Grandi mostre. 2
Giorgio Morandi a Roma

bianco d’argento
terra di siena
bLu di prussia

Profondamente legato alla tradizione, Giorgio Morandi ha sempre dedicato una cura particolare a tutti gli elementi costitutivi di un’opera d’arte, dalle tele ai telai, dal motivo al colore. Nulla era lasciato al caso. Come ci racconta qui la curatrice dell’antologica ospitata nel Complesso del Vittoriano.

Maria Cristina Bandera

La grande mostra dedicata al pittore bolognese Giorgio Morandi 1890-1964, che squaderna più di cento dipinti, circa trenta incisioni - talora affiancate dalle matrici di rame - e una nutrita selezione di disegni e di acquerelli, rappresenta un’eccezionale opportunità di vedere capolavori in molti casi difficilmente accessibili, ma soprattutto di entrare in contatto diretto con le opere dell’artista e di ripercorrerne il cammino. 

Nonostante le novità e l’autonomia della sua pittura, il legame profondo dell’artista con la tradizione è testimoniato dal suo modo di lavorare quasi da antica bottega per quella sua attenzione a tutti gli aspetti costitutivi di un’opera d’arte: il “motivo”, le tele, i telai, i colori. Alcune lettere dei suoi anni giovanili documentano la sua meticolosa ricerca per i colori che spesso macinava personalmente per poi diluirli con il solvente apposito. Il 14 ottobre 1919 Morandi riferisce a Carlo Carrà di avere trovato «in una mesticheria gli ultimi pezzi di una bella terra rossa che veniva levata una volta nei dintorni di Assisi e che da molto tempo non si trova più. Mescolata al bianco dà un rosa molto bello come si vede negli affreschi antichi. Se come faccio io Lei si macina i colori me lo dica che gliene manderò alcuni pezzi».


Fiori (1950).

Alcune lettere dei suoi anni giovanili documentano la sua meticolosa ricerca per i colori che spesso macinava personalmente per poi diluirli con il solvente apposito


Poco dopo sappiamo di una sua richiesta a Giuseppe Raimondi, redattore di “La Ronda” a Roma: «Grazie tanto dei colori. Solo che invece di terra di Siena bruciata molto scura mi hai mandato della terra d’ombra. Ma per ora non mandarmi altro perché del nero ne ho trovato del buonissimo qui». 

Negli anni a seguire Morandi si affidò ai colori Wibert, Lefranc e Winsor & Newton. Quando negli anni del secondo conflitto bellico gli vennero a mancare incaricò gli amici Cesare Brandi e Luigi Magnani di procurarglieli in occasione dei loro viaggi all’estero e diede loro indicazioni accurate. Allo storico dell’arte, nel 1941, scrisse: «La ringrazio tanto delle boccette di vernice. Mi saprà poi dire quanto Le devo. Per ora non me ne occorre altra perché da Milano me ne hanno già procurato della Wibert. Riguardo ai colori Lefranc non mi occorre che il giallo di cromo scuro. 

Ma solo se si tratta di colori fini non da decorazione. 

Come pure mi occorrerebbe, ma sarà difficilissimo, del Vert de Crome sempre di Lefranc. Nel caso trovasse questo colore, è bene fare attenzione che sotto l’indicazione del colore vi è segnata la composizione chimica e cioè oxide de crome. Le dico questo perché sotto lo stesso nome viene smerciato altro prodotto che non ha nulla a che fare con ciò che mi occorre ». È lo stesso Magnani a riportare un curioso aneddoto. Incaricato da Morandi di acquistargli i colori Winsor & Newton, data l’impossibilità di poterli esportare, il collezionista riuscì nel proprio intento con queste parole: «Con questi colori - dissi - il più grande pittore italiano, Giorgio Morandi, potrebbe creare dei capolavori. Se il suo nome vi è ignoto, non lo è al vostro maggiore poeta, Eliot; potrei portarvi testimonianza scritta della sua ammirazione per lui». “Prestigiosi” anche i nomi dei colori - sui quali si sofferma Nico Orengo nel suo libro Gli spiccioli di Montale. Requiem per un uliveto - di cui Morandi fornì l’elenco a Magnani: «Bianco d’argento, giallo brillante di Napoli, terra di Siena, lacca di garanza, verde smeraldo, cobalto azzurro d’oltre mare, blu di Prussia ecc.». 

Dettagliata, e non poteva essere diversamente, la ricerca dei pennelli, stando a una richiesta avanzata a Mario Broglio, riferibile al 1924: «Mi occorrerebbero alcuni pennelli come quelli che comprai a Roma l’anno scorso e che si sono già logorati. Il genere di pennelli è questo che le disegno. Sono pennelli di puzzola corti e piatti dei N.ri 11 e 12: me ne occorrerebbero 3 di ogni numero. Li comprai da Olivieri». 

Quanto ai telai, sappiamo, grazie alle memorie dell’amico scrittore Giuseppe Raimondi, che li faceva preparare in funzione dell’“idea” da un suo falegname, così che le loro proporzioni variano di volta in volta. Non stupisce che Morandi avesse preferenze precise anche sul legno, prediligendolo duttile, secondo la testimonianza riportata da Raimondi: «L’abete è il legno che mi piace di più. È un legno che si lascia lavorare. Non richiede troppa fatica. Con l’abete si fanno tutte le cose per l’uomo. Il tavolo di cucina, il letto per la famiglia, le sedie di casa. [...] Anche per la pittura, mi sono accorto che l’abete dei miei piccoli telai sembra che vada d’accordo con la pittura che faccio io». 

Nel suo lavoro Morandi si concentra su pochi temi, per i quali sceglie titoli convenzionali: Natura morta, Fiori, Paesaggio. Sappiamo da Brandi e da Magnani che aveva la consuetudine di indagarli con un cannocchiale, strumento con cui poteva ottenere sia la precisione ottica, sia il trapasso delle lontananze, ravvicinare l’inquadratura per scrutare i paesaggi da vicino, come faceva con gli oggetti posti sulla ribalta per le sue nature morte o, al contrario, quando l’immagine era troppo ravvicinata, sfocarla come se si fosse avvalso di uno zoom con un esito che permetteva al motivo delle sue speculazioni di essere riconoscibile e nello stesso tempo sfuggente. In altri casi l’artista li indagava attraverso una finestrina di cartone, di materiale povero, ritagliata dalla scatola di una pastina Barilla, con un’apertura di cm 5 x 5, quasi questa fosse un mirino ottico, così da circoscriverne l’inquadratura.


Natura morta (1932), Roma, Galleria d'arte moderna di Roma capitale.


Natura morta (1957).

Morandi dipinse soprattutto nature morte: si servì degli oggetti semplici e quotidiani che ammassava nella sua stanza attendendo che la polvere li appannasse


Morandi dipinse soprattutto nature morte: si servì degli oggetti semplici e quotidiani che ammassava nella sua stanza attendendo che la polvere li appannasse, così da allontanarli dal ricordo della loro funzione e tramutarli in puri volumi o semplici forme. Con un lento processo creativo, li distribuiva variamente su uno dei tre piani di posa che aveva approntato. Li selezionava, li raggruppava, li aggiustava tra loro, li scalava in profondità e in alzato, li trasformava in attori distribuiti su un palcoscenico. Come un architetto che studia la pianta di un edificio, delimitava la base degli oggetti circoscrivendoli con una matita su fogli di carta. Li avrebbe guardati da vicino, ad altezza d’occhio, con il suo sguardo penetrante e riflessivo, così da connotarli di una valenza architettonica. Poi, con un rituale della cui conoscenza siamo debitori a Carlo Ludovico Ragghianti che fu tra i pochi ad avere accesso al suo studio, Morandi filtrava la luce con schermi posti sulla finestra così da stemperarla con una modalità che lo storico dell’arte fa risalire alla conoscenza «del Trattato di Leonardo, che consigliava di dipingere col più stabile “lume a tramontana” diaframmato da una “finestra impannata”, “a ciò non facci mutazione”». Subito dopo, «fissava la sua posizione di attore» tracciando per terra le sagome dei piedi, così da avere «un riferimento per poter ritrovare il punto di vista» quando si sarebbe nuovamente messo al lavoro. 

Peculiare la ricerca del “motivo” per i suoi dipinti di fiori. Opere per le quali, a eccezione di quelle dei suoi primi anni, si fatica a comprendere come Morandi non si servisse di fiori freschi, anche se, a conoscenza della sua costante presa di distanza dal dato naturalistico, possiamo intendere che questi gli apparissero come “figure” filtrate attraverso il suo occhio e la sua mente. Con il passare del tempo il pittore si servì sempre più di fiori secchi, di carta o di seta. Anzi, più precisamente, predilesse i gomitoli di fiori di seta, prodotto dell’artigianato bolognese del Settecento, ricavati dal bozzolo del baco da seta e colorati con tinte naturali. Compiuta l’ideazione, che si trattasse di paesaggi, nature morte o fiori, sarebbe seguita la stesura del colore sulla tela con modalità che variano negli anni e con pennellate che di volta in volta determinano o annullano la costruzione volumetrica, assecondano o appiattiscono le forme, aggiungono o sottraggono colore, sottolineano o elidono gli spazi. Con quegli esiti stupefacenti che hanno fatto scrivere a Mina Gregori che Morandi «è stato il più grande e sottile maestro di pittura del suo secolo».


Natura morta (1957), Città del Vaticano, Musei vaticani.


Natura morta (1957), Siena, Pinacoteca nazionale.

Giorgio Morandi 1890-1964

a cura di Maria Cristina Bandera
Roma, Complesso del Vittoriano
via San Pietro in Carcere
telefono 06-6780664 (informazioni), 06-32810811 (prevendite)
orario 9-19.30, venerdì e sabato 9.30-22, domenica 9.30-20.30
dal 27 febbraio al 21 giugno
catalogo Skira
www.comunicareorganizzando.it

ART E DOSSIER N. 319
ART E DOSSIER N. 319
MARZO 2015
In questo numero: EROS FUORI PORTA Il corpo e la campagna, seduzioni boschive nella pittura veneta, in Stanley Spencer, in Courbet, nel Romanticismo tedesco. VAN GOGH 125 ANNI DOPO Il nuovo museo e tutti gli eventi. IN MOSTRA: Jacob Lawrence, Morandi, Palma il Vecchio, Carpaccio.Direttore: Philippe Daverio