Grandi mostre. 1 
Italian Fashion a Londra

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vita

Al Victoria and Albert Museum è in corso un’esposizione sulla moda italiana, dal dopoguerra a oggi. Moda in cui l’uso di materiali lussuosi e un’esecuzione raffinata confermano la seduzione e il fascino di uno stile unico e irripetibile.

Alberta Gnugnoli

«Se non ci fosse un’altra ragione per andare a Firenze o a Roma quando la primavera comincia a farsi sentire, la moda italiana giustificherebbe pienamente questa nostra venuta». Così si esprimeva Carmel Snow, influente “editor in chief” di “Harper’s Bazaar”, quando era invitata alle sfilate di moda italiana organizzate a Firenze nei primi anni Cinquanta del secolo scorso da Giovanni Battista Giorgini, prima nella sua villa, villa Torrigiani, e poi nella Sala bianca di palazzo Pitti. Sfilate che avrebbero lanciato la moda italiana su un palcoscenico mondiale. The Glamour of Italian Fashion 1945-2014, al Victoria and Albert Museum di Londra (fino al 27 luglio), sponsorizzata dal famoso gioielliere Bulgari, è la prima esaustiva mostra che racconta l’evolversi della moda italiana dal dopoguerra a oggi con un centinaio fra abiti e accessori, fotografie, interviste filmate, pubblicità. In un’Italia ancora cosparsa di macerie fu essenziale al successo dell’industria della moda e alla correlata produzione tessile una cooperazione governativa fra Italia e America che consideravano la moda come un elemento determinante, economico e diplomatico, di rinascita per il nostro paese. La cooperazione si materializzò quando un agente commerciale fiorentino, Giovanni Battista Giorgini, appunto, forte dei suoi legami con i grandi magazzini del Nord America e la stampa americana della moda, poté assicurare una nutrita presenza di compratori e giornalisti alla prima sfilata della moda italiana del dopoguerra, accompagnata da eventi mondani, come balli in costume, che mandarono in visibilio la rappresentanza straniera. Il sarto francese Pierre Balmain espresse il suo sdegnoso commento nei confronti dei nuovi potenziali competitori con un: «Ma gli americani verranno sempre a Parigi per i loro acquisti importanti!».


Gianfranco Ferré, collezione autunno/inverno 1991.

Una generazione di “fashion designer” italiani, da Capucci alle sorelle Fontana, beneficiò negli anni Cinquanta e Sessanta della presenza di star hollywoodiane


Anche se l’Italia poteva vantare una conclamata eccellenza con la tradizionale sartoria presente in una vasta area geografica. Margaret Abegg, moglie di Werner Abegg, magnate dell’industria tessile di Torino e collezionista d’arte, era orgogliosa che il suo guardaroba, prodotto dalla sarta torinese Maria Grimaldi, fosse considerato eccezionale non solo a New York ma anche a Parigi. Una generazione di “fashion designer” italiani, da Capucci alle sorelle Fontana, beneficiò negli anni Cinquanta e Sessanta della presenza di star hollywoodiane, venute “on location” a girare film negli studi di Cinecittà meno costosi, le cui immagini, che le ritraevano mentre facevano shopping a Roma o Firenze, come Audrey Hepburn che si provava le scarpe da Ferragamo, rimbalzarono come gossip sui media americani accendendo l’appetito internazionale per il vestire elegante e squisitamente rifinito del “made in Italy”. Nel 1966 una stilista milanese di origine dalmata, Mila Schön, vestì Marella Agnelli, moglie del presidente della Fiat, e la principessa Lee Radziwill, sorella della ex first lady americana Jacqueline Kennedy, per il Black and White Ball, il ballo del secolo, organizzato dallo scrittore Truman Capote a New York. 

Il primo evento internazionalmente più “glamour” del dopoguerra fu il matrimonio fra Tyrone Power e Linda Christian, celebrato nel 1949 a Roma nella basilica di Santa Francesca Romana, lui vestito dalla sartoria Caraceni e lei dalle sorelle Fontana, che avrebbero vestito spose come la principessa Maria Pia di Savoia. Le sorelle Fontana trovarono la loro musa nell’attrice Ava Gardner quando fu loro commissionato il guardaroba della diva per il film La contessa scalza, girato in Italia nel 1954. Circa trent’anni dopo le parti si sarebbero invertite quando uno stilista italiano, Giorgio Armani, avrebbe vestito con giacche destrutturate Richard Gere per il film American Gigolò (1980) che ne avrebbe fatto un sex symbol. La moda italiana aveva trovato una formula che esprimeva un’identità culturale nazionale. Una novità allettante fu la moda della boutique che proponeva un abbigliamento “prêt-à-porter”, presentato a Firenze accanto all’alta moda, un genere esclusivamente italiano, casual e insieme aristocratico (Emilio Pucci), che univa arte e tradizione e che attrasse i compratori dei grandi magazzini americani. Ma il fattore decisivo del successo dell’industria della moda italiana è stata la forza delle sue industrie tradizionali della filatura, tinteggiatura, tessitura, cucitura e taglio sartoriale, attività praticate in varie regioni del territorio italiano per centinaia di anni. Una mappa digitale, nell’ambito della mostra, visualizza i raggruppamenti di stabilimenti tessili e correlate industrie presenti nel panorama italiano. Una diffusione che ha alimentato nella produzione della moda italiana rivalità ma anche una invidiabile varietà di talenti. Se Firenze risplende per la boutique di Gucci che inventa per primo le borse con il manico di bambù e per il genio di Ferragamo che crea le forme per le scarpe di celebrità internazionali, a Roma si afferma un giovane Valentino che vestirà Jacqueline Bouvier, vedova Kennedy, per il suo matrimonio con Onassis. Ma è a Milano che si realizza il “prêt-à-porter” in una straordinaria innovativa collaborazione fra lo stilista e l’industria, nel contratto firmato nel 1978 fra Giorgio Armani e il Gruppo finanziario tessile (GFT) di Torino, l’impresa che più di ogni altra ha contribuito a creare il mito del “made in Italy”. Ma il “made in Italy” esiste ancora? A parte le contraffazioni soprattutto negli oggetti in pelle, un elemento di ambiguità è dato dal fatto che dal 2010 molte fra le più note aziende di moda italiane sono state comprate o sono controllate da investitori stranieri.


Elizabeth Taylor indossa gioielli di Bulgari a un ballo mascherato, Venezia, hotel Ca’ Rezzonico (1967).


Dolce & Gabbana, stivaletti alla caviglia, pelle nera con ricami in oro, bianco e rosa (2000).


Dolce & Gabbana, stivaletti alla caviglia, pelle nera con ricami in oro, bianco e rosa (2000).


Sfilata di moda in Sala bianca, Firenze, palazzo Pitti (1955).

La holding francese del lusso Louis Vuitton Moët Hennessy (LVMH) vanta il controllo della casa di moda Emilio Pucci, del marchio Fendi e dell’azienda specializzata nella produzione di tessuti di cashmere Loro Piana. Ma poiché il consumatore dell’emergente mercato globale del lusso concepisce il “made in Italy” come una marca di prestigio, per vendere a questo tipo di compratore, la produzione di oggetti della moda italiana del lusso dovrà necessariamente rimanere in Italia, anche se i costi di produzione sono molto più alti. L’eredità di una premiata casa di moda italiana costituisce il più forte appeal commerciale. Nello spiegare l’acquisto dell’azienda di Loro Piana, fondata nel 1924, il gruppo LVMH rimarcò il fatto che le radici della famiglia del cashmere italiano risalivano a sei generazioni. Oggi che una vacillante economia minaccia la stabilità finanziaria dell’Italia, la terza più ampia economia dell’eurozona, il faro luminoso resta la domanda apparentemente senza limiti da parte dei consumatori all’estero per lo stile italiano, come lo era in quel lontano 1951 a Firenze da cui ha preso le mosse questo percorso.


Valentino posa con le modelle vicino alla fontana di Trevi, Roma (luglio 1967).

Roberto Capucci, abito da sera in seta (1987-1988).


Mila Schön, abito da sera con soprabito in matelassé, ricamati (1966).

LA MOSTRA
The Glamour of Italian Fashion 1945-2014 (Londra, V&A - Victoria and Albert Museum, fino al 27 luglio, www.vam.ca.uk) - il cui materiale espositivo, un centinaio fra abiti e accessori, è stato fornito dalle collezioni del V&A e del Metropolitan Museum di New York, la Fondazione Emilio Pucci, l’Archivio Missoni e la Galleria del costume di palazzo Pitti, a Firenze - presenta un’interessante sezione “Portrait/Self Portrait: The Image of Fashion” dedicata all’immagine fotografica della moda italiana, veicolo essenziale alla sua interpretazione e diffusione. Gian Paolo Barbieri, nella campagna per la collezione autunno/inverno 1991 di Gianfranco Ferré, trasforma la blusa bianca, simbolica di tutte le sofisticate architetture create per il corpo dallo stilista, in un affascinante gioco di linee diagonali che ne esaltano la struttura. Aldo Fallai, per la collezione autunno/inverno 1984 di Giorgio Armani, fa della modella, che indossa un’impeccabile giacca e stringe sotto il braccio dei giornali, il simbolo di una nuova generazione di donne decise che non vogliono vestire come uomini, ma trovare un tipo di abito che dia loro sicurezza e confidenza. «Volevo uno stile moderno, intenso, ma insieme “casual”, che esprimesse il meglio di ogni possibile vita», ricorda oggi Giorgio Armani. Lo splendido catalogo della mostra è edito dal Victoria and Albert Museum. 

A. G.

ART E DOSSIER N. 311
ART E DOSSIER N. 311
GIUGNO 2014
DIn questo numero: IL REALE IL FANTASTICO I bambini di Murillo, i ritratti di Moroni e i ''brutti'' sabaudi, le visioni di Dau al Set. IN MOSTRA: Italian Fashion, Soffici, Van Gogh, Michelangelo.Direttore: Philippe Daverio