Letture iconologiche. 2
L’arte e la peste

DARE UN VOLTO
AL NEMICO

A partire dalla metà del Trecento, una lunghissima serie di epidemie di peste colpì duramente l’Europa, inducendo nella popolazione una percezione di precarietà che si protrasse per secoli. Una situazione che introdusse un cambiamento nelle scelte iconografiche di molti artisti. Un campionario di reazioni creative che riflette tutte le sfaccettature emotive e razionali della società. Diverse e identiche nel corso dei secoli. Fino a oggi.

Claudio Pescio

Dare un volto al nemico. Per individuarlo, guardarlo in faccia e combatterlo. Se il nemico è invisibile entrano in gioco predicatori, artisti, poeti. Manipolatori dell’immaginario capaci di risvegliare, sollecitare, interpretare, assecondare o indirizzare la fantasia popolare. Un momento d’oro per la categoria ebbe inizio, in Europa, alla metà del secolo XIV e continuò per circa quattrocento anni: il tempo lunghissimo della Peste nera. Così fu chiamata l’impressionante sequenza di epidemie devastanti, cadenzate in media ogni dieci anni, che colpì un po’ ovunque nel continente. L’ultima ondata di peste in Europa toccò Marsiglia nel 1720 falciandone quasi metà della popolazione. La periodizzazione considerata coincide con quella che gli studiosi del clima chiamano Piccola era glaciale, che va dalla metà del XIV alla metà del XIX secolo. Un fenomeno globale che vide il brusco abbassarsi delle temperature medie, l’aumento delle superfici coperte dai ghiacci e un generale peggioramento del clima in Europa. Dopo un XIII secolo climaticamente “caldo” - in cui la temperatura mite aveva favorito l’aumento degli scambi commerciali, l’estensione delle colture e una forte crescita demografica -, il Trecento si trovò invece di fronte a un fabbisogno crescente di alimenti che la produzione agricola non riusciva più a soddisfare. Il cambiamento climatico provocò una serie di cattivi raccolti, il prezzo del grano iniziò a crescere, ci furono rivolte, saccheggi e si diffuse la malnutrizione. La guerra del Cent’anni tra Francia e Inghilterra (1337-1453) non migliorò le cose.

Quel che accadde nel 1347 è tristemente noto. Una nave genovese salpò dal porto di Caffa, sul mar Nero, con un carico di pellicce e altre merci provenienti dalla Cina, ma portò con sé anche topi e pulci al seguito, veicolo di un’infezione batterica letale, la peste, che infestò l’Italia, poi la Svizzera, la Francia e in breve l’Europa intera. In tre anni provocò più di venti milioni di morti in tutto il continente. Ogni on data durava circa nove mesi, il tasso di contagio era il sessanta per cento, la mortalità del trenta per cento, in media. Scomparve apparentemente del tutto nel 1353, ma tornò nel 1361, negli anni Settanta e Ottanta, nel 1399 e poi nel 1410... La peste era ormai endemica in tutto il bacino del Mediterraneo. Il XV secolo, il nostro Rinascimento, trascorse con circa la metà degli abitanti del secolo che lo aveva preceduto.
Le diverse comunità cercavano di contrastare il male con i mezzi di cui disponevano; utili intuizioni, come le quarantene e il bruciare le vesti dei malati; ma perlopiù con fantasiose cure a base di decotti, salassi, incisioni, erbe odorose (come quelle che venivano inserite nella sorta di becco di cui era a volte corredata la maschera protettiva di alcuni medici nel XVII secolo); e reazioni superstiziose, con l’allontanamento di vagabondi e prostitute e la vera e propria persecuzione, ancora una volta, degli ebrei, con atrocità inaudite: nel 1349, a Strasburgo, si organizzò un rogo di cittadini di religione ebraica, col pieno consenso delle autorità; lo stesso era accaduto a Stoccarda l’anno precedente.
La Chiesa proponeva devozione e penitenza, i flagellanti percorrevano le strade, i predicatori additavano nel peccato la ragione del castigo e gli artisti contribuivano a cercare di dare un volto al Male, di raccontarlo, nei modi più diversi.


Rogo di ebrei (1350 circa), dalla Cronaca di Gilles Li Muisis, Bruxelles, Bibliothèque Royale de Belgique.

A partire dalla metà del Trecento, nelle scelte iconografiche degli artisti si assiste come a un “cambio di umore”: si diffondono soggetti come la Danza macabra, il Trionfo della Morte, la Storia dei tre vivi e dei tre morti, i “memento mori”, streghe, roghi, scene in cui la Morte guida un carro carico di cadaveri, le immagini di san Rocco, di san Sebastiano e della Madonna della misericordia, percepiti come compassionevoli tramiti per un intervento protettivo dall’ira di Dio. Iconografie nuove che iniziarono a riproporsi per alcuni secoli, da allora, accompagnando ogni ritorno delle epidemie. La peste cambiò la psicologia collettiva e l’arte registrò il cambiamento accentuando i toni più cupi e morbosi. Era un tentativo di esorcizzare la paura, di visualizzare il pericolo, di rendere oggettivo e condivisibile l’incontrollabile. Si diffuse anche una malinconica nostalgia di un passato migliore, ci si chiese che fine avessero fatto le belle cose di un tempo. È in questo clima che François Villon, nella Ballade des dames du temps jadis (1460-1461) inserisce, ripetuto, il noto verso: «Mais où sont les neiges d’antan?» (dov’è finita la neve di una volta?). Altri, come racconta Boccaccio, cercarono conforto e svago in un isolamento che era la sola forma di evasione possibile e raccomandabile.


Peste bubbonica, miniatura dalla Bibbia di Toggenburg (Svizzera, 1441), Berlino, Kupferstichkabinett.

Un tentativo di esorcizzare la paura, di visualizzare il pericolo, di rendere oggettivo e condivisibile l'incontrollabile


Impossibile esemplificare qui le innumerevoli personificazioni che la “piaga” per eccellenza assunse nel corso di alcuni secoli nell’arte europea. Ci limiteremo ad alcuni casi significativi dei vari modi con cui veniva trattato il tema in forme iconografiche diverse a seconda degli obiettivi di propaganda o di documentazione, di ammonimento o di consolazione. La peste viene raccontata spesso, nei documenti giunti fino a noi, come un incendio, come un fuoco che arde, a volte annunciata da una malefica cometa o da stelle cadenti. Come un incendio in effetti si propaga (così la descrive per esempio Daniel Defoe nel Diario dell’anno della peste, pubblicato nel 1722 ma dedicato alla descrizione dell’epidemia londinese del 1665), e i suoi effetti appaiono simili; un prete di Busto Arsizio, in un resoconto del 1530, presenta così la situazione del suo villaggio al passaggio dell’epidemia: «Bruciato e consumato, quasi ridotto in cenere e tizzoni, è diventato Busto desolato e disabitato».


Maestro del Trionfo della Morte, Trionfo della Morte (1446 circa), Palermo, palazzo Abatellis, Galleria regionale della Sicilia.

La visione di un’umanità bersagliata dalle frecce pestifere scagliate dall’alto dei cieli come punizione per i peccati commessi è invece ricorrente nelle metafore a cui ricorre la Chiesa, e si diffonde a ogni ondata epidemica. Ne sono esempi la Madonna della misericordia della bottega di Benedetto Buonfigli (1464), nell’oratorio di San Bernardino a Perugia, e il San Sebastiano intercessore di Benozzo Gozzoli in Sant’Agostino a San Gimignano (per i quali rimando a M. Zanchi, Protettrice del popolo, in “Art e Dossier”, n. 359, novembre 2018). Una variante si vede nel Dittico per l’altare della Peste di Martin Schaffner (1513-1514, Norimberga, Germanisches National Museum); la pala, concepita per un monastero agostiniano di Ulm, mostra un irato Dio Padre che guida personalmente una coorte di angeli intenti a inviare sulla Terra una pioggia di frecce mortifere; i sofferenti inviano le loro preghiere a Dio attraverso la mediazione degli intercessori, seguendo una trafila di sguardi che inizia dal basso con le autorità secolari e religiose che indirizzano le loro preghiere ai due santi antipeste per eccellenza, Rocco e Sebastiano, i quali consegnano l’appello a Maria Vergine che a sua volta alza gli occhi verso il Figlio; Gesù implora il Padre, mostrandogli le proprie stimmate a invocare misericordia. Un percorso codificato di salvezza che ottiene il risultato: le frecce si rompono, si piegano, cambiano traiettoria e cadono a terra inoffensive. Il messaggio è chiaramente volto a invitare i fedeli a seguire le indicazioni impartite dalle loro guide spirituali.

Nel Trionfo della Morte di palazzo Abatellis a Palermo (1446 circa) è la Morte stessa a impugnare l’arco da cui è appena scoccata l’ennesima freccia di una vera ecatombe. L’iconografia del Trionfo appartiene alla stessa categoria delle innumerevoli Danze macabre che fanno la loro comparsa in molte chiese, oratori, cimiteri d’Europa a partire dalla metà del Trecento. Tradizione che deriva dalla messa in scena, in forma di recita e danza, di prediche popolari, secondo alcuni studiosi. Immagini in cui la paura della fine è personificata appunto dalla Morte oppure da scheletri, che entrano fisicamente nella quotidianità dei vivi. Un arrivo improvviso e inatteso, che spesso coglie le vittime in un momento di festa. Una curiosa variante è in un affresco nella chiesa di Täby, nella periferia di Stoccolma: La Morte gioca a scacchi (1480), di un artista indicato come Albertus Pictor, scena che - per dichiarazione dello stesso regista - colpì un Ingmar Bergman giovanissimo e non ancora autore di Il settimo sigillo (1957), film che in una scena chiave mostra il protagonista giocare appunto a scacchi con la Morte.

Sono immagini connesse alla vanità della vita e della bellezza, allo sconforto dopo la perdita, a una reazione di rifiuto fisico della vita stessa per non andare mai più incontro alla delusione dopo aver creduto nella possibilità di essere felici. E allora meglio rabbrividire immaginando spettri e atrocità. La Chiesa, sapientemente, assecondava questo immaginario e lo incasellava fra i precetti morali: “memento mori”.

Sul piano razionale, intanto, la società si organizzava contro il morbo; la necessità di contenere il contagio si manifestò abbastanza presto, già a Firenze si tentò di chiudere ogni relazione con l’esterno quando ci si accorse che nel 1347-1348 stavano soccombendo per prime le città portuali - Genova, Pisa, Venezia -; con scarso successo, bisogna dire, dal momento che la città vide la propria popolazione ridursi in tre anni di epidemia di un quarto-un terzo.

Quarantene, chiusure delle scuole e delle funzioni religiose erano misure già attive nel XV secolo e poi sempre più estese nei secoli successivi, con l’istituzione di “zone rosse” sorvegliate da truppe armate. Le autorità cercavano spesso, anche con lo strumento delle immagini, di fare fronte alla diffusa e mai scomparsa tendenza a ignorare il pericolo, all’inerzia autoassolutoria, al comprensibile desiderio di salvare raccolti e commerci, alla rassicurante convinzione che minimizzare protegga. Alessandro Manzoni, nei Promessi sposi, racconta come durante la peste del 1630 in Lombardia «chi buttasse là una parola del pericolo, chi motivasse peste, veniva accolto con beffe incredule, con disprezzo iracondo».
Al tempo stesso, molti volevano “vedere”, morbosamente attratti dagli aspetti più crudi del male. Un bisogno di inorridire di fronte alla decomposizione, ai vermi, agli spasmi e ai miasmi. Ancora Defoe racconta di londinesi che si recavano di notte a veder gettare i cadaveri nelle fosse comuni (di giorno le avrebbero trovate già coperte di terra).


Albertus Pictor, La Morte gioca a scacchi (1480), affresco nella chiesa di Täby, periferia di Stoccolma.

È anche questa una delle ragioni del diffondersi di iconografie connesse alla peste e in generale alla morte: Holbein nel 1530 disegna una Danza macabra che avrà ottantotto edizioni a stampa; la compresenza di vita e morte ispira incisioni e dipinti a Francisco Goya (L’ospedale degli appestati), a Nicolas Poussin (La peste di Azoth), a Louis Rouhier sulla peste di Roma (1657), a Melchiorre Gherardini sull’epidemia milanese del 1630, a Micco Spadaro sulla peste di Napoli del 1656, con composizioni che non trascuravano nessun aspetto dello sfacelo in cui versava la sua città. Lo stesso Spadaro mostra anche un’altra personificazione della malattia; nei Ringraziamenti dopo la peste del 1656 (1656, Napoli, Museo di San Martino) la Peste ha le sembianze di una strega, ed è san Martino ad affrontarla armato di spada. E avremo ancora una strega, a cavallo di un drago, nella Peste di Arnold Böcklin (1898).
Un uso decisamente propagandistico della peste è infine nel dipinto di Antoine-Jean Gros, Bonaparte visita gli appestati di Jaffa (1804, Parigi, Louvre). La storia, controversa, si riferisce a un episodio della Campagna d’Egitto di Napoleone, precisamente a quando nel 1799 Bonaparte, allora generale dell’armata francese, visita il lazzaretto di Jaffa, dove sono ammassati i soldati francesi colpiti da un’improvvisa epidemia di peste. La scena mostra Napoleone che tocca un bubbone infetto sotto l’ascella di uno dei malati che gli si fanno attorno; appare tranquillo, al contrario degli ufficiali del suo seguito, visibilmente scossi. Il messaggio del dipinto, commissionato a Gros da Napoleone stesso, è duplice: da un lato c’è la celebrazione del coraggio di un generale compassionevole che non abbandona mai i suoi soldati, dall’altro il rimando a una antica tradizione francese, quella dei medievali re taumaturghi, che guarivano gli scrofolosi col tocco della mano. In realtà la visita al lazzaretto non è documentata, pare lo sia, invece, l’ordine dato dallo stesso Bonaparte, lasciando Jaffa, di sopprimere, avvelenandoli, tutti i malati più gravi. Gli inglesi, in guerra con la Francia, venuti a conoscenza del fatto montarono una campagna di stampa contro il generale nemico che mandava a morte i suoi soldati. Il dipinto appare quindi per quel che forse è, un’iconografia agiografica a scopo di contropropaganda. Efficace: alla fine di quel 1799 Napoleone è primo console, nel 1804, l’anno del dipinto, imperatore.
Insomma minimizzare, fuggire, esorcizzare, speculare ma anche lottare per capire e per vincere la battaglia. Una casistica molto varia di reazioni, come abbiamo potuto vedere anche solo da questa rapida ricognizione, ma forse utile a una riflessione sulla nostra antica e presente necessità di guardare in faccia il nemico per affrontarlo meglio.


Micco Spadaro, Ringraziamenti dopo la peste del 1656 (1656), Napoli, Museo di San Martino.

Antoine-Jean Gros, Bonaparte visita gli appestati di Jaffa (1804), Parigi, Musée du Louvre.

ART E DOSSIER N. 376
ART E DOSSIER N. 376
MAGGIO 2020