Arte in coppia
J&Peg


quattro mani
e una testa

di Cristina Baldacci

Da scultore a fotografo l’uno, da scenografo a pittore l’altro. Così Managò e Zecubi, in arte J&Peg, sono riusciti con l’utilizzo di più linguaggi a creare immagini calate in atmosfere magiche e oniriche, dove la figura umana diventa il pretesto per evocare, con ironia, l’incertezza e la caducità della vita.

Dimmi come ti chiami e ti dirò chi sei, o meglio, quello che fai. È questo il caso del duo formato da Antonio Managò e Simone Zecubi, che lavorano con le immagini digitali e per questo hanno scelto come nome d’arte l’acronimo del formato fotografico oggi più in uso, apportandovi una semplice ma arguta modifica: J&Peg. 

Attenzione, però, perché questo nome, così come le immagini dall’aspetto patinato e impeccabile che i due artisti producono, potrebbero far pensare che il loro lavoro si basi esclusivamente su un’elaborazione tecnica al computer, mentre invece è il risultato di un lungo processo che coinvolge più linguaggi e che, coerentemente con la formazione dei due artisti, parte dall’attività manuale. Entrambi hanno infatti studiato all’Accademia di Brera a Milano, Managò come scultore e Zecubi come scenografo. Da qui la divisione dei compiti: lo scultore è diventato il fotografo della coppia, a conferma del fatto che il fotografare è davvero uno “scolpire con la luce”, e lo scenografo il pittore. Come hanno più volte ripetuto, nelle loro opere la tecnica fotografica e quella pittorica si fondono come due amanti che provano una reciproca e irresistibile attrazione. 

J&Peg navigano nell’immenso archivio visivo contemporaneo e si appropriano di memorie e icone dell’immaginario collettivo, così come farebbe un pirata o cleptomane digitale. Queste suggestioni visive, simili a “objets trouvés”, confluiscono in una “maquette” o bozzetto preparatorio che è il punto di partenza per un processo di montaggio in più fasi. Così come è consuetudine nell’ambito della cosiddetta “staged photography”, Managò e Zecubi allestiscono, in un primo momento, una scenografia simile a un set cinematografico con oggetti scultorei e persone, che poi fotografano. In questo modo, hanno fin da subito una visione d’insieme di come sarà l’immagine e anche la possibilità di studiare e regolare in anticipo gli effetti di luce e di produrre quell’atmosfera magica e onirica che è uno dei tratti distintivi dei loro lavori. La fotografia digitale che riproduce questa messa in scena viene quindi rielaborata graficamente al computer, stampata, e infine ritoccata con la pittura.


J&Peg (Antonio Managò e Simone Zecubi).


Caso 04-852 (2011).

In queste composizioni fotografiche, dove l’accostamento insolito e contrastante di immagini familiari, come il corpo umano, particolari dell’architettura classica, oggetti quotidiani ed elementi naturali, genera il perturbante, è lo sfondo nero a tenere insieme il tutto. Su questa oscurità uniforme, i colori accesi - ma anche i toni grigi - risaltano con forza creando un effetto simile a quello dei quadri caravaggeschi e delle nature morte del Seicento. Anche l’aspetto volutamente patinato della fotografia conferisce omogeneità e attenua le tante anomalie e stravaganze della rappresentazione. Ci sono, per esempio, una lingua carnosa, con la punta inchiodata al pavimento, che esce da una scatoletta di sardine; un uomo con il capo cinto da un fluttuante drappo nero che cavalca e domina un enorme teschio da cui trabocca un’altra lingua mostruosa (la scena ha tutta l’aria di essere un’allegoria della morte); un Adamo lillipuziano imprigionato in un barattolo di vetro contenente vecchi mozziconi di sigarette ancora fumanti: insomma, un vero incubo surreale e anche un po’ folle. Dopo queste prime serie fotografiche con “vanitates” e “tableaux vivants” dai rimandi pop e iperrealisti, J&Peg hanno recentemente inaugurato una nuova serie di opere, dove cambiano i soggetti e le tonalità, e diventa centrale l’elemento performativo. Prima di scattare la fotografia, uomini e donne vengono messi in posa singolarmente, in coppia o in gruppo, e ricoperti da un drappo grigio, che J&Peg adattano ai corpi dei modelli come se fossero manichini da sartoria. 


J&Peg giocano con la memoria e l’oblio, la presenza e l’assenza, il reale e il fittizio, il particolare e l’universale


La figura umana perde così la sua identità come singolo (il drappo ricopre la persona da capo a piedi), ma non la sua presenza corporea, che, anzi, viene messa in evidenza dal contrasto chiaroscurale tra lo sfondo nero e il tessuto perlaceo ravvivato da un fascio di luce. Le pose che di volta in volta questi uomini-manichino assumono rimandano a immagini della nostra cultura visuale. Alcune delle posture e situazioni sono immediatamente riconoscibili, come il richiamo alla celebre foto-ritratto dei futuristi, un’immagine emblematica che anche Mario Schifano aveva già ripreso negli anni Sessanta per una fortunata serie pittorica. Queste immagini rievocano le atmosfere magrittiane - si pensi al dipinto in cui Magritte copre le teste di una coppia di amanti con un telo (Gli amanti, 1928) - e con il loro gusto retrò, nonostante il perfezionamento e il salto tecnico, rimandano alla fotografia dei primordi. A volte, è un solo uomo-manichino, con cappello e bastone da gentleman inglese, e spesso anche con valigia (probabile metafora del viaggio dell’uomo sulla terra) a essere calato in luoghi e situazioni d’altri tempi: compare come presenza spettrale accanto a una compagine di lavoratori sorridenti della prima metà del Novecento; sovraimpresso a un’altra figura maschile, un padre di famiglia di cui si intravede ancora soltanto vagamente il braccio teso sulla spalla del piccolo figlio; oppure, come figura ieratica su sfondo monocromo, nero o grigio-bianco. In queste immagini l’effetto di congelamento del tempo e dello spazio, già normalmente prodotto dalla fotografia, risulta ancora più accentuato. J&Peg giocano con la memoria e l’oblio, la presenza e l’assenza, il reale e il fittizio, il particolare e l’universale, e alla tematica esistenziale aggiungono una buona dose di humour contemporaneo. L’uomo-manichino è una sorta di amabile intruso che ogni volta sembra trovarsi in un determinato luogo o circostanza quasi per caso: è una figura errante che allude alla precarietà della vita. Oggi siamo qui, domani chissà.


16.58.02 (2013).


15.45.54 (2013).

ART E DOSSIER N. 311
ART E DOSSIER N. 311
GIUGNO 2014
DIn questo numero: IL REALE IL FANTASTICO I bambini di Murillo, i ritratti di Moroni e i ''brutti'' sabaudi, le visioni di Dau al Set. IN MOSTRA: Italian Fashion, Soffici, Van Gogh, Michelangelo.Direttore: Philippe Daverio