Grandi mostre. 4 
Antoon Van Dyck a Torino

VESTO
DUNQUE SONO

Il più elegante di tutti i pittori del suo tempo, Van Dyck, amava ritrarre§i più eleganti di tutti. Per questo divenne il ritrattista preferito della nobiltà italiana più ambiziosa, per trasferirsi poi a Londra e insediarsi a corte
da protagonista:bello, perfetto e internazionale.

Massimiliano Caretto

Yves Saint Laurent fu un autentico artista, un pensatore che ha segnato la storia del gusto e dell’arte del secolo scorso. Eppure, lui amava definirsi «nient’altro che un sarto», intendendo visceralmente vincolare la sua figura a quella del suo “oggettomondo”, trasformando al tempo stesso qualcosa in arte e qualcuno in oggetto, in un gioco di sovrapposizioni che portano a identificare l’uomo con la sua passione.
Ebbene, l’approccio con cui bisogna leggere Antoon van Dyck non è dissimile.
La mostra che da poco ha inaugurato a Torino è l’occasione perfetta per una riflessione sull’artista come specchio delle sue passioni, perché pochi artisti nella storia si sono così fortemente legati proprio a ciò che è raffigurato nella loro arte.
La rassegna, difatti, lo chiarisce subito con il sottotitolo «pittore di corte». Non semplice genio, artista barocco o ritrattista, ma proprio narratore di una “high society”, coi suoi pregi e i suoi difetti: le curatrici hanno ribadito questo approccio in tutti i modi e posto particolare attenzione a una meticolosa narrazione del suo rapporto con la committenza e con ciò che, di quel mondo, interessava a Van Dyck stesso.
Al suo titanico maestro, Pieter Paul Rubens, la mostra dedica volutamente poco spazio, quasi a volere - almeno per una volta - lasciare che il protagonista non sia l’istrionico “grande vecchio” del Barocco fiammingo, ma il suo più acuto allievo che, se non fu assoluto come Rubens, perfetto come Bruegel ed esplosivo come Jordaens, fu sicuramente il più elegante di tutti.
L’avvio-confronto è proprio tra il monumentale e ironico Carlo Doria a cavallo di Rubens e la serie di ritratti italiani di Van Dyck. Un rapido sguardo al Ritratto di Elena Grimaldi Cattaneo è più che sufficiente per vedere l’abisso che separa la gigantesca cavalcatura di Rubens dalla grazia ritmata e delicata di Van Dyck. Entrambi giungono in Italia per studiare la doppia classicità (quella antica e quella rinascimentale) e irrobustire le loro incertezze formali nordiche alla luce delle conquiste artistiche della penisola. Ma l’atteggiamento che hanno è completamente diverso. Rubens è in Italia principalmente per studiare e preferisce avere un approccio distaccatamente professionale con i numerosi clienti italiani, che rimarranno sempre un po’ diffidenti e tacitamente perplessi su quello che sentiranno come un Tiziano “mal riuscito”: sia chiaro, il sentimento è reciproco e basta vedere la deflagrazione fiammingheggiante che Rubens avrà al suo ritorno ad Anversa, dove esprimerà il suo meglio tra amici, mercanti, borghesi e soldi, tanti tanti soldi.
Anche Antoon è in Italia per studiare, certo: studiare come si fidelizzano i clienti. Ed è così che inizia un infinito elenco di teste coronate (o pseudo tali) alle quali Van Dyck gonfierà l’ego con ogni espediente artistico. Così i Bentivoglio, i Sale Brignole, i Balbi Durazzo, gli Spinola, tutti ritratti nella perfezione di chi non tollera l’ironia, specialmente su se stesso. Sono ritratti di propaganda e non potrebbero che essere tali: ciascuno cristallizzato con un lavoro di sottrazione volto a ridurre le persone a teste e mani che sorreggono i paramenti della propria persona. Se è vero che l’unica differenza tra l’uomo e le altre bestie è la necessità di vestirsi, allora possiamo apprezzare ancora di più l’immensa capacità di Van Dyck di concentrare tutte quelle qualità che piacevano ai suoi committenti. Così, di tela in tela, prende forma una galleria ideale di personaggi (e non persone) che animano un Seicento quasi manzoniano: un Condottiero terrore dei soldati; una Principessa terrore delle cameriere, un Cardinale terrore dei novizi. In tale senso, un vero peccato che sia assente in mostra quello che forse è il miglior ritratto italiano di Van Dyck, il Magistrato genovese, conservato a Berlino.

Cosa può volere di più, un potente,
se non un genio ammaestrato?

Nel giro di pochi anni, Van Dyck seppe crearsi così la fama di ritrattista perfetto, perché internazionale, dannatamente bravo dal punto di vista tecnico e, soprattutto, capace di stare sempre al suo posto. E cosa può volere di più, un potente, se non un genio ammaestrato? Prendete uno qualunque dei suoi più grandi colleghi contemporanei e potrete percepire perché le corti europee facevano a gara per assicurarsi un ritratto di Van Dyck. Scartati Rembrandt e gli olandesi (sozzi artigiani borghesi per gente borghese), i migliori italiani (troppo provinciali), Velázquez (con le sue cifre esorbitanti), non restava che il nostro gentiluomo di Anversa, utile anche come mediatore politico e ciambellano dei delicati cicalecci che, da una corte all’altra, erano funzionali a matrimoni, intrighi o semplici pettegolezzi.


Pieter Paul Rubens, Ritratto di Carlo Doria a cavallo (1606), Genova, Museo nazionale di palazzo Spinola;

Ritratto di Elena Grimaldi Cattaneo (1623-1624), Washington, National Gallery of Art.

Ritratto del principe Tommaso di Savoia (1634), Torino, Galleria sabauda;


Ritratto di Anton Giulio Brignole (1627), Genova, Musei di Strada nuova.

La mostra si trasferisce idealmente da Genova a Torino (molto ben strutturata la parte dedicata al rapporto coi Savoia), poi si passa al periodo anversano, in cui l’artista continua a concentrarsi su importanti committenze legate all’alta nobiltà internazionale, forse con minor capacità rispetto ad altri contesti: che la tremenda competizione sul mercato artistico di Anversa disturbasse un uomo così raffinato e riflessivo? Del resto, fu proprio Rubens a consigliargli di espandere i suoi orizzonti oltre Manica (consiglio benevolo o strategia di mercato?). Con la cancelleresca fase inglese, infatti, la mostra assolve definitivamente alla sua missione di offrire un quadro esaustivo su Van Dyck come migliore pittore di corte possibile e come artista assoluto del “vestito inteso come concetto esistenziale”.I suoi ritratti di Carlo I Stuart e della famiglia reale mostrano il raggiungimento della piena maturità stilistica e, forse, anche della completa soddisfazione professionale dell’artista, ora capace di esprimersi a un livello tale da preannunciare pienamente stile, tecnica e sensibilità del secolo successivo. A Londra è protagonista assoluto, lontano da ogni paragone internazionale e imparagonabile a qualsiasi artista locale; è veramente «gloria del mondo», come ebbe a definirlo lo stesso Carlo I.
Valga come esempio perfetto il Ritratto di John Belasyse, pienamente inglese per stile, fattura, committenza e contesto: l’opera raffigura l’affascinante giovane conte in un abbigliamento che combina elementi contemporanei e modaioli con dettagli fantasiosi, ispirati a un gusto revivalistico, creando così una figura romantica: allo stesso tempo cortigiano, eroe militare e avventuriero, secondo una visione tipica dell’Inghilterra stuartiana.
Certo, non mancano qua e là lungo il percorso espositivo anche i soggetti religiosi e mitologici, ma anche in questi casi è evidente quanto sia la “cultura materiale” a interessare all’artista. Là dove Van Dyck deve confrontarsi col paesaggio o con l’anatomia vera e propria, certo non è manchevole, ma sicuramente poco appassionato.

Ritratto di John Belasyse (1636).


L’abate Cesare Scaglia in adorazione del Bambino (1634-1635), Londra, National Gallery.


Ritratto di lady Venetia Digby (1663-1664), Milano, Palazzo reale.

I moti dell’anima sono comunque compensati dalla dolcezza con cui sono narrati i bambini, siano essi Gesù o i vari principi ereditari. In tal senso, una sintesi perfetta è la tela con L’abate Cesare Scaglia in adorazione del Bambino: al ritratto impeccabile dell’alto prelato si contrappone una Madonna incredibilmente delicata e realistica, tanto da far pensare a una modella dal vero. Più in basso, protagonista è il Bambino Gesù di angelica bellezza, castamente coperto da un candido lenzuolo di pregiata fattura.
Chiude idealmente la rassegna, quasi simbolica sintesi di tutto Van Dyck, il Ritratto di lady Venetia Digby, raffinata allegoria, saggio di stile e specchio del tempo, tutto in una sola opera.
La protagonista, lady Venetia Stanley, in Digby, era una nobildonna inglese che spese molto tempo saltabeccando da un’avventura galante all’altra, tanto da guadagnarsi la fama di cortigiana. Lord Digby, intellettuale e alchimista, se ne invaghì al punto di sposarla, come nella più classica delle trame. In seguito, la bella Venetia morì in circostanze poco chiare e, secondo alcuni, per colpa delle pratiche alchemiche del marito, il quale iniziò una vera e propria campagna di rivalutazione pubblica della fama di Venetia, sia per mezzo di opere letterarie a lei dedicate che, ovviamente, tramite la pittura di Van Dyck. La tela è un saggio perfetto di tutto quello che l’esposizione narra sull’artista: la bellissima Venetia è incastonata in un’apoteosi retorica dove, al suono dei versi di Giovenale «nullum numen abest, si sit prudentia», la lady trionfa su tutto, dall’Invidia all’Amor profano, dall’Ira alla Menzogna, in un modo tale che lo storico dell’arte Giovan Pietro Bellori, il secentesco feticista della retorica barocca, ne fece una descrizione esaltata e spassionata.
Dunque, a Van Dyck la palma di una vittoria certa, come pittore di corte per eccellenza.

ART E DOSSIER N. 362
ART E DOSSIER N. 362
FEBBRAIO 2019
In questo numero: Zerocalcare L'anima antagonista di una generazione in mostra a Roma. Avanguardie inattese. Astrattismo rinascimentale. Finestre surrealiste. In mostra : Picasso a Basilea; Bonnard a Londra; I kimono a Gorizia; Van Dyck a Torino; Rinascimento ticinese.Direttore: Philippe Daverio