In questo contesto culturale, con un paesaggio intorno unico nel suo genere rispetto al resto della Provenza, dal 2004 opera la Fondation Luma, diretta e finanziata da Maja Hoffmann, della grande famiglia industriale La Roche. Sei ettari al centro di Arles - là dove era insediata la produzione delle locomotive a vapore da parte della ferrovia nazionale francese - ospitano nella torre progettata da Gehry (la cui inaugurazione è prevista entro la fine di quest’anno) atelier, scuole, residenze d’artista, spazi espositivi, archivi. Un polo quindi multidisciplinare che ha coinvolto per la sua realizzazione lo studio di New York di Annabelle Selldorf, il paesaggista belga Bas Smets, l’architetto francese Marc Barani.
La torre occupa uno spazio di quindicimila metri quadrati, sviluppata su dieci piani, alta cinquantasei metri, con le facciate curve, spigolose e riflettenti, realizzate con oltre diecimila blocchi in acciaio inossidabile, alla base della quale un grande tamburo circolare in vetro ricorda l’anfiteatro romano di Arles.
Pur all’interno della sua poetica, l’ultima opera dell’architetto canadese ne rappresenta una tappa evolutiva sia per quanto riguarda il disegno sia in relazione al dialogo con la realtà naturale e storica preesistente. In primo luogo ci troviamo di fronte a un linguaggio compositivo che privilegia una serie di volumi compiuti e composti come se appartenessero a un albero metallico ma anche a un’immaginaria nave arenata e “sconquassata”, il tutto in un equilibrio tra “natura e artificio” dove la luce, rifrangendosi, produce una serie di effetti tridimensionali che cambiano continuamente. Dai piani ondulati delle opere precedenti a una sorta di superficie continua, più geometrica e spigolosa, come se si desiderasse tornare a un ordine compositivo, diciamo, più “tradizionale”.
Rispetto invece al dialogo con il territorio, certamente il paesaggio lunare e roccioso di Les Baux de-Provence, nelle vicinanze di Arles, ma soprattutto le cime delle Alpilles, una piccola catena montuosa di rocce sedimentarie di tipo calcareo, dove vennero ritrovati i primi giacimenti di bauxite, hanno suggerito a Gehry alcune considerazioni che lo hanno portato alla definizione della torre.
Dal primo incontro, circa trent’anni fa, nel suo piccolo studio di Santa Monica dove mi mostrava, accartocciando fogli di carta, qual era l’origine della sua composizione, mentre esaminava ovviamente con attenzione i suggerimenti dei suoi giovani ingegneri e dei ricercatori della Silicon Valley, seduti con lui intorno a un tavolo, fino a oggi, la coerenza resiste, anche se la sua architettura sembra mostrare una maggiore attenzione al contesto preesistente, ovviamente senza rinunciare al proprio linguaggio.
Frank Gehry resiste, e fa bene.