Nel dipinto del 1909, davanti al balcone ci sono soltanto “ortaglie” segnate da qualche sentiero dove la gente e i cavalli passano; sullo sfondo, edifici semplici e massicci - forse uno stabilimento, a destra - dai quali spunta una ciminiera. Intanto, proprio allora erano arrivate anche in Italia nuove macchine come i compressori a vapore - volgarmente schiacciasassi - che permettevano d’intervenire sulla rete stradale con estrema efficacia, trasformando rapidamente il volto della città. Ce ne rimane testimonianza in una copertina della rivista del Touring Club Italiano - attribuita proprio a Boccioni - dove una di queste macchine sta operando tra lo stupore generale su una strada di periferia nel tipico contesto della «città che sale», con fabbriche, ciminiere fumanti e case in costruzione. Campi e “ortaglie” diventano terreni da edificare attraversati da strade moderne, lastricate o in macadàm come, alla milanese, tuttora si pronuncia il nome dell’ingegnere scozzese John Loudon McAdam, inventore nel 1820 di quel tipo di pavimentazione (pietrisco compresso e legato con bitume).
È quanto rappresenta Boccioni in due piccoli dipinti del 1908 con la stessa veduta. In uno di essi - dove i lavori per la realizzazione di un sistema stradale di una certa complessità si direbbero più avanzati - compare, proprio in mezzo a due di quelle strade, un tendone da circo, rosso e giallo; nell’angolo in basso a destra, un sentiero obliquo è un residuo di vecchi percorsi campestri. A questo punto Boccioni deve aver pensato a un’opera di maggior respiro, una cui prima idea è fissata in un bozzetto dove, a sinistra dello stradone, verso il fondo, si riconosce il tendone da circo; e, un po’ più avanti, l’inconfondibile sagoma scura di uno schiacciasassi. È il bozzetto di Crepuscolo (Milano, collezione Ramo): uno splendido quadro finalmente rivisto dal pubblico - nelle sale della milanese Fondazione Pasquinelli, nell’autunno scorso - dopo oltre un quarto di secolo dall’ultima grande mostra di Boccioni, a New York. L’idea di rappresentare la «città che sale» comincia davvero a prendere forma. Il perno della composizione, ancora divisionista nella tecnica, è lo stradone che esce prepotente dall’angolo inferiore sinistro, facendo angolo con una strada che corre lungo il bordo inferiore del quadro. A destra c’è un cantiere, sulla strada si muovono figure e carri da trasporto mentre a sinistra, sul filo dell’orizzonte, le ciminiere delle fabbriche si stagliano nell’arancione del crepuscolo. Il tendone da circo c’è ancora, circondato da una corona di luci elettriche che cominciano a brillare nella sera.
«Voglio dipingere il nuovo,
il frutto del nostro tempo
industriale, la vita di oggi»
Il passo successivo è Officine a Porta Romana: un quadro di formato più allungato - e più tardo: la costruzione della casa è arrivata al tetto - che ci conferma come la veduta sia la stessa della Sorella al balcone. A sinistra è infatti ben riconoscibile la parte a un solo piano della centrale elettrica ancora esistente, pur senza ciminiere, di piazza Trento, su cui dava (e dà) via Adige, dove abitava Boccioni; via Adige è dunque la strada accennata lungo il bordo inferiore di Crepuscolo. Nelle sue prime mostre importanti - alla Famiglia artistica di Milano nel 1909-1910 e 1910-1911, a palazzo Pesaro a Venezia nel 1910 - insieme a Crepuscolo Boccioni espone quasi sempre Mattino, che completa questa serie di quadri volta al racconto della città moderna dall’alba al tramonto (Officine a Porta Romana è anche noto come Meriggio). A differenza degli altri, però, Mattino è diversamente orientato, verso est, dove sorge il sole. Ma lo stradone - l’attuale viale Isonzo - è il medesimo, come anche ci dice il sentiero campestre di cui sopra, qui piegato in senso opposto; oltre le case, in Mattino la strada sbocca dov’era da poco stato costruito il monumentale stabilimento del Tecnomasio Italiano Brown Boveri, le cui ciminiere sono ben visibili all’orizzonte, mentre più a destra s’intravede la sagoma della chiesa di San Luigi Gonzaga. Subito sotto, parallele alla strada lungo la quale tuttora si trovano i binari dello scalo ferroviario di Porta Romana, sostano file di vagoni merci.
Nella Città sale - dall’iconografia sorprendentemente simile a quella di Beltrame per “La Domenica del Corriere” - Boccioni mette finalmente lo spettatore al centro del quadro, come da poetica futurista. Ma la scena è sempre quella, tradotta in una metaforica esplosione di energie animali e artificiali che adesso va al di là di ogni coordinata topografica. Con il titolo Lavoro, nell’articolo La prima Esposizione d’arte libera (“Il Secolo”, 2 maggio 1911) viene per la prima volta descritta la scena: «Con la città che sorge, e l’ansia convulsa dei cavalli al traino, e i trams che passano in una linea di contorno lontana, e gli operai che faticano, o sprofondano in una nube azzurra di polvere…».