Studi e riscoperte. 1
Malinche, Cortés, Kahlo e l’immaginario artistico messicano

UNA DONNA
TRA DUE
MONDI

La conquista spagnola dell’America, iniziata nel 1519, è un incontro-scontro di civiltà.
Fulcro di questa articolazione di scambi, comunicazioni, sopraffazioni è Malinche, la mediatrice, l’interprete di Cortés, la donna india che vive da allora, nell’immaginario culturale messicano, come ambiguo simbolo di unione nella diversità, archetipo di femminilità ma anche colpevole artefice di una tragica sottomissione al nemico.
Un dipinto di Frida Kahlo sintetizza questa ambivalenza.

Flavio Fiorani

Una donna ha impresso un segno profondo nella guerra di conquista con cui gli spagnoli hanno unito l’America all’Europa. Ha avuto molti nomi: Malintzin, Malinche, Malinalli, Doña Marina. È una schiava offerta in tributo dai capi indigeni a Hernán Cortés appena giunto in Yucatán. È bottino di guerra, un corpo schiavo che deve soddisfare gli appetiti sessuali del conquistatore e preparare il sostentamento dei soldati nella marcia verso Tenochtitlán, il cuore della confederazione azteca.


Frida Kahlo, Autoritratto al confine tra Messico e Stati Uniti (1932), particolare.

Di Malinche, oltre al traumatico
vissuto personale,
Frida condivide soprattutto
la funzione: divide-unisce
la “rovina” e il progresso


Sarà un dono di inestimabile valore: l’india che parla il maya e il nahuatl diventa amante e interprete di Cortés, sarà la fidata “trujamán” che sa decifrare i codici di comunicazione indigeni e quali decisioni adottare. Doña Marina - gli spagnoli ribattezzano con nome cristiano la donna che nel suffisso “tzin” denuncia la sua nobile origine - cessa di essere un anonimo “pezzo” del bottino. È la protagonista della riconfigurazione dei codici linguistici, culturali e mentali con cui l’Europa si impossessa del Nuovo Mondo. La schiava Malinalli (in lingua maya è l’erba morta, lo stelo affilato e resistente da conficcare nella lingua nelle pratiche espiatrici), che reca iscritta nel proprio nome la condizione dell’afasia, diventa “lengua” (interprete) del comandante. Dono pregiato perché trascodifica i codici linguistici dell’uno e dell’altro, Malinche (così nominata per la difficoltà di comprensione fonetica del nome maya) scioglie i significati oscuri del territorio ai nuovi conquistatori, trasgredisce il suo destino di donna condannata al silenzio. La sua funzione è anche di essere “faraute” (il termine designa l’atto di introdurre qualcosa in mezzo ad altro) di Cortés: si intromette tra spagnoli e indigeni, diviene mediatrice tra la parola di Spagna e quella di Messico. Una pluralità e un’ambivalenza di significati assegnano a Malinche prerogative straordinarie: è il vinto ad avere il privilegio della parola. 

Se tale compito consegna alla storia la schiava Malinche, ne iscrive soprattutto la figura di comunicatrice nella dimensione del mito. Da Cortés è menzionata nelle lettere scritte all’imperatore Carlo V soltanto come un personaggio (anonimo) che sta al margine della figura eroica del conquistatore. Per i soldati-cronisti che riscattano il significato collettivo dell’impresa militare sarà oggetto di incondizionata ammirazione a tal punto che il comandante viene ribattezzato col nome con cui lo chiamano gli indigeni: Capitán Malinche. Cortés parla dunque attraverso Malinche. Un solo corpo, quello di Cortés-Malinche, contrassegna la donna-interprete che mette in comunicazione due mondi, è madre del primo meticcio americano, genera la fusione culturale tra due mondi opposti. Sono le cronache scritte dai vincitori a ritrarre Doña Marina come la protagonista della trama che l’invasore tesse con abilità per carpire i segreti di una geografia e di popoli sconosciuti. È così proliferato il mito negativo di Malinche, personificazione di una violenza consenziente e alla radice del “malinchismo” che in Messico designa l’attitudine ad accogliere tutto quel che proviene dall’esterno a detrimento dell’autoctono. 

Protagonista di un così traumatico sconvolgimento della storia del Messico, intorno a Malinche si è combattuta una guerra con parole e immagini. Ha assunto le sembianze di una Eva fondatrice della nazione messicana, perché complice dell’invasore, traditrice e insieme donna violata o, peggio ancora, “mujer chingada” perché violata con il suo consenso. Fiumi di parole hanno cercato una spiegazione al trauma che da secoli lavora l’inconscio dei figli e delle figlie di questa figura bicefala, che genera l’ibridismo culturale, incarna la possibilità che due mondi sconosciuti possano intendersi.


Malinche e Cortés in un’immagine tratta dalla Historia de Tlaxcala (o Lienzo de Tlaxcala) di Diego Muñoz Camargo (prima edizione 1585 circa), Parigi, Bibliothèque Nationale.


Antonio Ruiz, Il sogno di Malinche (1939), Città del Messico, Galería de Arte Mexicano.


Frida Kahlo, Autoritratto al confine tra Messico e Stati Uniti (1932).

Malinche si intromette tra spagnoli e indigeni, diviene mediatrice tra la parola di Spagna e quella di Messico


Dopo la fine del dominio azteco alle parole si sono affiancate le immagini. Nella contesa sulla sua figura anche i codici pittografici dei vinti hanno fornito la loro interpretazione: in una sezione dell’arazzo di Tlaxcala (che rappresenta le fasi della conquista con modalità iconografiche già europee) Malinche occupa una posizione intermedia. Figura ieratica, in abiti indigeni decorati (lo “huipil”) con motivi della simbologia cristiana, Doña Marina indica i destinatari della sua funzione di traduttrice: indios che portano tributi e spagnoli a cavallo armati di picche. Mediatrice tra due mondi, si trova “in-between”, mette in relazione due interlocutori. Ma soltanto con il gesto della mano: Malinche infatti non ha la sua voce, ma dice parole enunciate da altri. 

Nel 1926, quando in Messico si ricostruiscono società e istituzioni sconvolti dalla prima rivoluzione contadina del XX secolo, l’affresco di José Clemente Orozco (uno dei tre grandi del movimento muralista) la rappresenta a fianco di Cortés, gli occhi socchiusi in atto di sottomissione. Ai piedi delle due figure nude, il corpo indigeno sconfitto dall’invasione europea a ricordare l’impatto devastante del meticciato nella nascita del Messico odierno. Malinche e Cortés si tengono per mano: è la rappresentazione conciliatrice dell’incontro-scontro razziale in cui affonda le sue radici il meticciato umano e culturale. 

Archetipo della violenza consenziente o elemento provvidenziale per la vittoria di Cortés, il corpo dell’interprete-amante Malinche appare come figura del desiderio e del possesso nel quadro di Antonio Ruiz Il sogno di Malinche (1939). La donna dorme, la sua coperta è una terra costellata da una trama urbana che attesta l’incorporazione dell’America indigena all’Occidente. È la fantasia del corpo di Malinche a materializzare l’irrevocabile spossessamento di una terra raffigurata come un cono vulcanico? O è l’attività onirica di Malinche a desiderare la fine del suo mondo e l’avvento di uno nuovo? Il doppio significato della parola “sueño” (sonno/sogno) evoca molto altro: può essere la libertà di Malinche di trasgredire il suo destino di schiava, attestare la forza dirompente della città europea nell’addomesticare la forza tellurica della natura americana o, infine, mostrarci che nella libertà della tragressione Malinche è estromessa dal suo vero corpo. Ambivalente proiezione dell’immaginario maschile sul corpo indigeno, Malinche è madreterra, amica e dunque feconda di vita e, al contempo, è corpo oscuro che sotto la sua coltre custodisce il mondo dei morti. 

Mediatrice tra natura e cultura, Malinche sta alla frontiera tra il mondo americano e quello europeo e sopravvive nel tempo come archetipo della femminilità messicana. È nel segno del dualismo l’Autoritratto al confine tra Messico e Stati Uniti (1932) di Frida Kahlo. Tra il Messico preispanico in rovina e la modernità tecnologica degli Stati Uniti, Frida è una donna-bambola che sta su un piedistallo e tiene in una mano la bandiera messicana e nell’altra una sigaretta. In basso, fiori e piante velenose che nella farmacopea popolare vengono usate per indurre l’aborto sono un riferimento diretto al ricovero all’ospedale Henry Ford di Detroit qualche mese prima per un’interruzione di gravidanza. Di Malinche, oltre al traumatico vissuto personale, Frida condivide soprattutto la funzione: divide-unisce la “rovina” e il progresso, sta nello spazio intermedio tra il crollo delle civiltà preispaniche e l’avvento di un’asettica e geometrica modernità in cui il cielo è oscurato dal fumo delle fabbriche e nascosto dai grattacieli. Al confine, quello di Frida/Malinche è un ritorno: quello di un corpo “in-between” libero di immaginarsi in entrambi i mondi, artefice di trame infinite, dalle più intime alle più globali, e aperto al divenire e alla storia.


José Clemente Orozco, Cortés e Malinche (1926), Città del Messico, Colegio de San Ildefonso.


Diego Rivera, Sbarco degli spagnoli (1951), particolare con Cortés e Malinche (dietro di lui, con un bambino sulle spalle), Città del Messico, Palacio Nacional.

IN MOSTRA
L’Autoritratto al confine tra Messico e Stati Uniti di Frida Kahlo (1932) è tra le opere più significative della mostra genovese Frida Kahlo e Diego Rivera (aperta fino all’8 febbraio a Palazzo ducale, piazza Giacomo Matteotti 9, orario lunedì 14-19, martedìdomenica 9-19, giovedì 9-22,30, telefono 010-9280010; www. fridakahlogenova.it, catalogo Skira). La mostra - curata da Helga Prignitz-Poda, Christina Kahlo, Juan Coronel Rivera, in una versione accresciuta dell’esposizione romana dello scorso anno - consente di approfondire il legame strettissimo fra la pittrice (e il suo compagno, il celebre muralista Diego Rivera) e il proprio paese, il Messico; un rapporto conflittuale, struggente e doloroso che costituisce uno dei temi ricorrenti nella sua pittura, insieme all’amore per Diego, al terribile incidente che le trasformò la vita in un rosario di sofferenze, all’impegno politico e ai rapporti con le avanguardie surrealiste europee.

ART E DOSSIER N. 317
ART E DOSSIER N. 317
GENNAIO 2015
In questo numero: MILANO CAPUT MUNDI Leonardo designer di corte; La città al tempo della Spagna; Il laboratorio del contemporaneo, dal Futurismo al dopoguerra, a oggi. IN MOSTRA: Rembrandt, I Maya.Direttore: Philippe Daverio