Dopo la fine del dominio azteco alle parole si sono affiancate le immagini. Nella contesa sulla sua figura anche i codici pittografici dei vinti hanno fornito la loro interpretazione: in una sezione dell’arazzo di Tlaxcala (che rappresenta le fasi della conquista con modalità iconografiche già europee) Malinche occupa una posizione intermedia. Figura ieratica, in abiti indigeni decorati (lo “huipil”) con motivi della simbologia cristiana, Doña Marina indica i destinatari della sua funzione di traduttrice: indios che portano tributi e spagnoli a cavallo armati di picche. Mediatrice tra due mondi, si trova “in-between”, mette in relazione due interlocutori. Ma soltanto con il gesto della mano: Malinche infatti non ha la sua voce, ma dice parole enunciate da altri.
Nel 1926, quando in Messico si ricostruiscono società e istituzioni sconvolti dalla prima rivoluzione contadina del XX secolo, l’affresco di José Clemente Orozco (uno dei tre grandi del movimento muralista) la rappresenta a fianco di Cortés, gli occhi socchiusi in atto di sottomissione. Ai piedi delle due figure nude, il corpo indigeno sconfitto dall’invasione europea a ricordare l’impatto devastante del meticciato nella nascita del Messico odierno. Malinche e Cortés si tengono per mano: è la rappresentazione conciliatrice dell’incontro-scontro razziale in cui affonda le sue radici il meticciato umano e culturale.
Archetipo della violenza consenziente o elemento provvidenziale per la vittoria di Cortés, il corpo dell’interprete-amante Malinche appare come figura del desiderio e del possesso nel quadro di Antonio Ruiz Il sogno di Malinche (1939). La donna dorme, la sua coperta è una terra costellata da una trama urbana che attesta l’incorporazione dell’America indigena all’Occidente. È la fantasia del corpo di Malinche a materializzare l’irrevocabile spossessamento di una terra raffigurata come un cono vulcanico? O è l’attività onirica di Malinche a desiderare la fine del suo mondo e l’avvento di uno nuovo? Il doppio significato della parola “sueño” (sonno/sogno) evoca molto altro: può essere la libertà di Malinche di trasgredire il suo destino di schiava, attestare la forza dirompente della città europea nell’addomesticare la forza tellurica della natura americana o, infine, mostrarci che nella libertà della tragressione Malinche è estromessa dal suo vero corpo. Ambivalente proiezione dell’immaginario maschile sul corpo indigeno, Malinche è madreterra, amica e dunque feconda di vita e, al contempo, è corpo oscuro che sotto la sua coltre custodisce il mondo dei morti.
Mediatrice tra natura e cultura, Malinche sta alla frontiera tra il mondo americano e quello europeo e sopravvive nel tempo come archetipo della femminilità messicana. È nel segno del dualismo l’Autoritratto al confine tra Messico e Stati Uniti (1932) di Frida Kahlo. Tra il Messico preispanico in rovina e la modernità tecnologica degli Stati Uniti, Frida è una donna-bambola che sta su un piedistallo e tiene in una mano la bandiera messicana e nell’altra una sigaretta. In basso, fiori e piante velenose che nella farmacopea popolare vengono usate per indurre l’aborto sono un riferimento diretto al ricovero all’ospedale Henry Ford di Detroit qualche mese prima per un’interruzione di gravidanza. Di Malinche, oltre al traumatico vissuto personale, Frida condivide soprattutto la funzione: divide-unisce la “rovina” e il progresso, sta nello spazio intermedio tra il crollo delle civiltà preispaniche e l’avvento di un’asettica e geometrica modernità in cui il cielo è oscurato dal fumo delle fabbriche e nascosto dai grattacieli. Al confine, quello di Frida/Malinche è un ritorno: quello di un corpo “in-between” libero di immaginarsi in entrambi i mondi, artefice di trame infinite, dalle più intime alle più globali, e aperto al divenire e alla storia.