Grandi mostre. 3 
Henri Cartier-Bresson a Roma

esserci
senza rumore

In punta di piedi. Così Cartier-Bresson amava avvicinarsi, con la sua Leica, a persone comuni come a leader, artisti, scrittori, filosofi. Fotografie, ma anche rari documentari, disegni e dipinti sono esposti all’Ara Pacis, nella retrospettiva più completa sul fotografo francese, dopo le tappe di Parigi e Madrid.

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chi si accinga a visitare la mostra su Cartier-Bresson (ora a Roma dopo le tappe di Parigi e Madrid), si prepari a trascorrervi almeno un paio d’ore, tornando anche indietro, se necessario. Il curatore, Clément Chéroux, ha qui riunito cinquecento fotografie (in gran parte stampate nei più diversi formati originali, compresi i provini a contatto), ma anche spezzoni di film, copertine di riviste, disegni, dipinti. Certo, è impossibile demolire alcuni dei luoghi comuni sul grande maestro francese, scomparso dieci anni fa a novantasei anni, primo fra tutti quello che lo definisce “l’occhio del secolo”. Chéroux stesso aveva intitolato così un suo libro su Cartier- Bresson. Più di ogni altro, tra i grandi fotografi del Novecento, Cartier-Bresson ha creato, attraversando settant’anni cruciali, testimonianze uniche e veritiere della storia politica, sociale, economica, culturale del mondo intero. L’impostazione di questa rassegna mette in luce però una figura più complessa di quella finora nota: quella di un giovane benestante che inizia a studiare nell’atelier del pittore André Lothe, poi condivide intenti e idee dei surrealisti parigini, documenta (e disprezza) il colonialismo, la guerra civile spagnola, la seconda guerra mondiale, la decolonizzazione, e via di cendo fino a testimoniare il Sessantotto e oltre. Adesso risulta chiaro come le sue icone del Novecento non siano nate tutte da un unico impulso. Né tantomeno debbano esser ricondotte esclusivamente all’idea dell’istante decisivo o dello scatto alla “sauvette” (preso al volo). Certo, è in un momento decisivo che ha immortalato nel 1932, in controluce, un uomo che salta una gran pozza alla stazione Saint-Lazare. La figura si riflette nell’acqua, in perfetta simmetria con l’immagine di un cartellone pubblicitario sulla cancellata nello sfondo. Anche il ciclista in discesa sulla strada lastricata non poteva che esser visto in quel preciso istante, dall’alto di una scalinata a chiocciola che crea una incomparabile inquadratura, tipica di chi, come Cartier-Bresson, aveva l’occhio assoluto. E così molte altre immagini, mai preparate, né artificiose. All’incoronazione di re Giorgio, a Londra, il 12 maggio del 1937, il sovrano non è mai inquadrato e Bresson privilegia, da buon militante comunista, il popolo: l’uomo che dorme a terra, fra giornali e carte spiegazzate, il bambino tenuto in alto dal babbo, la vecchietta a cavalcioni sulle spalle di due parenti. Chi s’ingegna, per vedere la scena regale, con specchietti incollati su cartoncini tenuti in alto sopra la testa, volta la schiena al sovrano, proprio come Cartier-Bresson che fotografa il pubblico. In guerra, dopo tre anni di prigionia (si era arruolato come inviato fotografo e cineoperatore), il giovane Henri entra poi in un gruppo di resistenza comunista e documenta gli ultimi giorni del Reich e la liberazione di Parigi (in Germania realizza un film sul ritorno dei prigionieri). In quegli anni privilegiava il cinema, consapevole della maggior presa sul pubblico del mezzo filmico rispetto alla fotografia, e già da tempo aveva girato un intenso documentario sulla guerra di Spagna. Nel 1936 era stato assistente di Jean Renoir, in un film commissionato dal Partito comunista (La vita è nostra), e vi era comparso come attore, interpretando un aristocratico che spara a sagome di uomini col cappello da operaio. Dopo la seconda guerra mondiale Cartier-Bresson torna alla fotografia e si dedica decisamente al fotoreportage. Fino agli anni Settanta le riviste più prestigiose del mondo pubblicheranno i suoi servizi. Già nel 1947 il MoMa di New York aveva organizzato una mostra con le sue immagini e fondamentale era stato il sodalizio con Robert Capa, con il quale aveva fondato la Magnum Photos. Nel gennaio del 1948 il fotografo ormai affermato incontra Gandhi a Nuova Delhi. Il pacifista indiano gli sussurra, in quel breve colloquio, qualche pensiero premonitore sulla morte; poche ore dopo tre colpi di rivoltella di un fanatico indù avrebbe ucciso il Mahatma. Cartier-Bresson, che ha ripreso Gandhi da vivo, scatta poi, commosso, le immagini notturne e sfocate dell’annuncio della morte del leader indiano, e quelle dei funerali il giorno successivo. Nel dicembre di quell’anno, riprende i cinesi a Shangai accalcati in coda davanti a una banca per ritirare oro negli ultimi giorni del Kuomintang, il Partito nazionalista cinese. Nel 1954 testimonia il popolo russo dopo la morte di Stalin. Sono scatti di gente comune, come le operaie in un attimo di pausa durante i lavori all’hotel Metropol di Mosca. Gli studiosi di arte e letteratura ricorderanno piuttosto i ritratti di artisti e intellettuali, come quello di Matisse a Nizza, anziano e malato nella luminosa e disordinata stanza con la voliera; o di Giacometti a Parigi che non smette di fumare neppure quando sposta una statuetta nel suo studio, o mentre attraversa la strada, col trench tirato sulla testa nell’improvviso scroscio di pioggia. Colpiscono lo sguardo penetrante di un giovane Truman Capote, in Louisiana nel 1961, fra enormi foglie di una pianta tropicale, e il volto inconfondibile di Sartre con la pipa, sul pont des Arts a Parigi, nel 1946, in una serata nebbiosa. Non sono solo le immagini di personaggi celebri o di avvenimenti di rilievo quelle che compongono l’immenso mosaico dell’attività del maestro francese. A secpmda che si tratti della provincia francese o della Parigi fine anni Venti, ispirata ai dettagli quotidiani fotografati da Eugène Atget, o degli schiavi in Costa d’Avorio visti dall’alto, mentre lavorano sulle canoe, o ancora, di poveri messicani in immagini crude e desolate, o dei tavolini in ghisa di un bar fiorentino in una piazza della Signoria riconoscibile solo dal titolo della foto, Cartier- Bresson usa occhio e mente con stili diversi, come sottolineano le numerose sezioni, in rigoroso ordine cronologico, della rassegna: dalle influenze surrealiste (bellissime le immagini di Leonor Fini) all’impegno militante, dal fotoreportage all’antropologia visiva. Lui che ha fotografato persone nei contesti più vari, non amava farsi ritrarre. Solo quando decise di non fotografare più, e tornò alla pittura, o meglio al disegno, tracciò decine di autoritratti. Di lui esistono però le immagini scattate dalla raffinata fotografa Martine Franck, sua seconda moglie, e altre di amici, che lo ritraggono con la Leica: come quella del fotografo di moda George Hoyningen-Hune, che lo ritrae, bellissimo, a New York nel 1935. Ma più di tutti colpisce il video che mostra Cartier- Bresson a Parigi, per la strada, con la Leica dietro la schiena, mentre volteggia leggero, in punta di piedi, per poi scattare, all’improvviso. Il suo modo di agire si basava sul rispetto dell’uomo e della realtà, come dichiarò lui stesso: «Non far rumore, evitare ostentazioni personali, essere invisibile, non mettere in scena, limitarsi a esserci, avvicinarsi pian piano, a passo felpato, per non muovere le acque...».



George Hoyningen-Hune, Henri Cartier-Bresson con la sua macchina fotografica (New York 1935), particolare.

Dietro la stazione Saint-Lazare (Parigi 1932).

Hyères (Francia 1932).

Una domenica sulle rive della Senna (Francia 1938).


Haifa (Israele 1967).

ART E DOSSIER N. 315
ART E DOSSIER N. 315
NOVEMBRE 2014
In questo numero: UTOPISTI E ANTISISTEMA Rotella e gli ''affichistes''; Il Camino di Santiago tra San Francesco e il contemporaneo; Orcadi: una chiesa in prigionia; Ribelli e dissidenti ottocenteschi. IN MOSTRA: Klein e Fontana, Modigliani, Cartier-Bresson.Direttore: Philippe Daverio