La pagina nera

L’EDIFICIO ALTOLOCATO
È DEL TUTTO DIROCCATO

Che cosa rimane di palazzo Trifiletti nel cuore di Foggia? Niente, o quasi. Costruito dopo il terremoto del 1731 e appartenuto alla nobile famiglia partenopea Giovene di Girasole, da troppo tempo non riceve più alcuna attenzione. Vani gli appelli per salvarlo, e nel frattempo i proprietari sono diventati quarantotto. Ma il Mibact non può intervenire?


di Fabio Isman

Era tra i palazzi più belli nel centro di Foggia; ma non lo è più ormai da alcuni decenni, un tempo davvero eccessivamente lungo: costruito, subito dopo il disastroso terremoto del 1731, a cavallo degli antichi fossati che fino al Medioevo costituivano il confine della città e addirittura accreditato (come vedremo) a un nome importante dell’architettura, ha perduto, e certo non da ieri, le proprie invidiabili qualità. Oggi è impraticabile: ridotto pressoché soltanto a un relitto; è una larva, all’anticamera della completa sparizione. Finora qualsiasi appello per risanarlo è rimasto purtroppo non ascoltato e inutile; forse anche perché è ormai frantumato tra quarantotto diversi proprietari (uno è perfino un santuario): nemmeno il vincolo, imposto dai Beni culturali nel 1984, è valso a preservarlo; la città rischia così di perdere quello che, una volta, era uno dei suoi gioielli.

Il palazzo si chiama Trifiletti, dal cognome di chi lo possedeva all’inizio del Novecento: ma, come abbiamo anticipato, ha un’origine assai più remota, e, quasi certamente, anche assai più nobile. 

Nel cortile, infatti, i due piani fuori terra (che nella parte posteriore diventano tre) sono uniti da uno scalone, il quale ricorda da vicino quelli “ad ali di falco” di Ferdinando Sanfelice (1675-1748), l’architetto napoletano forse più fantasioso dei suoi tempi: basta guardare, nella città partenopea, il palazzo progettato per sé e per i suoi, o quello detto “dello Spagnolo”.

Le sue costruzioni barocche e scenografiche, ma soprattutto le scale che si ha la sensazione siano aperte sul vuoto e che si biforcano e si riuniscono, zeppe di loggiati (un Escher in anticipo di un paio di secoli), erano così ardite e innovatrici da valergli l’indicativo soprannome «Lievat’ a’ sott», come a paventare il pericolo che crollassero. «E anche palazzo Trifiletti è probabilmente un’opera sua», racconta Anna Stella Di Mauro, promotrice d’infiniti appelli per salvare, finora senza successo, quest’autentica bellezza: «Ho compiuto numerose ricerche, scovando parecchie coincidenze e fin troppi indizi».


Tutto è interdetto e tutto è inagibile, già transennato, e perfino murato, ma ugualmente occupato e vandalizzato


Certamente, a far innalzare l’edificio è la nobile famiglia dei Giovene di Girasole, napoletani, documentati fin dal 1006: nell’androne a botte, oggi disastrato, insieme a un rilievo con una Madonna col Bambino, resta (o restava?) un loro stemma, con due leoni rampanti e in mezzo un albero; e uno simile è nel Museo civico di Foggia. A Napoli, c’è ancora, malmesso, il palazzo della famiglia, di cui, per esempio, parlano Johann Wolfgang von Goethe - raccontando l’incontro partenopeo del 1787 con la duchessa Giulia, di origini tedesche e moglie di Nicola Giovene - e Benedetto Croce. Altri due del casato, i fratelli Michele e Andrea, sono sepolti nella chiesa napoletana della Nunziatella, a Pizzofalcone, affrescata nel 1732 da Francesco De Mura: nell’abside, hanno avuto l’onore di essere stati omaggiati con due monumenti di Francesco Pagano, del 1734.


Il cortile, come si presenta oggi, invaso da piante spontanee, dal quale si intravede appena lo scalone inserito in un arco a tutto sesto.

E all’inizio di quel secolo «proprio loro finanziarono il rifacimento del luogo sacro, allora dei gesuiti e dal 1787 prima della scuola, poi dell’Accademia militare omonima, proprio a opera dell’architetto Sanfelice», continua la “agit-prop” del palazzo foggiano. L’architetto muore nel 1748, però lavorando fino alla fine: i tempi sono quindi perfettamente compatibili. «Tra Foggia e Napoli i rapporti erano assai stretti: numerose famiglie campane avevano qui delle loro proprietà», spiega lo studioso Giuliano Volpe, già rettore dell’Università nella città pugliese; «ora, le condizioni di palazzo Trifiletti sono penosissime: è assai più che semplicemente notevole, e la maniera in cui è ridotto è assai più che uno scandalo; forse, attende soltanto una ghiotta occasione per qualche speculazione immobiliare». Peraltro, Volpe conosce assai bene l’edificio: è ad appena cinquanta metri da casa sua, tra corso Garibaldi (al numero 84) e la retrostante via Nunziata Sulmona.

Lo stato in cui versa è davvero miserando. I tetti sono disastrati e, almeno in parte, crollati; tutto è interdetto, e tutto è inagibile: già transennato, e perfino murato, ma ugualmente occupato dai senzatetto, o altri, e più volte vandalizzato. Alle pareti dell’androne rimanevano, fino a non troppo tempo fa, tre mascheroni equini, che terminavano con anelli di ferro: una volta, ospitavano i cavalli, che vi venivano assicurati.


I tetti del palazzo disastrati e in parte crollati.

Il cortile è ormai il regno delle piante spontanee: non è nemmeno più facile ammirarne lo scalone, con tre alti archi a tutto sesto - nel primo piano ripresi da altri più bassi e inseriti in uno policentrico (un “classico” di Sanfelice) - ed eleganti mensole, decorate con ovuli, volute e ghirlande. Tutti gli intonaci sono decrepiti, i serramenti da tempo instabili e lacunosi. Nella facciata, in pericolo un paio di graziosi balconcini settecenteschi a motivi floreali. Spariti, nei molteplici rifacimenti, gli archi e le crociere dei piani superiori, sostituiti da solai piani. Sono del tutto trasformate le due aperture che affiancavano il portale d’ingresso, diventate dei locali destinati a usi commerciali, ma ormai cadenti.

La parabola discendente dell’edificio inizia, logicamente, dopo il declino dei Giovene (un cartello turistico davanti alla facciata, che ne segnalava la natura di bene culturale, ne storpiava perfino il cognome; ma tempo fa, è sparito pure lui): risalgono al XVIII secolo le loro ultime notizie di qualche rilievo. Abbandonano il palazzo che avevano voluto: un rettangolo di quasi ottocento metri quadrati, con due cortili. Una volta, c’era perfino un teatro, affidato alla compagnia Goldoni, e, al piano terreno, le stalle e gli ambienti di servizio. Poi, l’immobile diventa residenziale. Diviso in vari appartamenti; e due porte sono aperte sulle strade laterali. Passa più volte di mano. Forse anche perché abitato da inquilini, e non dai reali proprietari, alla manutenzione, ordinaria e straordinaria, non provvede più nessuno. Pure la bellezza del portale principale in legno, con un’elegante cornice circolare in pietra, non è che un remoto ricordo: immortalato soltanto dalle antiche immagini in bianco e nero.

Il disastro del palazzo ha le premesse nei primi decenni del Novecento. Ignazio Accinni, che allora lo possedeva, lo lascia alla figlia Maria, moglie di Pellegrino Trifiletti, appartenente a una famiglia non secondaria d’imprenditori agricoli foggiani che a fine Ottocento possedeva anche una tipografia. Da lui, Maria ebbe sette figli. Nel 1927, per testamento, lei dispone che, alla sua morte, il palazzo sia diviso in parti uguali tra loro. Alcuni rinunciano; ne restano quattro, che però, poco tempo dopo, alienano le proprie quote. Da allora, come spesso accade, i proprietari si sono moltiplicati per discendenza, fino a diventare, appunto, quasi un mezzo centinaio. Il decadimento procede verso il precipizio dalla metà dello scorso secolo, fino a oggi, quando l’edificio è ormai irriconoscibile e la sua stessa esistenza messa addirittura a serio repentaglio. Un altro piccolo e poco conosciuto tesoro della nostra penisola, di cui anche chi di dovere non si cura come dovrebbe: una legge non prevede che il Ministero possa obbligare i proprietari ai restauri e, se del caso, perfino surrogarli?


Un altro particolare della facciata.

ART E DOSSIER N. 370
ART E DOSSIER N. 370
NOVEMBRE 2019
In questo numero: Palazzo Grimani La collezione del patriarca. Eros e Bellezza Giù le mani da Susanna. Elogio della curva. Se la grottesca accende la fantasia. In mostra:Bacon a Parigi. Chagall, Picasso, Mondrian ad Amsterdam. Goncarova a Firenze. Rembrandt e Velázquez ad Amsterdam. Gli aztechi a Stoccarda.Direttore: Philippe Daverio.