Indiscutibile per i critici d’arte, ma a tratti snobbato dai collezionisti, Antoon van Dyck (1599-1641) fa la fortuna dei musei che espongono le sue opere. Richiamano pubblico specialmente i ritratti di grande dimensione, in cui lo studio psicologico del soggetto si rivela in qualche dettaglio che niente toglie alla generale impressione di eleganza informale che ha fatto scuola per secoli. Ma anche gli altri suoi quadri, casomai a carattere religioso, creano forte coinvolgimento e impatto emotivo grazie alla maestria nella gestione del colore e della luce. Morto poco più che quarantenne, Van Dyck fece in tempo a muoversi in lungo e in largo fra Fiandre, Inghilterra e Italia sulla scia di una fama crescente e ricche committenze, per cui non deve meravigliare se produsse un buon numero di quadri e di disegni, di cui alcuni possono ancora essere acquistati sul mercato.
Aprì presto una bottega con Jan Bruegel, poi divenne allievo e quasi imitatore di Rubens, finché soprattutto nel suo periodo italiano sviluppò autonomamente una particolare capacità nel ritratto. In rari casi dipinse se stesso, come in una tela del 1640 offerta da Sotheby’s di Londra nel lontano 9 dicembre 2009. L’artista appare lì ben conscio del proprio talento, dopo anni da pittore di corte con Carlo I d’Inghilterra e di rapporti stretti con la nobiltà locale, con cui si era legato anche grazie a un matrimonio ben combinato. Mancano i segni distintivi del rango: nel paese cominciavano a soffiare i venti di guerra civile che avrebbero portato alla fine di Carlo I e degli Stuart e all’ascesa di Cromwell.