XX secolo. 2
Lee Miller

UN ANGELO RIBELLE
DIETRO L’OBIETTIVO

Modella dalla fine degli anni Venti per “Vogue”, Lee Miller trova ben presto molto più interessante scoprire cosa succede dietro la macchina fotografica. A Parigi il suo esordio come fotografa e l’incontro con i surrealisti, in particolare con Man Ray, segnerà in modo tangibile la sua poetica.


Alba Romano Pace

«Solamente la scultura potrebbe rendere la bellezza delle sue labbra orlate, dei suoi grandi occhi pallidi e languidi e del suo collo simile a una colonna»(1), scrive André Breton osservando estasiato il viso di Lee Miller. Solamente la scultura, con la sua forza e la sua presenza, la sua fierezza e duttilità, potrebbe simboleggiare il carattere energico di un’artista coraggiosa, una donna indipendente, una fotografa elegante e sagace, che senza esitazione si è immersa nel flusso dei più grandi eventi storici riportandone il volto dei protagonisti, trasformando la realtà in onirismo ma non esitando a svelarne gli aspetti più crudi quando la verità esige di essere rivelata. Lee Miller ha vissuto tante vite in una, ha attraversato continenti, rivestito i più diversi ruoli per trovarsi sempre parte attiva in quei luoghi cardine dove l’arte e la storia hanno scritto l’identità del Novecento. La sua è una vita intensa che lei stessa definisce «un puzzle intriso d’acqua, pezzi ebbri che non si accordano né dalla forma né dal disegno»(2).

Elizabeth Miller nasce il 23 aprile 1907 a Poughkeepsie nello stato di New York, il padre ingegnere ama sperimentare con la fotografia, ritrae spesso i suoi figli, i due maschi e soprattutto Lee, il cui corpo nudo appare in diversi scatti. L’infanzia dell’artista è segnata dal dramma della violenza sessuale subita a sette anni da parte di un amico di famiglia; l’adolescente cresce inquieta e ribelle, al liceo si fa espellere da tutte le scuole e nel 1925 il padre decide di inviarla per un anno a Parigi. Tra cinema e teatri Lee Miller scopre la moda degli anni Venti, i capelli corti alla “garçonne”, il rossetto sulle labbra, l’andatura elegante e audace.

Una volta tornata a New York e iscrittasi all’Art Students League, si fa notare per la sua bellezza raffinata e prorompente che non sfugge a Condé Nast, proprietario delle riviste di moda “Vogue” e “Vanity Fair”, il quale casualmente incrocia in strada una Lee Miller distratta che afferra per un braccio, salvandola appena in tempo da una macchina che stava per investirla. Basta uno sguardo e il numero di “Vogue” del 15 marzo 1927 esce con il volto di Lee in copertina, disegnato da Georges Lepape. Da allora Nickolas Muray, Arnold Genthe, Edward Steichen, i più grandi fotografi del tempo, la ritraggono per la stessa rivista. Modella più che seducente, viene immortalata in abito da sera in uno scatto di Steichen per fare la promozione della Kotex, una nota marca di assorbenti.

Sognante, il volto angelico, i lineamenti fini,
un cerchietto sul capo


È la prima volta in assoluto che il prodotto viene pubblicizzato; le femministe esultano, la foto è su tutti i giornali, il volto di Lee Miller diviene quello della Kotex e nessuna rivista di alta moda la vorrà più come modella. Intanto Lee inizia a interessarsi più al trovarsi dietro la macchina fotografica che al suo cospetto e nel 1929 parte per Parigi con una lettera di raccomandazione di Edward Steichen indirizzata al più noto tra i fotografi surrealisti. Lee Miller e Man Ray si incontrano in un bar di Montparnasse, a pochi passi dal loro futuro studio, la ragazza si pone dinnanzi al fotografo: «Sono Lee Miller e sono la sua nuova allieva»(3) e in pochi mesi diviene la sua modella, la sua musa, la sua amante e molto di più che una collaboratrice: una vera artista con la quale Man Ray crea alcune tra le sue più celebri foto e fa la grande scoperta del rayogramma:


Autoritratto con un cerchietto sui capelli, New York 1932 circa.

«Ho sentito qualcosa saltare sul mio piede mentre ero nella camera oscura», racconta Lee Miller, «gridando accesi la luce. Non ho mai saputo cosa fosse, forse un topo [...] Nella vaschetta si trovavano una dozzina di negativi di nudo su sfondo nero ormai quasi sviluppati. Man Ray li afferra, li immerge nel fissatore e li esamina. Le parti non esposte del negativo [...] erano state esposte ad una luce improvvisa e violenta, e circoscrivevano perfettamente i bordi del corpo nudo e bianco. Ma lo sfondo e l’immagine non si fondevano; rimaneva un tratto che chiamerà “solarizzazione”»(4). Questo nuovo processo permette a Lee Miller e Man Ray di creare ritratti onirici dai contorni ben delineati per dare tridimensionalità. Così il volto dell’artista, Meret Oppenheim, fotografato da Miller fuoriesce dallo sfondo dando risalto ai suoi lineamenti fieri. La fotografa frequenta quotidianamente i surrealisti; Picasso (che la dipinge nel quadro L’Arlesiana), Paul Eluard, Dora Maar, Max Ernst, Gala e Salvador Dalí, e ancora Mirna Loy, Charlie Chaplin sono tra i suoi modelli. Lei stessa continua a posare per “Vogue” Francia e attraverso gli scatti di George Hoyningen- Huene viene riconosciuta come una delle più belle donne di Parigi. Jean Cocteau la sceglie per incarnare la musa-Venere di Milo, per il suo film Le sang d’un poète del 1931.

Anche le sue foto risentono dell’influenza surrealista, il corpo della donna diviene un curioso “objet trouvé” nel Nudo piegato in avanti del 1930 mentre nello scatto La mano che esplode si esprimono tutta la magia e l’ironia del surrealismo.
Nel 1932 Lee torna improvvisamente a New York dove apre uno studio di fotografia con il fratello Erik. Nello studio si alternano personalità della moda e dell’arte tra cui l’artista Joseph Cornell che le dedica uno dei suoi collage mentre lei lo ritrae trasformandolo in un oggetto fantastico. Tra le foto di quel periodo, un autoritratto del 1932 circa la mostra sognante, il volto angelico, i lineamenti fini, un cerchietto sul capo e una “ruche” intorno al busto che riprende i riccioli dei capelli.


Nudo piegato in avanti (Noma Rathner?), Parigi 1930 circa.

«Ero molto bella, somigliavo a un angelo, ma all’interno ero un demone»(5), dichiara l’artista che, come sempre imprevedibile, nel 1934 chiude il suo studio fotografico per convolare a nozze con l’imprenditore egiziano Aziz Eloui Bey, conosciuto poco prima a Parigi. Insieme al marito va a vivere al Cairo dove, attraversando il deserto, fa alcune delle sue foto più nostalgiche, tra queste il poetico Ritratto dello spazio, del 1937, in cui la rete squarciata di una finestra nella sua forma slabbrata (opposta alla geometria della cornice che vi è sopra), apre un varco sul chiarore disarmante di un paesaggio desolato, simboleggiando la sofferenza interiore dell’artista. Altre sue immagini di rocce e rovine nel deserto raccontano la sua solitudine.

Dopo due anni passati al Cairo, Lee Miller torna a Parigi e, invitata dal gallerista Julien Levy a un ballo in maschera, conosce Roland Penrose, collezionista e poeta inglese che l’accompagnerà per tutto il resto della sua vita. Lee viaggia ancora in Egitto, nel Sud della Francia, in Grecia e Romania, poi si trasferisce a Londra da Penrose. È il 1940, la città è in guerra, Lee Miller si fa ingaggiare come fotografa da “Vogue” ma le foto di moda presto si trasformano in servizi sulla vita notturna londinese, sul lavoro femminile, sulle difficoltà della guerra.

Miller vuole penetrare la realtà e denunciarla, così domanda e ottiene di diventare corrispondente di guerra ufficiale per gli Stati Uniti, con lei l’amico e fotografo David E. Scherman che in uno scatto di Lee vediamo a fianco della macchina fotografica con una maschera antigas sul volto che trasforma i suoi occhi in altrettanti obiettivi, facendo divenire lo stesso essere umano incarnazione di una macchina fotografica sempre pronta a scattare per proteggere. Lee Miller alterna le foto di moda, tra cui la sua prima immagine a colori, Checkmate del 1943, che mostra per “Vogue” un cappotto della collezione londinese, ai reportage di guerra, finché il lavoro di reporter non prende il sopravvento e i servizi di guerra si moltiplicano, tra questi Guerrieri senza armi, sugli infermieri nei campi.


David E. Scherman, Londra 1942.

I suoi occhi come obiettivi, l’essere umano incarnazione di una macchina fotografica


Dopo lo sbarco americano in Normandia, l’artista, in uniforme, segue le truppe in quella regione, poi in Bretagna dove documenta la presa di Saint-Malo, giunge a Parigi al momento della Liberazione, vi fotografa la gioia della libertà ritrovata e lo sgomento lasciato dal conflitto, ma assetata di verità continua la sua documentazione percorrendo l’Alsazia, poi con le truppe americane entra in Germania dove scopre i campi di Dachau e Buchenwald, lo sterminio del popolo ebraico, gli orrori perseguiti sui corpi degli ebrei. Prima donna reporter di guerra, Lee Miller scatta con lo sdegno e l’orrore negli occhi le immagini di un’umanità devastata, Believe It è il nome del suo servizio uscito su “Vogue” di New York nel giugno del 1945. Il suo viaggio nella repulsione non è ancora finito, con David E. Scherman giunge a Monaco e, nel momento in cui Hitler viene dichiarato morto, si introduce insieme al collega nella casa del Führer al 16 Prinzregentenplatz. Lì si fa fotografare da Scherman nuda nella vasca da bagno di Hitler: in un rituale purificatorio si lava dal terrore del nazismo, nel giorno della morte di chi lo ha creato, nei luoghi che gli sono appartenuti. Altri scatti ritraggono alcuni soldati delle SS morti suicidi e altri casi di suicidio come quello della figlia del borgomastro di Lipsia, accasciata su un divano, la gioventù raggelata dalla morte.

Lee esce dalla guerra molto provata, ha abusato dei suoi occhi, dell’alcol, delle anfetamine per rimanere sveglia. Nel 1947 nasce Anthony, l’unico figlio di Lee Miller e Roland Penrose, la coppia si installa nella tranquilla Farleys House a Chiddingly, nel Sussex, dove la fotografa si dedica alla sua passione per la gastronomia e in un’ottica antiborghese riceve e mette al lavoro gli amici che ospita. Un suo ultimo reportage per “Vogue” dal titolo Gli invitati al lavoro mostra con grande ironia Picasso, Max Ernst, Dorothea Tanning, Alfred Barr e altri grandi nomi dell’arte e della letteratura intenti a riparare oggetti, cucire o fare giardinaggio nella sua casa, quella stessa casa in cui oggi risiede il museo Miller-Penrose voluto dal figlio Anthony Penrose che dalla morte della madre nel 1977 cura gli archivi e diffonde la memoria di un’incredibile produzione fotografica a opera di una donna che dallo sfavillante mondo della moda, attraverso le alchimie surrealiste, giunge alle atroci testimonianze di guerra, penetrando il cuore della storia e sfidando sempre ogni conformismo nel nome della propria libertà.


London F.A.V., modelled by Oxford, Londra 1940.

IN MOSTRA
Nelle splendide sale di Palazzo Pallavicini (Bologna, da giovedì a domenica 11-20, chiuso lunedì, martedì e mercoledì, www.palazzopallavicini.com) prosegue fino al 9 giugno la prima retrospettiva in Italia dedicata a Lee Miller, modella ma soprattutto fotografa le cui opere raccontano trasversalmente la storia del Novecento. Gli scatti in bianco e nero si succedono passando dalle eleganti foto di moda alla crudeltà delle immagini di guerra. Focalizzandosi sul periodo surrealista e la collaborazione tra Lee Miller e Man Ray, il progetto espositivo (Surrealist Lee Miller), a cura di Ono Arte contemporanea, presenta una produzione ancora poco nota ma tra le più importanti del secolo scorso.
A Horten, in Norvegia, negli spazi del Preus Museum (www.preusmuseum.no) un altro appuntamento dedicato a Lee Miller: Fashion and War, fino all’8 settembre. Dai più grandi studi di moda alle strade bombardate di Londra, le fotografie di Lee Miller raccontano l’eleganza durante il secondo conflitto mondiale. Un contrasto forte, che esprime la voglia di reagire alla distruzione provocata dalla guerra, sono le prime foto a colori scattate da Lee Miller che sembrano voler parlare di vita contrapponendosi all’oscurità della morte. La bellezza delle modelle, le loro pose raffinate, gli abiti delicati sembrano davvero essere un inno alla vita e al coraggio di resistere di cui Lee Miller attraverso le sue foto è un raro e bellissimo esempio.

Modella con un abito Digby Morton Suit, Londra 1941.

(1) Dichiarazione di André Breton su “Vogue”, in A. Sayag, Man Ray. La pphotographie à l’envers, catalogo della mostra (Parigi, Grand Palais, Parigi, 29 aprile - 29 giugno 1998), Parigi 1998, p. 19.

(2) C. Burke, Lee Miller: dans l’oeil de l’histoire une photographe, Parigi 2007, p. 225.

(3) M. Amaya, My Man Ray: an interview with Lee Miller Penrose, in “Art in America”, 63, 3, maggio- giugno, New York 1976, pp. 54-61.

(4) Ivi, p. 56.

(5) M. Ravache, Lee Miller, la muse devenue photographe, in “Connaissance des Arts Photo”, 17, settembre-ottobre, Parigi 2008, p. 40.

ART E DOSSIER N. 366
ART E DOSSIER N. 366
GIUGNO 2019
In questo numero: Le anime del Novecento: Kounellis: le radici; Lee Miller tra fashion e guerra. In mostra: Burri a Venezia, Haering a Liverpool, Lygia Pape a Milano. Rinascimenti in mostra: Verrocchio a Firenze, Il Mediterraneo a Matera. Il mito dell'odalisca: Orientalismi in mostra a Parigi.Direttore: Philippe Daverio