La pagina nera 


E LO STATO
UN PO' FESSO
DISTRUGGE SE STESSO

di Fabio Isman

Palazzo Spreca, a Viterbo, con un ciclo di affreschi del Quattrocento, è al centro di un brutto caso.
Le pitture murali, staccate, chissà quando e da chi, ora sono di un antiquario e il luogo è diventato una palestra.
Eppure, tra leggi, vincoli e divieti tutto questo non sarebbe dovuto accadere.

Questa è una storia da non credere, tante sono le pubbliche omissioni, le strane dimenticanze e le sciatterie istituzionali; oltre, s’intende, agli interessi privati che, si sa, non mancano mai. Ne è teatro Viterbo, che, come tante città papali, in passato ha avuto grande sviluppo proprio per le vacanze dei pontefici. Un tempo Roma non era il regno soltanto loro, ma anche della malaria; per cui, specie nei mesi caldi, i papi se ne allontanavano portando seco l’intera corte, di almeno seicento persone: non poche, quando Roma ne vantava magari trentacinquemila («si sarebbero potute sedere tutte nel Colosseo», celiava lo studioso Robert Brentano). Per esempio, dei diciotto pontefici del Duecento, undici trascorrono oltre metà mandato lontano dall’Urbe, e i quattro francesi nemmeno la sfiorano; Innocenzo III, nato Lotario dei conti di Segni, a parte cinque anni per cause di forza maggiore, se ne sta quasi sempre altrove. Per quattordici volte, parte tra aprile e agosto; torna a ottobre, talora perfino a novembre. Così alcuni luoghi, nel Lazio e in Umbria (Orvieto, Ferentino, Anagni, Segni, Rieti, Todi, Tivoli, Narni, per citarne alcuni; anche Perugia), hanno avuto notevole sviluppo: si riempivano di palazzi, papali ma anche cardinalizi e di altre strutture; e poi, hanno spesso conservato un fiero decoro. A Viterbo, Domenico Spreca, figlio di Giovanni «priore e magistrato nel 1425», come specifica Simonetta Valtieri, ordinario di storia dell’architettura presso l’Università degli studi Mediterranea di Reggio Calabria, possedeva un bel palazzo, «inglobato poi nel monastero delle Convertite». È questo il luogo del misfatto.
Attorno al 1480, in un grande salone di sei per dodici metri, Paolo Spreca, che è il secondo per ricchezza a Viterbo e dona fondi per aiutare Paolo IV Carafa contro l’invasione degli spagnoli nello Stato pontificio, fa affrescare diciassette Virtù «non convenzionali ed etico-civili» (scrive Valtieri), circa trentasei metri di pittura, da un ignoto umbro-toscano. Verso il 1630, la sala diventa parte di un monastero; poi nasce pure la chiesa di Santa Maria Egiziaca: sull’altar maggiore, la Morte di Marco Benefial, oggi al Museo civico citatadino. Ha studiato tutti i documenti Fabiano Tiziano Fagliari Zeni Buchicchio, ispettore onorario della soprintendenza, in un volume edito da poco(*). Nel 1820, varie parti del convento, salone con le Virtù compreso, sono date in affitto. Nel 1870, nuove suore eseguono altri lavori. Poi, tutto passa al Fec, Fondo edifici per il culto; quindi, al Comune. Il che era lecito, se non vi fossero state parti d’interesse storico e artistico, e ne fosse stata garantita la destinazione a pubblica utilità, o beneficienza, come prescritto dalla legge del 1909. Per verificarlo, nel 1910, fa un sopralluogo Antonio Muñoz, storico dell’arte e architetto, allora ispettore della soprintendenza. Descrive il salone, il fregio, gli stemmi, le Virtù, un fontanile di peperino con le insegne degli Spreca. E, tre anni dopo, lo racconta pure nel “Bollettino d’arte”. Nel verbale, afferma che «affreschi ed edicola», di importante valore culturale, «debbono essere conservati sul luogo, e rispettati scrupolosamente». L’Intendenza di finanza è d’accordo.

Le immagini di questo articolo riguardano il ciclo di affreschi con le Virtù realizzate a palazzo Spreca, a Viterbo, da un ignoto artista umbro-toscano attorno al 1480. In apertura, la Giustizia.


Non è reato strappare affreschi dai muri
senza il consenso delle soprintendenze?


La cessione al Comune avviene sotto l’obbligo di «custodire e conservare scrupolosamente la grande sala [che] contiene pitture di grande importanza, nonché l’edicola al centro della parete. Il Comune si obbliga di non eseguire restauri senza l’intesa dell’ufficio regionale ai monumenti ». Nel 1928, suor Maria Dolores, a capo dell’Istituto, diventato del Buon Pastore, sottoscrive. Dieci anni dopo, il soprintendente informa il Comune che sta notificando il tutto. Per i danni nell’ultima guerra si eseguono dei lavori: del 1947 è una fattura al Genio civile per la ripulitura del fregio con le Virtù. Segue il buio fino al 2012, quando, alla Biennale dell’antiquariato di Roma, lo studioso Enzo Bentivoglio, docente all’Università di Reggio Calabria, identifica in vendita alcune di quelle Virtù.
Spiega Margherita Eichberg, l’attuale soprintendente per l’area metropolitana di Roma, Viterbo e l’Etruria meridionale: «Sono state staccate senza l’indispensabile permesso degli uffici di tutela; anzi, senza che questi nemmeno lo sapessero ». Un sopralluogo del 2009 della Soprintendenza ai beni architettonici rileva i lavori in corso ma non altro.
La chiesa di Santa Maria Egiziaca è diventata una palestra (si chiama Fanum, ma non è certamente un tempio o un santuario, come vorrebbe la traduzione dal latino); negli spazi del centro sportivo non è neppure possibile riconoscere l’antico salone Spreca che, diviso in due livelli, è stravolto; le pitture staccate, pilastri in cemento, spariti il fontanile e lo stemma di famiglia; nel 2012 l’ispettore individua alle pareti, ancora evidenti, i tagli verticali e orizzontali corrispondenti alle Virtù asportate; scomparsa poi «tutta l’intelaiatura di lesene monocrome dipinte e zone decorate a girali di foglie, sormontate da una cornice e da mensole collegate tra loro con ghirlande, sotto le travi del soffitto ligneo a lacunari», come scrive Simonetta Valtieri. Ricostruisce ogni cosa l’ispettore onorario Buchicchio.
Nel 1979, il maestro di sport Egidio Calistroni, già sollevatore di pesi e cintura nera di judo, ottiene in uso dal Comune l’ex chiesa, «per svolgervi attività sportive; vi esegue lavori sotto la sorveglianza e la direzione dell’ufficio tecnico comunale»; la soprintendenza non ne è informata. A fine anni Ottanta, lo sportivo acquista il complesso (per cento milioni, in due tranche), e riveste di legno le pareti del salone. Dal 1992, il Comune approva diversi progetti, che completano lo stravolgimento dell’ex chiesa e del salone dipinto. Appena lo sa, la soprintendenza sospende i lavori. Il proprietario Calistroni fa ricorso. Soltanto nel 2017 una sentenza del Consiglio di Stato dà torto ai Beni culturali, che eccepivano la nullità della compravendita dell’edificio. Informata del ritrovamento di due Virtù in vendita a Roma, la polizia provoca un altro processo: che però si è concluso a novembre 2018 con un’assoluzione generale; e con la restituzione dei dipinti sequestrati all’antiquario che li deteneva, Emo Antinori Petrini.
Dell’autore dei dipinti non sappiamo nulla. Un’ipotesi di Andrea Alessi, direttore del museo di Acquapendente (Viterbo), si colloca nell’ambito di Ottaviano Nelli, e «chissà se bisogna cercare più tra Umbria o Marche», dice Luisa Caporossi, della soprintendenza. Tutte le figure sono sedute su uno scranno, continua Simonetta Valtieri, «tranne l’Oratio, che appare visibilmente dipinta successivamente, nel XVII secolo, quando fu istituito il monastero delle Convertite, e il salone destinato a refettorio. Anche l’Auctoritas, che mostra uno stile diverso nel panneggio e nella ricercatezza dell’abbigliamento, ma soprattutto per la fattura dei lineamenti del volto, appare dipinta successivamente».
Di diciassette Virtù, ne sono rimaste appena quattordici. Viste di nuovo insieme una sola volta: tra il 2014 e il 2015, alla mostra Sacro e profano. Capolavori a Viterbo tra il Quattrocento e il Settecento, in cui Alessi le dispose nella chiesa di San Silvestro in piazza del Gesù, in alto, in modo suggestivo ed efficace, facendo capire come erano collocate.
Restano interrogativi forse vani: non è reato strappare affreschi dai muri senza il consenso delle soprintendenze? Poteva il Comune cedere l’immobile senza comunicarlo agli organi di tutela? I dipinti non erano già vincolati, per averne il ministero rilevato l’interesse nel 1910, o “ope legis”, perché appartenenti a un pubblico edificio? Uno specifico articolo della legge 1089 del 1939, ancora in vigore al momento dello strappo, tutela gli affreschi «anche se non sia intervenuta la notifica del loro interesse»: in questo caso, no?
Nel 2017, il Ministero ha tentato, in extremis e forse invano, di porre un nuovo vincolo: perché almeno le Virtù restino legate tra loro e non vadano disperse. Ma esistono immense probabilità che, adesso, lascino per sempre il luogo in cui furono dipinte; e la quasi certezza che non raggiungeranno mai quello più ideale per loro, un museo nella “città dei papi”, o nei suoi dintorni; che si tratti di un ulteriore atto di quello che un compianto studioso, Italo Faldi, definiva «il naufragio della pittura viterbese nel Quattrocento»: la città, «con la voracità dello scorrere dei tempi e la crudeltà degli uomini, è stata molto lacerata nelle più significative testimonianze storiche espresse con le arti», osserva Bentivoglio.
Eichberg spera ancora in un giudizio d’appello, in grado di «sanare una vicenda tra le più grottesche che mi siano mai capitate». Alessi dice: «È una tra le più brutte pagine della storia di Viterbo», e forse non solo della sua; pure della nostra: di chiunque abbia a cuore il patrimonio culturale del nostro paese. Ma non c’è qualcuno disposto a intervenire con doverosa urgenza?


Carità,

Sobrietà,

Autorità.

ART E DOSSIER N. 362
ART E DOSSIER N. 362
FEBBRAIO 2019
In questo numero: Zerocalcare L'anima antagonista di una generazione in mostra a Roma. Avanguardie inattese. Astrattismo rinascimentale. Finestre surrealiste. In mostra : Picasso a Basilea; Bonnard a Londra; I kimono a Gorizia; Van Dyck a Torino; Rinascimento ticinese.Direttore: Philippe Daverio