del padre), titolari di due botteghe dove si produceva di tutto: soprattutto quella di Antonio (Firenze 1431/1432- Roma 1498) in via Vacchereccia, a Firenze, a due passi dal palazzo della Signoria, era come dice Vasari «magnifica e onorata» per i capolavori di oreficeria, che vi venivano lavorati con uno stuolo di garzoni. Antonio non era solo orafo, giacché è celebrato, già ai suoi tempi, come «maestro di disegno» e incisore (basti pensare alla sorprendente Battaglia di nudi). Studiava l’anatomia dal vivo, e i suoi corpi, disegnati, dipinti o scolpiti, hanno una tensione dinamica incomparabile.
Fu scultore in terracotta, e soprattutto in bronzo. E architetto. E pittore. Per questa sua versatilità, e anche per un talento indiscutibile, sempre si è detto che Piero, il minore dei due (Firenze 1443 circa - Roma 1496) fosse quello meno talentuoso. Ma la distinzione di mani fra i fratelli, nelle tavole che spesso venivano dipinte alla fiamminga, senza una base di mestica sottostante, è stata molto dibattuta, anche a seguito di recenti restauri di alcune fra le loro opere più famose, come la serie delle Virtù, in massima parte oggi ascrivibili alla mano di Piero, destinate al Tribunale della Mercanzia di Firenze. Oggi sono esposte agli Uffizi, vicino all’unica del giovane Botticelli, la Fortezza, dipinta in concorrenza, pare per un ritardo nella consegna della serie. Ma sono le quattro dame di profilo, ritratti divisi fra Uffizi, Poldi Pezzoli di Milano, Met di New York e i musei di Berlino, ad aver scatenato le ipotesi attributive più contrastanti. Siamo sempre stati convinti, sulla scia delle indagini di Zeri, che si debbano tutte a Piero, ipotesi che viene confermata in questo libro (che affianca il catalogo della mostra che a Milano ha visto riuniti per la prima volta tutti e quattro i ritratti, oltre a moltissime altre opere dei due artisti). Un libro fondamentale.

A cura di Andrea Di Lorenzo, Aldo Galli; Skira, Ginevra-Milano 2014 288 pp., 150 ill. colore € 39

PRIMA E DOPO

«Accanto all’arte purissima, ci sono [...] molte cose da dire e bisogna dirle. Non ho scritto un libro come un’opera d’arte ma, da uomo informato sui fatti che ho visto, letto e sentito in tutti i mondi, civilizzati o barbari, ho voluto mettermi a nudo, senza timori né vergogne. È un mio diritto e la critica, per quanto infame possa essere l’opera, non potrà impedirmelo ». Questo il testo finale di Gauguin nel rifugio di Atuona, Hiva Oa, isole Marchesi. È datato febbraio 1903. Tre mesi dopo, l’8 maggio, l’artista muore in miseria. La sua ultima testimonianza sono duecentoquarantuno pagine manoscritte, intitolate Avant et après, con ventisette disegni e due stampe giapponesi incollate. Un testo importantissimo, pubblicato più volte e qui riproposto con la traduzione di Chiara Cartia, che rievoca la poesia e la violenza della natura polinesiana, e a volte è rabbioso, sempre di una lucidità critica notevole - altro che opera infame - verso il mondo occidentale. A Hiva Oa, lontano da Tahiti, già troppo colonizzata, Gauguin non dimentica i “petites camarades”, i “grandi” maestri di riferimento: da Giotto a Verlaine, da Goya a Puvis de Chavannes. Alle pareti della capanna fissa stampe giapponesi, riproduzioni di Manet, Degas, Raffaello, Holbein. Tende la mano ai maori, ma non rinnega l’arte europea. Nei personaggi di Giotto vede una tenerezza, un amore assolutamente divini: «Vorrei passare la mia vita allietato da una simile gradevole compagnia». Tra i primi comprende la grandezza dell’arte medievale (ne abbiamo parlato nel nostro dossier I mari del Sud, n. 279, luglio 2011 ). Poi dalla sua finestra, «tutto diventa buio». Finite le danze, spente le dolci melodie... la danza ricomincia; il ciclone è al suo culmine. Giove lancia saette, «i Titani fanno rotolare le rocce, il fume straripa», finché «il sole rispunta, gli alberi di cocco alteri rialzano i loro pennacchi, e così l’uomo. La realtà di ieri diventa favola e la si dimentica». Uno dei più acuti, intelligenti, lirici messaggi nella bottiglia lanciati verso l’Occidente.


Paul Gauguin, introduzione di Maria Grazia Messina; Castelvecchi, Roma 2014 192 pp., 28 ill. b/n € 19,50

ART E DOSSIER N. 319
ART E DOSSIER N. 319
MARZO 2015
In questo numero: EROS FUORI PORTA Il corpo e la campagna, seduzioni boschive nella pittura veneta, in Stanley Spencer, in Courbet, nel Romanticismo tedesco. VAN GOGH 125 ANNI DOPO Il nuovo museo e tutti gli eventi. IN MOSTRA: Jacob Lawrence, Morandi, Palma il Vecchio, Carpaccio.Direttore: Philippe Daverio