Grandi mostre. 3
Renzo Piano a Londra

I VASCELLI
DELL’ARCHITETTO

Leggerezza, luce naturale, armonia delle proporzioni sono imperativi categorici di Renzo Piano, rivoluzionario architetto che con pazienza e grande capacità di ascolto continua a realizzare progetti rispettando la cultura dei luoghi. Nato in una famiglia di imprenditori edili, ha nel suo dna la stoffa del costruttore, concreto ma anche poeta.


Valeria Caldelli

Quando, agli inizi degli anni Settanta, la Francia dette il via alla competizione per il recupero di una zona centrale e fatiscente di Parigi, Renzo Piano e il suo partner Richard Rogers ci pensarono a lungo prima di partecipare alla creazione del nuovo centro per l’arte contemporanea. Giovani architetti pressoché sconosciuti, alla fine trovarono il coraggio di presentare il loro progetto che si aggiungeva ai seicentottanta in lizza e che era l’unico a non prevedere, per la realizzazione dell’edificio, l’occupazione dell’intero spazio disponibile. La proposta di Piano e Rogers, infatti, lasciava libera la parte antistante la struttura per crearvi una grande piazza discendente, concepita come luogo di socializzazione, che avrebbe poi esortato i visitatori a entrare nel centro culturale. Un’idea quindi di museo come luogo di incontro contrapposto a una visione più tradizionale secondo la quale il museo, come una sorta di tempio, veniva eretto su un podio. Li chiamarono i “bad boys” e nei sette anni di costruzione del Centre Pompidou affrontarono critiche e polemiche di ogni tipo, ma al momento dell’apertura, il successo del Beaubourg (così chiamato dal nome della strada in cui si trova), superò il clamore: nel primo anno si contarono più visitatori che al Louvre e alla torre Eiffel messi insieme.

«Il Beaubourg fu una cosa buffa da fare, fu una provocazione », dice oggi Renzo Piano. Per la prima volta l’intero funzionamento di un edificio aveva spostato all’esterno la struttura portante, in acciaio, e i diversi elementi funzionali, ben visibili attraverso determinati colori: blu per i condotti dell’aria condizionata, giallo per quelli dell’energia elettrica, verde per i tubi dell’acqua, rosso per gli ascensori e le scale mobili. Alla base di questa struttura aperta, trasparente ed estremamente adattabile, c’era l’idea di un incrocio tra la vitalità di Times Square e la ricchezza culturale del British Museum, un luogo che doveva essere per tutti, di qualsiasi nazionalità, giovani e vecchi, ricchi e poveri. Com’è sempre rimasto.

Anticipare la struttura per guardare al futuro senza tradire la storia


Una riproduzione di colore rosso, a grandezza naturale, di una “gerberette” (trave a sbalzo) di quella «gioiosa macchina urbana» (come definì Renzo Piano il Centre Pompidou), pietra miliare della storia delle costruzioni, è ora esposta all’esterno della Royal Academy di Londra per annunciare la mostra che celebra l’architetto genovese, oggi leader del settore a livello internazionale e i cui edifici hanno arricchito le città di tutto il mondo. Renzo Piano: The Art of Making Buildings è il titolo scelto, perché lui, nato in una famiglia di imprenditori edili, oltre a essere un architetto, si sente un costruttore che nella sua bottega mette insieme pezzo dopo pezzo realizzando “cose” per la gente. Gli spazi della nuova ala della Royal Academy, recentemente inaugurati, ci offrono fino al 20 gennaio una panoramica della sua attività attraverso sedici progetti, a partire dal Beaubourg (1977) e dalle sue sperimentazioni giovanili, per toccare, tra gli altri, l’Auditorium Parco della musica a Roma (2002-2003), The Shard (La Scheggia) di Londra (2012), la Fondation Jérôme Seydoux-Pathé di Parigi (2014), il Whitney Museum of American Art di New York (2015), fino all’Academy Museum of Motion Pictures, attualmente in costruzione a Los Angeles. Mentre il cuore della mostra è un’“isola immaginaria” (realizzata con un plastico dal RPBW - Renzo Piano Building Workshop) in cui sono installati oltre cento modelli di progetti di Renzo Piano. Intorno a questa isola immaginaria si snoda un percorso che, passando attraverso materiali di archivio raramente visti, prototipi, fotografie e disegni, rivela il processo con cui sono stati creati dal geniale architetto alcuni degli edifici più noti. Come il modello di studio per la Menil Collection di Houston, dove venne sperimentato per la prima volta il modo di illuminare le opere d’arte attraverso la luce naturale, con le sue variazioni da stanza a stanza e da parete a parete, piuttosto che usare continuamente la luce artificiale. Perché la luce crea un senso di emozione ed è difficile da afferrare.


Jean-Marie Tjibaou Cultural Centre, Numea 1998.

Renzo Piano nel suo studio di Parigi (2015).


Il plastico realizzato con oltre cento modelli di progetti dell’architetto genovese.

«Vorrei che fossero vascelli che volano»
(Renzo Piano)


Una battaglia continua per Renzo Piano: «La luce è la vittoria sulla gravità e l’architetto passa tutta la sua vita a combattere la gravità, che è una delle leggi della natura più ostinate. Si lavora con materiali pesanti, come le pietre, l’acciaio, il vetro, che devono sembrare leggere e nello stesso tempo non devono cadere». Così la ricerca della leggerezza è una costante nei suoi progetti. «Vorrei che fossero vascelli che volano», spiega lui, che da sempre ama navigare e in mare trascorre le vacanze con la famiglia.

Dal centro culturale di Atene Stavros Niarchos sono invece arrivati a Londra i disegni originali, mentre del grattacielo che ospita il “New York Times” si vedono alcuni esempi delle trecentosessantamila barre di ceramica bianche, singole componenti di un processo costruttivo utilizzato per mantenere l’equilibrio delle proporzioni, altro motivo guida delle “regole” di Renzo Piano. Che ammonisce: «Le dimensioni sono il peggior errore di un architetto. Una struttura non deve essere troppo piccola o troppo grande, oppure contestualmente sbagliata. Tutto il resto si può controllare in corso d’opera, ma non le proporzioni. Quindi è imperativo studiare prima profondamente ogni singola componente di un progetto».


Fondation Jérôme Seydoux- Pathé, Parigi 2014.

Nominato senatore a vita dal presidente Giorgio Napolitano, insignito di numerosi premi, medaglie e titoli accademici, ha fondato il già citato Renzo Piano Building Workshop che ha sedi a Genova, Parigi, e New York con un team di centocinquanta architetti. Un’avventura cominciata da alcuni decenni che ha avuto un impatto fondamentale sulla moderna architettura delle città e dalla quale, più che uno stile, è nato un metodo, quello di capire il contesto e ascoltare la gente per anticipare la struttura che nascerà, per guardare al futuro senza tradire la storia. È così che prima di ogni progetto, Renzo Piano trascorre alcuni giorni nel posto prescelto, ne ricerca lo spirito, il «genius loci», come lui lo chiama. E poi, una volta terminata la costruzione, ci torna in incognito per vedere se chi la frequenta ha volti soddisfatti, felici. Ma Piano, portando sulle spalle l’eredità familiare, sa benissimo che l’architettura resta un’utopia se non può essere realizzata. Lui, che ama essere chiamato costruttore, ha un confronto continuo e importante con gli ingegneri. «Tecnologia non è una brutta parola», sottolinea, «c’è bisogno della tecnica. E i computer mi piacciono, perché mi piace l’idea che si possano scambiare informazioni così velocemente». Sognatore sì, ma pragmatico, dunque. Oppure costruttore poetico, perché «l’architetto è un buffo misto e deve essere anche poeta e umanista, così da capire perché fa una certa cosa».


Centro Botín, Santander, 2017.

Tutto, dunque, pur nelle molte diversità, ruota intorno agli stessi principi, quelli del valore sociale di un progetto, dell’uomo come primo protagonista, della supremazia della luce naturale, dell’innovazione che “ascolta” il passato e rispetta l’ambiente. E Renzo Piano si spiega così: «C’è un dialogo silenzioso tra tutti i progetti esposti alla Royal Academy, un “fil rouge” chilometrico che tiene tutto insieme. Guardando la mostra scopri che questa connessione esiste e che non ha a che fare con lo stile, bensì con la coerenza». Ma c’è qualcosa di più del fil rouge. C’ è qualcosa di impalpabile che si può sentire, ma non vedere. Più che l’architetto, ora parla il filosofo: «Spero che in questa mostra troverete anche ciò che non è “costruzione”. Vorrei che fosse “poesia”. Certo, la poesia è difficile, ma necessaria perché è con quella che scrivi un messaggio. A volte ci arrivi vicino, ma afferrarla è arduo, forse perché non esiste, come la leggendaria isola di Atlantide. Diceva un mio amico filosofo “Ho raggiunto spesso le porte del tempio, ma non ci sono mai entrato”. A me sembra importante riuscire a raccoglierne almeno qualche frammento». Ha detto di lui Roberto Benigni: «Amo Renzo Piano perché in alcuni dei suoi edifici persino la pietra più piccola è pervasa di infinito».


Whitney Museum of American Art, New York 2015.

Renzo Piano: The Art of Making Buildings

Londra, Royal Academy of Arts
a cura di Kate Goodwin, Renzo Piano con Renzo Piano Building
Workshop and la Fondazione Renzo Piano
fino al 20 gennaio
orario 10-18, venerdì 10-22
catalogo Royal Academy of Arts
www.royalacademy.org.uk

ART E DOSSIER N. 361
ART E DOSSIER N. 361
GENNAIO 2019
In questo numero: La Zingara infelice. Una lettura per la Tempesta di Giorgione. In mostra: Cai Guo-Qiang e Urgessa a Firenze, Renzo Piano a Londra, Gio Ponti a Parigi, Klee a Milano, Lotto nelle Marche. Europa di contrasti. Poveri e girovaghi nell'arte olandese del XVII secolo. Il linguaggio internazionale degli scalpellini medievali.Direttore: Philippe Daverio