“Le pLat pays”Marine, città, paesaggi

Nella pittura olandese del Seicento il paesaggio abbandona definitivamente il ruolo

di servire da sfondo a qualche altro soggetto per divenire protagonista di un genere a sé stante. L’interesse per la natura, nei suoi diversi aspetti, basta a giustificare l’uso di una tela per dipingervi un bosco, il profilo di una città in lontananza, la riva di un fiume, senza che il titolo debba cercare giustificativi in una caccia di Diana, una Gerusalemme celeste o un battesimo di Cristo. 

È una rivoluzione che rivela la tendenza ad attenuare le gerarchie fra i generi ma anche, all’interno del quadro, di ogni gerarchia tra gli elementi che lo costituiscono: alberi, mucche, barche, campanili, eventuali esseri umani stanno sullo stesso piano di importanza. Questa disponibilità ad accogliere come accettabile qualunque soggetto è esattamente quel che il resto dell’Europa, tendenzialmente italianizzante, rimprovera all’arte fiammingo-olandese. 

Un’affermazione dell’umanista fiammingo Dominicus Lampsonius, del 1572 (in Pictorum aliquot celebrium Germaniae inferioris effigies), chiarisce bene il concetto: «La gloria propria dei belgi è dipingere bene i campi, quella degli italiani gli uomini e gli dèi. È la ragione per cui si dice che l’italiano ha il cervello nella testa e il belga nella sua abile mano». 

Un noto passo del Da Pintura Antiga (1548 circa) dell’artista e teorico portoghese Francisco de Hollanda attribuisce già a Michelangelo un’avversione nei confronti dell’arte dei Paesi Bassi che sconfina nell’invettiva: «Nelle Fiandre dipingono badando all’esattezza esteriore [...]. Dipingono stoffe ed edifici, l’erba verde dei prati, l’ombra degli alberi, e fiumi e ponti, che essi chiamano paesaggi, con molte figure da una parte e dall’altra. Ma tutto questo, benché piaccia ad alcuni, è fatto senza ragione e arte, senza simmetria e proporzione, senza maestria nella scelta e ardimento, e insomma senza sostanza e vigore». 

Giudizi che sottintendono a loro volta gerarchie fra nazioni più e meno colte, più e meno di nobili tradizioni; classificazioni in ogni caso che non dovevano turbare più di tanto i buoni cittadini della Repubblica, fieri delle proprie capacità, della propria libertà dalle regole del mondo circostante, e anche di quelle terre piatte a fatica contese alle acque del mare e difese con successo dall’aggressione delle truppe imperiali. 

“Luctor et emergo”, lotto ed emergo, è il motto che si legge sulle carte geografiche della neonata repubblica. Un paesaggio che si voleva vedere replicato in casa propria, riconoscibile e non idealizzato. Semmai simbolo della tempra morale di quello che per qualche tempo indulge a pensarsi come nuovo popolo eletto, capace di scrollarsi di dosso il giogo spagnolo, orgogliosamente calvinista anche in questo vedere i segni della grazia divina nell’essere uscito trionfante da una lotta secolare con la penuria di terre coltivabili e l’imprevedibilità delle inondazioni. “Le plat pays” - «con delle cattedrali come uniche montagne [...] / con un cielo così basso che induce umiltà, / con un cielo così grigio che un canale si è impiccato» - come canta Jacques Brel (1962), «est le mien»: è pur sempre il mio paese.


Jan Vermeer, Veduta di Delft (1660-1661), particolare; L’Aja, Mauritshuis.

Jan Vermeer, Veduta di Delft (1660-1661), particolare e intero; L’Aja, Mauritshuis.


Hercules Seghers, Paesaggio con veduta e ramo di pino (1621-1632); Amsterdam, Rijksmuseum, Rijksprentenkabinet.

Quei quadri si diffondono ovunque, anche fuori dai Paesi Bassi. Appena la borghesia europea ha accesso a un mercato proprio sceglie la pittura di genere, e il paesaggio è tra i generi più richiesti. Si moltiplicano i pittori che lo praticano, nascono ulteriori suddivisioni interne al genere, gli artisti si specializzano in taverne di campagna, lavori dei campi, boschi con mandrie, vedute cittadine, marine con navi, senza navi, con tempesta... Si dipinge in studio, naturalmente, su schizzi fatti all’aperto: l’“en-plein-air” è di là da venire. 

I lavori dei campi ricorrono frequentemente e si inseriscono in una riflessione sulla ciclicità del tempo e della vita, sull’alternarsi di fatiche e piaceri che risale alle illustrazioni dei Mesi scolpite nei portali delle cattedrali e nei libri d’ore fin dal Medioevo. 

Una prima distinzione interna al genere, più ampia, è tra paesaggio realistico e paesaggio fantastico. 

A quest’ultimo ambito appartengono i lavori, soprattutto incisi, di uno degli iniziatori del paesaggismo neerlandese, Hercules Seghers (1589/1590 - 1637/1638). Seghers “falsifica” volentieri la terra piatta che ha davanti aggiungendo montagne, gole, strapiombi alla ricerca di una suggestione in più, figlia forse di reminiscenze della pittura manierista fiammingo-tedesca incline al fantastico, di Patinir, di Brueghel. 

Ma anche per il paesaggio non va trascurato l’apporto fondamentale dei due grandi outsider, Rembrandt e Vermeer, ancora una volta i migliori interpreti del genere nonostante la scarsa frequentazione specifica del paesaggio da parte di entrambi. 

Rembrandt in realtà ricrea il paesaggio, ne inventa di nuovi, che si adattino alla sua visione grandiosa di un mondo immaginario, più ricco e denso di significati di qualunque spazio reale. 

Vermeer con la Veduta di Delft rende evidente, con un quadro solo, la sua padronanza assoluta delle tecniche più efficaci a omogeneizzare l’atmosfera senza privilegiare nessun dettaglio rispetto agli altri, ma toccandoli tutti con leggerezza e consegnando a ciascuno la dovuta dose di luce, ombra, consistenza o evanescenza a seconda della parte assegnatagli nello spettacolo complessivo. Per la sua forza evocativa - più che di un luogo, di un momento reale - la Veduta di Delft (1660-1661) è all’origine della riscoperta dell’artista da parte del critico Thoré Bürger alla fine dell’Ottocento. Ammirazione condivisa da Marcel Proust, che in un noto brano della Recherche allude a un memorabile «piccolo pezzo di muro giallo» che la critica ha ritenuto di individuare nella porzione di parete più o meno quadrata che sbuca dietro le torri della porta sulla destra. Un esempio particolare di specializzazione è rappresentato dai paesaggi invernali. Precursori di una serie molto nutrita di opere del genere sono alcuni dipinti di Pieter Brueghel il Vecchio, replicati in gran numero dall’atelier di Pieter Brueghel il Giovane. Il primo e il principale interprete olandese a muoversi in questa scia è Hendrick Avercamp (1585 circa - 1634). I suoi paesaggi sembrano ripetere indefinitamente lo stesso luogo, una vasta campagna con pochi edifici, il letto gelato di un fiume e soprattutto una moltitudine di personaggi dediti al proprio lavoro, a raccogliere legna, a pattinare o semplicemente a passeggio; Avercamp, come Brueghel, è molto attento ai dettagli narrativi, e dispone le sue figurine come in un presepe, a gruppi, e rimpicciolendole via via che lo sguardo procede verso un fondo che sfuma in un chiarore brumoso e indistinto.


Meindert Hobbema, Il viale alberato per Middelharnis (1689); Londra, National Gallery.


Jacob van Ruysdael, Mulino a vento a Qijk-bij-Duurstede (1670); Amsterdam, Rijksmuseum.


John Constable, Il carro di fieno (1821); Londra, National Gallery. Il paesaggismo inglese del Settecento e del primo Ottocento risentirà in maniera evidente dell’impostazione “sentimentale” dei cieli e delle campagne di Van Ruysdael.

Nei paesaggi invernali di Aert van der Neer (1603/1604 circa - 1677) si nota una maggiore attenzione agli effetti di luce, al gioco delle nuvole nel cielo (è anche uno specialista di paesaggi al chiaro di luna). 

Il rapporto dei Paesi Bassi con l’elemento acquatico è ambivalente: da un lato il timore reverenziale per un’entità cui si riconosce il potere di travolgere ogni ricchezza e certezza acquisite, dall’altro l’orgogliosa consapevolezza del proprio ruolo di potenza marinara proprio grazie a un rapporto secolare con le acque. Questa ambivalenza si riflette nella pittura. 

Jan van Goyen (1596-1656) è fra i principali paesaggisti del suo paese, dipinge circa mille quadri, e difficilmente manca di dipingervi un corso d’acqua. I fiumi, i canali, i laghi di Van Goyen, quieti e popolati teatri di varie attività, esprimono la pacificazione olandese con il mondo delle acque. Molto meno rassicuranti i mari in burrasca di Ludolf Bakhuizen (1630-1708), uno dei pittori più noti anche fuori dai confini olandesi per le sue navi pericolosamente inclinate a sfiorare con l’alberatura gigantesche onde bianche di schiuma. Scene colte dal vero, visto che era solito rischiare la vita per uscire in barca a sperimentare di persona gli effetti di una tempesta. 

Jacob van Ruysdael (1628/1629 - 1682) nasce in una famiglia di paesaggisti, subisce l’influenza del pittore di marine Cornelis Vroom e porta la scuola di Haarlem, la sua città, a primeggiare nel genere. Jacob ha una totale padronanza della tecnica; stabilitosi ad Amsterdam ha una bottega molto attiva (come è noto, molti pittori olandesi avevano un doppio lavoro, il suo pare fosse il chirurgo, proprio in virtù di una mano particolarmente ferma, oltre che di un peraltro poco documentato diploma universitario). È un maestro nel dipingere foreste e rovine, mulini e cieli nuvolosi; le sue sono vedute liriche, preromantiche, e avranno un deciso influsso sul paesaggismo inglese del Settecento, e poi, in particolare, su Constable e Turner. Tra gli allievi più dotati di Van Ruysdael, Meindert Hobbema (1638-1709), l’amico che lo seguirà nei suoi viaggi. L’aspetto pastorale della campagna olandese trova i suoi interpreti in Paulus Potter (1625- 1654), Philips Wouwerman (1619-1668) e Albert Cuyp (1620-1691): mucche, cavalli, cacciatori, viandanti placidamente immersi in una luce intensa e colorata.

Decisamente urbano è invece il mondo pittorico di Gerrit Berckheyde (1638-1698). I suoi due soggetti principali sono la città natale, Haarlem, e Amsterdam, con i suoi canali. Con il fratello, anch’egli pittore, viaggia lungo il Reno e approda brevemente alla corte dell’elettore palatino Carlo I Luigi. Alle vedute di esterni associa interni di chiese (in cui si specializza Pieter Saenredam); si tratta in ogni caso di restituzioni quasi topografiche, certificazioni dello stato delle cose, limpide visioni di una realtà oggettiva; l’opposto della partecipazione emotiva del concittadino Van Ruysdael. 

Per concludere questa rapida carrellata sui paesaggisti olandesi del Seicento, un esempio della tendenza italianizzante, pur sempre attiva e molto reputata. Cornelis van Poelenburch (1590/1595 - 1667) studia a Roma e Firenze. Le sue vedute ospitano spesso scene storiche o mitologiche, mentre lo stile aggiorna al naturalismo oggettivo dei Paesi Bassi la sobria eleganza dei paesaggi italiani filtrati dall’esperienza di Paul Bril e Adam Elsheimer. Lavora abitualmente in piccolo formato, ma su cuoio e su rame; una scelta che seleziona la sua clientela; ricco e famoso, lavora per il re Carlo I d’Inghilterra e soggiorna spesso a Londra.


Hendrick Avercamp, Scena invernale su un canale (1615); Toledo (Ohio), Museum of Art.


Gerrit Berckheyde, Il Groote Markt a Haarlem (1693); Firenze, Uffizi.

Paulus Potter, Il toro (1647); L’Aja, Mauritshuis.


Ludolf Bakhuizen, Navi nel mare in tempesta (1667); Firenze, palazzo Pitti, Galleria palatina.

PITTURA OLANDESE. IL SECOLO D'ORO
PITTURA OLANDESE. IL SECOLO D'ORO
Claudio Pescio
Un dossier dedicato al secolo d'oro della pittura olandese. In sommario: Un mondo a parte; Interni /esterni. La pittura di genere; “Le plat pays”. Marine, città, paesaggi; La natura morta; Il ritratto. Come tutte le monografie della collana Dossier d'art, una pubblicazione agile, ricca di belle riproduzioni a colori, completa di un utilissimo quadro cronologico e di una ricca bibliografia.