Grandi mostre. 4
L’orientalismo nei pittori francesi dell’Ottocento a Parigi

IL MIRAGGIO
DELLE ODALISCHE

Fu una vera e propria attrazione fatale quella che i pittori francesi dell’Ottocento provarono per l’Oriente. Quasi un tormento, concentrato prima sulla bellezza dei corpi femminili e poi sulla luce abbagliante dei paesaggi. Una “moda”, anche, che all’inizio del secolo successivo sarà sintetizzata con Kandinskij e Klee nella vivacità dei colori e nella geometria delle forme.


Valeria Caldelli

Stregati dalle Mille e una notte. Tormentati dalle odalische che dai lontani serragli evocavano grazie esotiche e sensuali piaceri libertini. I pittori francesi dell’Ottocento, alla perenne ricerca di nuovi ideali di bellezza femminile e sempre più in conflitto con i cliché dell’Accademia, sono sedotti dall’orientalismo. Complice Napoleone e le sue operazioni militari in Egitto e in Algeria, oltre alla traduzione e alla diffusione dell’ormai famosa raccolta di novelle proveniente dall’Asia; il tutto unito alla nascita di battelli a vapore e ferrovie che permettevano viaggi fino a poco tempo prima ben più complessi e quasi impossibili. Ci vorrà un secolo prima che una nuova arte, alle porte dell’astrazione, si faccia strada emancipandosi dai romanticismi precedenti e dando il via alla moderna epoca pittorica. Ma la grande “moda” orientalista resta una parentesi isolata nello sviluppo dei nuovi stili e delle nuove tecniche? «Non è accettabile l’idea che il progresso nell’arte, come in qualsiasi altro settore, avvenga attraverso bruschi salti e rotture nette. Non si può dividere nettamente tra il prima e il dopo, ma bisogna capire come e perché si arriva a certi cambiamenti».

Se lo è chiesto Emmanuelle Amiot- Saulnier organizzando, come curatrice, la mostra al Musée Marmottan Monet di Parigi il cui percorso comincia con le classicissime odalische di Ingres per concludersi con un’immersione nei colori puri di Klee e Kandinskij.

Nella palazzina compresa tra il Bois de Boulogne e il giardino del Ranelagh circa cinquanta opere provenienti da collezioni pubbliche e private, europee e americane, ci trasportano in un Oriente artistico che i pittori prima hanno immaginato, poi visto e infine interpretato, trasferendolo in un Occidente semplificato, dai colori più netti e cristallini, tuffati nel sole abbagliante dell’Africa mediterranea.

È sui paesi legati alla storia coloniale della Francia - Egitto, Algeria, Tunisia e Marocco - che si concentra la mostra L’Orient des peintres, du rêve à la lumière ed è la luce a fare da protagonista nella trasformazione della tavolozza e delle forme che si trasfigurano e si dissolvono nei riverberi del deserto. Quella luce abbagliante che rende ciechi e che non ti abbandona neanche durante le ore di sonno. «Io non smetto di sognare la luce», scrive Eugène Fromentin, scrittore e paesaggista, dopo un viaggio in Sahara, «chiudo gli occhi e vedo delle fiamme, delle sfere luminose, oppure dei riflessi che si ingrandiscono».


Veneri brune che potevano finalmente uscire dall’immaginazione per trasferirsi sulle loro tele


Edouard Debat- Ponsan, Il massaggio, scena di un hammam (1883), Tolosa, Musée des Augustins.

Per la verità, però, gli artisti non partivano verso luoghi ancora sconosciuti e difficili da raggiungere per cercare la luce. Assillati dalla ricerca della perfezione del corpo femminile, pensavano di trovare in Oriente un paradiso pieno di donne. I bagni turchi e gli harem nei loro sogni erano popolati di nuove muse, Veneri brune che potevano finalmente uscire dall’immaginazione per trasferirsi sulle loro tele. Ma l’idea letteraria delle odalische diffusa all’epoca, nella realtà era destinata a restare un miraggio. Non è un caso che Gérôme, nonostante i suoi numerosi viaggi in Egitto, avesse incaricato un amico turco, Abdullah Siriez, pittore del sultano di Istanbul, di riprodurre per lui una serie di motivi ricorrenti da poter usare per gli interni dei suoi harem e dei suoi hammam. Non solo, le forme e il candore della pelle della giovane donna nuda in vendita in un “suk” arabo da lui dipinto nel 1866 (Il mercato degli schiavi) echeggiano classici modelli presi in prestito dalla mitologia più che da una contrattazione reale al Cairo. Théodore Chassériau, allievo di Ingres e ammiratore di Delacroix, pur restando un mese in Algeria, nel suo Interno di harem dà il volto della sua amante, Alice Ozy, alla giovane donna che esce dal bagno torcendosi i capelli, assistita da una schiava nera che la adorna di gioielli: un’altra Venere dalla pelle lattea e dalle pose classiche. Una splendida giovane con i lunghi capelli ondulati, il volto leggermente reclinato e i seni coperti da una veste trasparente, ci viene “spacciata” come L’ebrea di Tangeri dal suo autore, Charles Zacharie Landelle, più volte in Marocco, ma in realtà è una contadina normanna con un costume orientale prestato da un amico pittore.

Così anche Corot avrebbe usato la modella preferita, Emma Dobigny, per la sua Giovane algerina distesa sul prato. Qualche anno ancora ed Edouard Debat-Ponsan nel Massaggio, scena di un hammam ci mostra eroticamente nuda la bella schiena della moglie in un ambiente orientale. Per non parlare del “maestro delle odalische”, Jean-Auguste-Dominique Ingres. Lui in Oriente non ci aveva proprio messo piede, ma le sue bagnanti tradiscono il sogno delle Mille e una notte che veniva sia dalle letture, sia dalle copie delle stampe in circolazione, sogno che resterà vivo durante tutto il secolo anche grazie ai suoi dipinti.


Jean-Léon Gérôme, Odalisca (senza data), Ocala, Appleton Museum of Art, College of Central Florida.

Félix Edouard Vallotton, Il bagno turco (1907), Ginevra, Musée d’Art et d’Histoire.


Jules Migonney, Il bagno moresco (1911), Bourg-en Bresse, Musée du Monastère royal de Brou.

«Io non smetto di sognare la luce»
Eugène Fromentin


Ne è prova La grande odalisca (in mostra la copia di Jules Flandrin, del 1903, dipinta quasi cento anni dopo l’originale), uno dei dorsi più sensuali dell’arte di tutti i tempi, i cui gioielli, così come il turbante, ci portano in Oriente. Quasi un’ossessione per Ingres, quella delle odalische, ossessione che torna a più riprese nella sua vita artistica.

E se nella Bagnante di Valpinçon, altro ideale classico della bellezza, solo una babbuccia negligentemente finita ai piedi del letto e il consueto copricapo musulmano rimandano al mondo dell’harem, le immagini sullo sfondo della Piccola bagnante, di venti anni successiva, ci portano direttamente all’interno di un bagno turco. Ma il fatto è che l’Eden popolato di donne incantevoli resterà un sogno per tutti i pittori, anche per quelli che con tavolozza, pennelli e speranza erano partiti alla ricerca di avventure artistiche.

Ci vorrà infatti poco a scoprire che in Oriente nessuna donna, vergine o meno, poteva accettare di posare per un ritratto e che agli uomini, in particolare stranieri, era vietato l’ingresso negli harem.


Eugène Fromentin, Il paese della sete (1820-1876), Parigi, Musée d’Orsay.

Così ai pittori non resterà che guardare da lontano le silhouette femminili avvolte in grandi mantelle con la testa e il volto coperto fino agli occhi e continuare a immaginare ideali bellezze occidentali. L’uso accorto di alcuni accessori, come il narghilè, contribuiva a trasportarle in luoghi esotici, oppure erano i mosaici e le decorazioni moresche delle piastrelle a evocare atmosfere sconosciute conferendo all’opera la necessaria garanzia orientalista. D’altra parte non è un segreto che lo stesso Matisse facesse indossare nell’atelier alle sue “odalische” francesi abiti tradizionali acquistati durante i suoi soggiorni in Marocco. «Le scene allestite dai pittori non sono che montaggi fondati su dei motivi classici, delle vere e proprie messe in scena», spiega la curatrice della mostra. «In realtà le odalische che vediamo nei quadri sono sempre e solo rimaste un’invenzione occidentale».

Il saggio Fromentin, comunque, nei suoi racconti di viaggio intorno alla metà del secolo, aveva avvertito: «Bisogna guardare questi popoli alla giusta distanza: gli uomini da vicino, le donne da lontano, la camera da letto e la moschea, mai». E Théophile Gautier, di ritorno da Costantinopoli, fu ancora più esplicito: «La prima domanda che si rivolge a un viaggiatore che torna dall’Oriente è questa: “E le donne?”. Ognuno risponde con un sorriso più o meno misterioso, secondo il suo grado di vanità, in maniera da far intuire un rispettabile numero di avventure. Per quanto costi al mio amor proprio, ammetterò umilmente che da questo punto di vista non ho da fare la minima indiscrezione».


Vasilij Kandinskij, Orientale (1909), Monaco, Städtische Galerie im Lenbachhaus und Kunstbau.

Poiché, dunque, non poterono conquistare le donne, i pittori si fecero sedurre dal sole. Quello delle città, con le loro forme geometriche, e quello dei deserti, con la loro monocromia. Tra i molti solo Renoir non fu tentato da quella luce nuova che faceva svanire le forme. Senza fare troppi chilometri e senza modificare la sua tecnica pittorica, nell’ultimo squarcio dell’Ottocento si fermò in un vallone alla periferia di Algeri, luogo incolto, dalla vegetazione inaccessibile, selvaggio come la proprietaria di un albergo nelle vicinanze frequentato dai soldati francesi (Paesaggio algerino, il burrone della donna selvaggia). Altri artisti si adagiarono su alcuni cliché della tradizione, quali le palme e i dromedari. Altri ancora, come Fromentin nel Paese della sete, si dedicarono alla descrizione delle sventure di carovane e popolazioni. I più “coraggiosi” affrontarono la luce del deserto che li accecava e cominciarono una semplificazione dell’immagine. I colori saranno sempre più raffinati e “puliti”, gli spazi sempre più piatti. Semplicità geometrica e luce diventano quindi le coordinate essenziali per Marquet e Muenier, così come per Kandinskij e Klee, questi ultimi ormai sul cammino dell’astrazione. Con Orientale, Kandinskij ha già abbandonato i dettagli realistici, anche se ancora si possono distinguere minareti e turbanti. Lo dipinge nel 1909, poco prima di rinunciare definitivamente alle forme per dedicarsi al colore puro.

Anche l’altro filone della mostra, quello dedicato alla figura umana e alle odalische, si interseca con quello dei paesaggi, modificando tecniche e orientamenti pittorici. Tanto che agli albori del nuovo secolo si tenderà sempre di più a spazi senza ombre, quindi meno profondi, a due dimensioni, anche se mai in questo settore si arriva all’astrazione. Odalisca di Gérôme è uno dei primi esempi di “appiattimento” della figura sullo sfondo di decorazioni orientali. Nel Bagno moresco di Jules Migonney la geometrizzazione è ormai evidente e Matisse nella sua Odalisca dai pantaloni rossi usa un vaso di fiori identico a quelli della carta da parati per appiattire l’immagine sulla tela. Ma è a Vallotton che tocca il merito di chiudere la lunga parentesi orientalista. Pur essendo un omaggio a Ingres, Il bagno turco che dipinge nel 1907 di orientale ha ormai solo il nome. L’atmosfera è fredda, bluastra; le donne, gli accessori, la stessa architettura non hanno più niente di esotico. Semmai prevale l’ironia con il muso del cane che sottolinea il profilo della signora bionda in primo piano. L’Oriente non è più un’ossessione, ma ha lasciato le sue tracce. Ora tutto è pronto: l’epoca moderna può iniziare.


Théo van Rysselberghe, Studio in Marocco. Veduta di Meknès (1877-1888 circa), Bruxelles, Musée d’Ixelles.

L’Orient des peintres, du rêve à la lumière

Parigi, Musée Marmottan Monet
a cura di Emmanuelle Amiot-Saulnier
fino al 21 luglio
orario 9-18, giovedì 10-21
catalogo Musée Marmottan Monet/ Edition Hazan
www.marmottan.fr

ART E DOSSIER N. 366
ART E DOSSIER N. 366
GIUGNO 2019
In questo numero: Le anime del Novecento: Kounellis: le radici; Lee Miller tra fashion e guerra. In mostra: Burri a Venezia, Haering a Liverpool, Lygia Pape a Milano. Rinascimenti in mostra: Verrocchio a Firenze, Il Mediterraneo a Matera. Il mito dell'odalisca: Orientalismi in mostra a Parigi.Direttore: Philippe Daverio