La pagina nera

LA MEMORIA SENZA GENTE
SI TUTELA POCO O NIENTE

Nei nostri archivi il patrimonio aumenta ma il personale diminuisce. E non basta certo un concorso per cinquecento posti per risolvere la situazione. Da Nord a Sud il numero degli addetti si è sensibilmente ridotto. E nelle biblioteche? Non ne parliamo. Cultura e storia non sono forse un business interessante?


di Fabio Isman

Gino Famiglietti, sessantasei anni, è il direttore generale degli archivi del Ministero per i beni culturali, cioè di un patrimonio immenso; quasi centocinquanta istituti o sezioni sparsi in Italia; milioni di visitatori e studiosi; milioni e milioni di documenti: il più antico, una pergamena del 721, conservata a Milano, e del XII secolo la prima documentazione su carta, assai rara; quasi due milioni di metri lineari di documenti con tutta la storia di quanto è avvenuto nella penisola durante i secoli. E questo nostro immenso tesoro continua a impinguarsi. Famiglietti elenca le acquisizioni più recenti: è iniziato l’esproprio dell’Archivio dei fratelli Rosselli (l’ultima confisca risale al 1985: qui, solo uno dei tre proprietari non intenderebbe cedere la propria parte), e compiuto quello delle “carte” di Giorgio Vasari, che stanno ad Arezzo.

Acquisita dallo Stato, dai discendenti, l’ultima “tranche” dei documenti che erano di Baldassarre Castiglione (gli altri già gli appartenevano), per oltre un milione di euro: ci sono dei suoi autografi, e anche l’originale della lettera di Raffaello a papa Leone X (Giovanni di Lorenzo de’ Medici), il primo seme della tutela. E ora il Ministero tratta l’acquisto dell’Archivio di Luigi Federzoni, autorevole ministro del governo Mussolini, «c’è anche la minuta del verbale del 25 luglio [1943], non presente nemmeno nello studio di Renzo De Felice, il maggiore studioso del fascismo».

Ma mettiamo un punto qui: perché la situazione dei nostri archivi non è tutta rose e fiori; anzi. Il personale, infatti, è clamorosamente insufficiente. È in svolgimento un concorso per cinquecento posti, ma è una piccola panacea: «Ogni anno», dice Famiglietti, «vanno in pensione un migliaio di dipendenti». Le statistiche sono abbastanza impietose: al Nord, certificano la mancanza di un terzo degli addetti negli organici, e anche il Mezzogiorno e le isole sono in crisi. Recentemente, alla richiesta di un documento, l’Archivio di Stato di Mantova ha obiettato che «il servizio di fotoriproduzione è chiuso, per il pensionamento dell’addetto» e il personale manca: nove presenze, sulle venti previste. Poi, però, la direttrice ha sopperito a qualsiasi carenza: con il suo smartphone ha fotografato alcuni documenti richiesti e li ha mandati a chi li domandava. Siamo quasi nel campo del volontariato, più che del corretto svolgimento di un servizio, la cui possibilità è negata.


Negli archivi siamo quasi nel campo del volontoriato


La carenza di personale non è analoga in tutte le funzioni: «A noi, manca chi vada nei depositi a prelevare i faldoni, e poi li archivi di nuovo, una volta che sono stati consultati», dice Eugenio Lo Sardo, direttore (fino al termine del 2018) di quello Centrale dello Stato; infatti, ha dovuto “arruolare” quattro persone: due da Ales, società “in house” del Ministero, e due da una azienda privata. L’Archivio centrale, che riunisce i documenti del periodo fascista e del dopoguerra fondamentali in mille ricerche, non si è ancora ripreso dai tagli all’organico decisi, per tutti gli istituti, nel 2015: da centosettantasette persone, è sceso a centotrentatré: una riduzione pari a un quarto degli addetti.


Uno dei due cortili dell’Archivio di Stato di Milano nel Palazzo del Senato.

Poi, le nuove tecnologie e le più recenti disposizioni, se semplificano il lavoro degli utenti, aggravano le fatiche degli addetti. Ora, chiunque può fotografare i documenti con il proprio “telefonino”. E così evidentemente aumenta il numero dei “faldoni” che ciascuno può consultare: prima si doveva leggere ogni documento e scegliere quali farsi riprodurre; adesso, si “sparano a raffica” le immagini, si portano a casa, e magari si studiano con comodo. «Oggi, noi movimentiamo sessantamila faldoni ogni anno: infinitamente più di prima», spiega Lo Sardo. Ma se l’Archivio centrale, uno dei “cuori” della Repubblica, non può ridere, c’è pure chi può soltanto piangere. In quello di Firenze, su cinquantanove persone previste, ne mancano trentacinque, e gli archivisti, che dovrebbero essere sedici, sono appena la metà. A Napoli, al lavoro in quarantatre su sessanta; a Ferrara, ci sono la metà dei sedici dipendenti; quasi altrettanti a Siena, dei ventitre che la tabella degli organici prevede.

Non è questione di superlavoro: in alcuni archivi, l’estate scorsa, è stato necessario chiudere provvisoriamente le sale di studio; all’Archivio centrale, aperte su richiesta nel mese di agosto: per speciali necessità, o per concludere qualche ricerca. Insomma, è evidente che la mancanza degli addetti si ripercuote anche sui visitatori e sugli studiosi. Oltretutto, ne mancano maggiormente proprio nel ruolo di tecnici: oltre trenta nel Centro Italia; altrettanti nel Mezzogiorno e nelle isole; perfino un quarto al Nord, con il trentotto per cento di quanti sono addetti alla vigilanza. Ma anche tra i funzionari, al Nord la carenza è quasi di quattro ogni dieci previsti.

Tutelare la nostra memoria collettiva, e permettere la consultazione dei documenti che ne sono la testimonianza, cioè la conoscenza (questo è il compito degli archivi), in queste condizioni è davvero assai proibitivo. Lo stesso nuovo ministro dei Beni culturali, Alberto Bonisoli, si è subito reso conto che la mancanza di personale costituisce uno tra i maggiori “deficit” del suo dicastero, con quella, verosimilmente, delle risorse economiche. Il ministero è sotto l’organico di 3.260 persone, di cui 23 dirigenti; fino al 2021, calcola il ministro, la penuria salirà a 4.431 dipendenti, di cui 39 dirigenti; e, con una «stima prudenziale», nei tre anni successivi, si accrescerà di altre 3.500 persone. Per questo ne ha chieste al governo 4.377.


Alcuni fogli della lettera di Raffaello a papa Leone X, acquistata dallo Stato, insieme ad altri documenti di Baldassarre Castiglione.

Per ora, però, alla situazione perniciosa degli archivi si aggiunge quella delle biblioteche. Secondo la Cgil, in tutto il Ministero non mancano tremila, ma oltre cinquemila delle venticinquemila unità previste: circa un quinto dell’organico; un terzo però alla Biblioteca centrale di Firenze: quasi cinquanta delle centocinquanta persone che dovrebbero esserci. Non solo: non troppi anni fa, il numero delle assegnazioni del personale è stato rivisto e, ovviamente, diminuito; così, l’istituto fiorentino, che nel 1997 possedeva quattrocento dipendenti, è passato a duecentottanta nel 2002, e agli attuali centoquarantanove: il rischio è che il direttore Luca Bellingeri sia costretto a chiudere almeno alcune sale di studio. Qui il rimedio escogitato è di rivolgersi ad alcuni giovani del servizio civile, al lavoro, tuttavia, soltanto temporaneamente.

E piange, eccome se piange, anche la sua più antica “consorella”, la biblioteca di Roma, prima di quelle nazionali a essere costituita, nel 1876. Vi esistevano gli “scontrinisti”: una cooperativa di giovani che, da anni, si occupava della distribuzione e ricollocazione dei libri. Si chiamano così perché erano pagati (pochissimo) soltanto con un rimborso spese: 400 euro al mese, giustificati appunto con le ricevute di bar, tavole calde, trattorie e simili; era stata stipulata una convenzione.


Quando non è stata rinnovata, ha messo in crisi la struttura. Poi, si è tentato di aprire un Bar Librò: è durato meno di un anno; oggi ci sono soltanto dei distributori automatici di caffè, bibite e panini magari stagionati. Eppure è la più grande biblioteca italiana: possiede sette milioni di libri, duemila incunaboli, venticinquemila “cinquecentine”, ottomila manoscritti, un milione e trecentomila opuscoli: non sarebbe degna di maggiori attenzioni? Alcune categorie di libri sono disponibili soltanto «su prenotazione».

Siamo d’accordo: la cultura che archivi e biblioteche producono e diffondono è un bene immateriale, e difficilmente misurabile; queste strutture non generano redditi diretti. Però, sono tra i fondamenti del nostro essere quotidiano. È la cultura che essi contengono a renderci diversi da chiunque altro; i loro documenti e i loro libri sono la genesi della nostra civiltà. E, ovviamente, anche un “topos” della letteratura di tutti i tempi: da quella «da toilette» del Giorno di Giuseppe Parini, a quella «di Babele» di Jorge Luis Borges, con le sue sale esagonali e i volumi tutti di quattrocentodieci pagine, in cui si cerca quello che contiene la Verità, una grande metafora dell’universo intero. Ce ne vogliamo, per favore, ricordare un po’ più spesso?

ART E DOSSIER N. 359
ART E DOSSIER N. 359
NOVEMBRE 2018
In questo numero: Laboratorio futuro - Gli scenari di Adelita Husni-Bey; Nuovi spazi per l'arte - In Cina, nelle Fiandre, in Lucchesia; Medioevo inquieto - Maria protettrice: un'iconografia fortunata In mostra: Picasso a Milano; Chagall a Mantova; Ghiglia a Viareggio; l'Oceania a Londra; Brouwer a Oudenaarde; da Tiziano a Van Dyck a Treviso.Direttore: Philippe Daverio