Una generazione di “fashion designer” italiani, da Capucci alle sorelle Fontana, beneficiò negli anni Cinquanta e Sessanta della presenza di star hollywoodiane
Anche se l’Italia poteva vantare una conclamata eccellenza con la tradizionale sartoria presente in una vasta area geografica. Margaret Abegg, moglie di Werner Abegg, magnate dell’industria tessile di Torino e collezionista d’arte, era orgogliosa che il suo guardaroba, prodotto dalla sarta torinese Maria Grimaldi, fosse considerato eccezionale non solo a New York ma anche a Parigi. Una generazione di “fashion designer” italiani, da Capucci alle sorelle Fontana, beneficiò negli anni Cinquanta e Sessanta della presenza di star hollywoodiane, venute “on location” a girare film negli studi di Cinecittà meno costosi, le cui immagini, che le ritraevano mentre facevano shopping a Roma o Firenze, come Audrey Hepburn che si provava le scarpe da Ferragamo, rimbalzarono come gossip sui media americani accendendo l’appetito internazionale per il vestire elegante e squisitamente rifinito del “made in Italy”. Nel 1966 una stilista milanese di origine dalmata, Mila Schön, vestì Marella Agnelli, moglie del presidente della Fiat, e la principessa Lee Radziwill, sorella della ex first lady americana Jacqueline Kennedy, per il Black and White Ball, il ballo del secolo, organizzato dallo scrittore Truman Capote a New York.
Il primo evento internazionalmente più “glamour” del dopoguerra fu il matrimonio fra Tyrone Power e Linda Christian, celebrato nel 1949 a Roma nella basilica di Santa Francesca Romana, lui vestito dalla sartoria Caraceni e lei dalle sorelle Fontana, che avrebbero vestito spose come la principessa Maria Pia di Savoia. Le sorelle Fontana trovarono la loro musa nell’attrice Ava Gardner quando fu loro commissionato il guardaroba della diva per il film La contessa scalza, girato in Italia nel 1954. Circa trent’anni dopo le parti si sarebbero invertite quando uno stilista italiano, Giorgio Armani, avrebbe vestito con giacche destrutturate Richard Gere per il film American Gigolò (1980) che ne avrebbe fatto un sex symbol. La moda italiana aveva trovato una formula che esprimeva un’identità culturale nazionale. Una novità allettante fu la moda della boutique che proponeva un abbigliamento “prêt-à-porter”, presentato a Firenze accanto all’alta moda, un genere esclusivamente italiano, casual e insieme aristocratico (Emilio Pucci), che univa arte e tradizione e che attrasse i compratori dei grandi magazzini americani. Ma il fattore decisivo del successo dell’industria della moda italiana è stata la forza delle sue industrie tradizionali della filatura, tinteggiatura, tessitura, cucitura e taglio sartoriale, attività praticate in varie regioni del territorio italiano per centinaia di anni. Una mappa digitale, nell’ambito della mostra, visualizza i raggruppamenti di stabilimenti tessili e correlate industrie presenti nel panorama italiano. Una diffusione che ha alimentato nella produzione della moda italiana rivalità ma anche una invidiabile varietà di talenti. Se Firenze risplende per la boutique di Gucci che inventa per primo le borse con il manico di bambù e per il genio di Ferragamo che crea le forme per le scarpe di celebrità internazionali, a Roma si afferma un giovane Valentino che vestirà Jacqueline Bouvier, vedova Kennedy, per il suo matrimonio con Onassis. Ma è a Milano che si realizza il “prêt-à-porter” in una straordinaria innovativa collaborazione fra lo stilista e l’industria, nel contratto firmato nel 1978 fra Giorgio Armani e il Gruppo finanziario tessile (GFT) di Torino, l’impresa che più di ogni altra ha contribuito a creare il mito del “made in Italy”. Ma il “made in Italy” esiste ancora? A parte le contraffazioni soprattutto negli oggetti in pelle, un elemento di ambiguità è dato dal fatto che dal 2010 molte fra le più note aziende di moda italiane sono state comprate o sono controllate da investitori stranieri.