LA NATURA MORTA

La comunità dei pittori olandesi del XVII secolo presenta una singolare omogeneità quanto a scelta dei soggetti,

stile e tecnica pittorica, al punto che le false attribuzioni, nel tempo, sono state frequenti (oltre che più o meno intenzionali). Questa affinità è dovuta alla relativa vicinanza dei centri principali fra loro - in un territorio grande come la Lombardia e il Veneto messi insieme -, ai frequenti scambi fra artisti, alle parentele che legavano molti di loro, alla struttura delle gilde che li connettevano e ne regolavano l’attività, alla mobilità dei pittori stessi. 

Queste affinità sono particolarmente evidenti nel genere “natura morta”, in cui più che in altri ambiti è l’oggetto stesso a prevalere, la ricerca di verosimiglianza spinta all’estremo limite raggiungibile. È il terreno su cui il virtuosismo dà il meglio di sé, il bidimensionale si fa tridimensionale, è un film in 3D senza occhialini, in cui la presenza dell’oggetto si fa tanto concreta, fisica, da apparire metafisica. 

Nell’arte olandese del Seicento dipingere oggetti, frutta, fiori è una scelta redditizia. 

Gli olandesi amano questo tipo di rappresentazione del reale. Il pittore e scrittore francese del XIX secolo Eugène Fromentin, nel suo libro dedicato alla pittura fiamminga e olandese, parla di un’«adesione cordiale alla realtà» da parte di quegli artisti e del loro pubblico. È un invito a domandarci cosa rappresentavano, quei dipinti, per chi li guardava. La natura morta era genere praticato già in precedenza e anche altrove. Basti pensare a Caravaggio e alla sua Canestra di frutta (1599) o ai “bodegones” spagnoli. André Malraux, in proposito, dice che «l’Olanda non ha inventato il fatto di mettere un pesce in un piatto, ma di non farne più il nutrimento degli apostoli»(12); in pratica, suggerisce lo scrittore francese, ogni simbologia sarebbe sparita dal quadro, lasciandovi, nude e crude, le cose. Non più “vanitas”, quindi, ma solo quel che appare.


Ambrosius Bosschaert, Bouquet di fiori in un vaso (1618); Copenaghen, Statens Museum for Kunst.

(12) In Les voix du silence, Parigi 1951, p. 468.

Ambrosius Bosschaert, Bouquet di fiori in un vaso (1618); Copenaghen, Statens Museum for Kunst.


Rembrandt, Pavonesse morte con cesto di frutta e bambina (1639 circa); Amsterdam, Rijksmuseum.

Come abbiamo già accennato nel capitolo dedicato alla pittura di interni, le cose appaiono in realtà più sfumate. Una certa ambiguità aleggia in molte composizioni, leggibili sia in senso simbolico che come puri pezzi di bravura; d’altra parte, come negare lo statuto di “vanitas” alle raffigurazioni con teschi, specchi o clessidre, per esempio, oppure con insetti su un frutto maturo? Allo stesso modo, molti dei gesti dei personaggi e molti degli oggetti rappresentati avevano allora un trasparente, secondo significato: per esempio ostriche, pipe, vasi, bicchieri, pesci, uccelli, uova e salsicce sono tutti allusivi a organi sessuali, maschili o femminili. Forse non è necessario cancellare secoli di linguaggio simbolico applicato alle immagini, è sufficiente ricondurlo a effetto secondario, a “copertura” simbolica per un soggetto che non ha necessariamente intenzione di averla; diciamo che l’aggiunta di un teschio o di una clessidra può essere il giustificativo che all’occorrenza mette una raffigurazione di begli oggetti al riparo da eventuali accuse di fatuità o culto delle immagini da parte di un’autorità religiosa particolarmente rigorosa e intransigente (cosa che vale per chi dipinge come per chi acquista). 

In ogni caso lo scarto nei confronti della tradizione è, ancora una volta, indiscutibile. Non è più necessario, a un oggetto, essere portatore di senso superiore per avere diritto a campeggiare su una tela: è lì perché lo ha deciso l’artista; come scrive Todorov, gli artisti olandesi «non inventano la bellezza, la scoprono», nelle cose stesse, nella vita così com’è. Ma naturalmente “reale” e “bello” non sono sinonimi, bisogna dunque scegliere. E differenziare, in vista del mercato di riferimento. 

Il genere al suo interno ospita varianti: il trompe-l’oeil, il vaso di fiori, la tavola imbandita (in olandese “banketje”, con ulteriori ripartizioni a seconda dei generi raffigurati, dalle sontuose “pronkstilleven” ai più sobri “ontbijt”, fino ai “dessert”), la cucina, il banco del mercato, gli animali, gli strumenti scientifici, o quelli musicali, le armi, la cacciagione, gli strumenti da fumo e altro ancora. 

I fiori sono la specialità di Ambrosius Bosschaert il Vecchio (1573-1621), nei suoi quadri appaiono disposti in composizioni ordinate e simmetriche, non sempre rispettose della stagionalità delle piante; tra gli altri primeggia il tulipano, protagonista in quei primi decenni del Seicento della prima, disastrosa bolla speculativa d’Europa. La moda del tulipano, importato dalla Turchia, ne fa aumentare a dismisura la richiesta e il prezzo, al punto che nella prima metà del XVII secolo, nelle Provincie Unite, le importazioni dei bulbi si reggono su investimenti altissimi e vere e proprie scommesse su quantità e qualità della loro resa; nel 1637 la bolla esplode, molti commercianti e finanzieri improvvisati vanno in rovina, ma il tulipano è rimasto il fiore d’Olanda per definizione. Ancora i fiori sono protagonisti dei quadri di Willem van Aelst (1627 - dopo il 1683), attivo anche in Toscana alla corte di Ferdinando II de’ Medici, autore di raffinate composizioni in cui esplodono colori luminosi su fondi scurissimi.


Floris van Dijck, Natura morta con frutta, noci e formaggi (1613); Haarlem, Frans Hals Museum. Certo, il pane è un’allusione al corpo di Cristo, così come le noci con la loro doppia natura di cibo e di legno; alcuni suggeriscono che il formaggio sia il corpo di Cristo transustanziato, ma, come chiarisce De Jongh, nell’Olanda del Seicento il consumo di formaggi era tutt’altro che allegorico: in tutta Europa quella era la terra dei formaggiai, e il formaggio una specie di “legante sociale”, cibo per tutte le tavole.


Pieter Claesz., Natura morta con candela (1627); L’Aja, Mauritshuis. Un pezzo di bravura dominato dagli effetti luministici. La fiamma della candela getta una luce radente sugli oggetti sparsi sul tavolo, si riflette nel bicchiere e lo attraversa, inondando di un’ombra luminosa e trasparente i libri ammonticchiati sulla destra.


Willem Claesz. Heda, Natura morta con calice dorato (1635); Amsterdam, Rijksmuseum.

Frans Snyders (1579 circa - 1657), allievo di Pieter Brueghel il Giovane e amico di Antoon van Dyck, è uno specialista nella pittura di animali e di frutta, e proprio con l’incarico di occuparsi dei soggetti animali entra nel vasto e ben organizzato atelier di Rubens. La cacciagione è centrale in una delle poche incursioni di Rembrandt nel genere, con Pavonesse morte con cesto di frutta e bambina (1639 circa); una bambina guarda assorta la fine ingloriosa dei due volatili, un tempo immagine di bellezza e ora appesi per le zampe o riversi nel proprio sangue; un dipinto che appare estraneo alla ricercata limpidezza di tratto che è tipica delle nature morte olandesi, e che anzi mostra applicata a questo genere la grumosità del colore e la pennellata ruvida che caratterizzano l’opera del maestro di Leida. 

Floris van Dijck (1575 circa - 1651) ci introduce all’assortito e frequentatissimo tema delle tavole imbandite. È tra gli iniziatori del genere, nei primi due decenni del XVII secolo a Haarlem. Le sue composizioni appaiono in piena luce, nitide in ogni dettaglio; le tovaglie immacolate mostrano le pieghe di un’accurata stiratura, una buccia di mela si allunga mostrando le proprie superficiali imperfezioni, le forme sovrapposte dei formaggi esibiscono i loro differenti gradi di stagionatura, ogni traccia dei tagli ricevuti e anche qualche lieve intrusione di muffe. Una perfezione astratta pervade il dipinto. 

La stessa che troviamo in Pieter Claesz. (1598-1661) o in Willem Claesz. Heda (1593/1594-1680/1682), Jan Davidsz. de Heem (1606-1683/1684) o Willem Kalf (1619-1693). Ciascuno apporta al genere i propri ingredienti, una maggiore o minore ricercatezza dei pezzi di vasellame messi in scena, c’è chi preferisce esibire le proprie capacità mimetiche nella lucentezza della polpa di un limone appena sbucciato e chi invece nella raffinata lavorazione di una coppa in peltro, chi predilige inquadrare la tavola più dall’alto e chi preferisce selezionare un numero ristretto di oggetti. Ma niente cancella l’impressione che dietro queste equilibrate disposizioni, studiate meticolosamente anche nella voluta e solo apparente casualità di un coltello appoggiato a un piatto o di un drappo scomposto, stia semplicemente la soddisfatta esibizione di uno status economico (anche solo desiderato): ecco i frutti di un’abilità commerciale ben condotta, il premio per un’accorta gestione degli affari; ecco una nazione che, dedita agli scambi commerciali su scala globale, può apparecchiare le sue tavole con limoni italiani e porcellane dalla Cina, ostriche del mare del Nord e tappeti persiani. 

La natura morta tendenzialmente monocromatica è tipica della scuola di Haarlem (dove eccellono Pieter Claesz. e Heda): composizioni di studiato equilibrio nell’apparente disordine in una luce opaca: descrizioni della realtà che ne evidenziano l’armonia di fondo, l’essenza e la sostanza oltre l’apparenza.


Willem Kalf, Coppa di nautilo con zuccheriera cinese (1660); Madrid, Museo Thyssen Bornemisza.

PITTURA OLANDESE. IL SECOLO D'ORO
PITTURA OLANDESE. IL SECOLO D'ORO
Claudio Pescio
Un dossier dedicato al secolo d'oro della pittura olandese. In sommario: Un mondo a parte; Interni /esterni. La pittura di genere; “Le plat pays”. Marine, città, paesaggi; La natura morta; Il ritratto. Come tutte le monografie della collana Dossier d'art, una pubblicazione agile, ricca di belle riproduzioni a colori, completa di un utilissimo quadro cronologico e di una ricca bibliografia.