Musei da conoscere
Il Suzhou Museum in Cina

GIOCHI DI FORME
E DI LUCE

In quel che resta di un’antica dimora nobiliare cinese sorge il Suzhou Museum, il museo archeologico e storico-artistico della città di Suzhou, riprogettato, nella sua forma attuale, dall’architetto Ieoh Ming Pei e inaugurato nel 2006. Uno spazio, in armonia con tradizioni e ambiente, che ha fatto dell’essenzialità il fulcro della propria bellezza.


Alessio Costarelli

In Cina esiste un detto: «Il cielo ha il Paradiso, la terra Suzhou e Hangzhou». In effetti queste due città, antiche capitali pre-imperiali e oggi diversamente candidate a rappresentare alcuni aspetti delle nuove anime (quella turistica e quella dell’industria tecnologica) di un paese in rapida crescita ed evoluzione, furono in passato veri e propri “templi” della civiltà cinese dei giardini; e ancora oggi Suzhou fa dei suoi magnifici giardini - seppur quasi interamente ricostruiti dopo l’ultima invasione giapponese (1937-1945) - la prima attrazione turistica del luogo, perno di uno sviluppo economico che punta a compensare e superare il declino della parabola manifatturiera che, fino ad anni recenti, ne aveva garantito la prosperità.

“Venezia d’Oriente”, lungo i suoi canali Suzhou (e con essa Hangzhou, donde parte il “Canal grande” che si estende fino a Pechino) ha in parte conservato anche molti esempi dell’architettura popolare tradizionale, oggi sotto tutela dello Stato: case basse, perlopiù affacciate su corsi d’acqua, dalle pareti candide per l’intonaco reso brillante da un sole spesso generoso di luce e dalla contrastante incorniciatura scura di tetti coperti da tegole grigie. Incastonato in mezzo a questo contesto di fronde, acqua ed embrici, sorge quel che resta di un’antica dimora nobiliare, lo Zhong Wang Fu, restaurata nel 1960 per ospitare il locale museo archeologico e storico-artistico (Suzhou Museum), punto di riferimento per lo studio della civiltà Wu, uno dei regni più floridi e raffinati della Cina antica.

Le linee e le forme si intersecano fino alla sommità del camino di luce


Lo sviluppo economico cinese degli ultimi venticinque anni ha tuttavia innalzato le ambizioni del paese così come della municipalità di Suzhou, sicché alla fine degli anni Novanta la necessità di rinnovare e ampliare il museo si fece impellente per elevarlo a secondo fondamentale fulcro turistico cittadino.

Del progetto fu incaricato Ieoh Ming Pei, celebre architetto cinese naturalizzato americano, classe 1917, Pritzker Prize 1983, cresciuto in quegli stessi spazi ove, a distanza di ottant’anni, avrebbe costruito un nuovo museo, senza dubbio uno dei suoi capolavori. Discendente di una nobile famiglia di Suzhou, Pei trascorse l’infanzia nel cosiddetto Giardino del leone della foresta, oggi interno al complesso museale, prima di trasferirsi a Shanghai, Hong Kong e alla fine degli anni Trenta negli Stati Uniti, ove completò la sua formazione e avviò la propria carriera.


Nonostante l’età avanzata, la scelta di Pei come architetto per l’ampliamento del museo non poteva essere più felice, non solo per ragioni di orgoglio nazionale. Già più volte cimentatosi con conclamato successo nell’architettura museale, in particolare a partire dagli anni Novanta - suoi sono, tra gli altri, la celeberrima e discussa Piramide del Louvre (1989), la Rock and Roll Hall of Fame di Cleveland (1995), la nuova ala del Deutsches Historisches Museum di Berlino (2003) - il suo stile essenziale e luminoso era tra i pochi che potesse dar vita a un’architettura in armonia con l’ambiente circostante (dove anche gli altri elementi avevano pari valore) piuttosto che a un edificio-opera come protagonista assoluto. Il nuovo ampliamento dello Zhong Wang Fu si innesta infatti in un contesto architettonico marcatamente tradizionale che, insieme ai giardini, rappresenta il vero nucleo di attrazione turistica e come tale non può essere surclassato nell’economia di una generale riorganizzazione urbanistica del lotto.


Un particolare del museo nel Novecento.

Pei non si è infatti limitato a costruire un museo, ma ha letteralmente ridisegnato un intero comparto urbano, dotandolo di un arredo originale: si pensi solo all’illuminazione, punto d’incontro tra le tradizionali lanterne cinesi e il geometrismo tipico della sua opera. D’altra parte, la stessa architettura tradizionale che egli doveva rispettare e aggiornare lo ha condotto naturalmente a prediligere uno sviluppo prevalentemente orizzontale: l’architettura palaziale cinese, così come quella templare, ha sempre mantenuto l’impostazione tipica in uso in molte civiltà antiche, ossia l’addizione di edifici tangenti o collegati da portici, a formare un dedalo di ambienti di sosta o disimpegno, di aule e stanze alternate a cortili e giardini, apparentemente irregolare ma in realtà rispondente ai percorsi e alle funzioni interne degli spazi. Un’attitudine progettuale propria anche dei palazzi cinesi (Città proibita, Gong Wang Fu e tempio Lama a Pechino; tempio Hualin a Fuzhou; monastero Wenshu a Chengdu ecc.), nei quali gli edifici sono organizzati attorno a un asse longitudinale lungo il quale si allineano spazi costruiti e spazi aperti.

La nuova ala del Suzhou Museum (inaugurata, come il resto dell’edificio, nel 2006) non è organizzata lungo un asse centrale, ma tende in parte a riprodurre la disposizione delle abitazioni nei quartieri tradizionali cinesi. Il museo è dominato dalla bicromia bianco/grigio che, se da un lato mimetizza l’intera costruzione nel contesto urbano, dall’altro esalta la sua geometria formale che più di ogni altra cosa dichiara, con sobria eleganza, la modernità delle strutture. Pei costruisce ciascuna parte del complesso attraverso figure geometriche semplici (triangoli, quadrati, rettangoli, esagoni), componendole come in un gioco di costruzioni attraverso una depurazione progressiva del linguaggio dei dettagli e delle forme, secondo un’estetica che fa del prosciugamento del segno il proprio cardine. La centralità della geometria è ribadita dall’uso dei materiali, governato dalla bicromia: le candide pareti dei blocchi costruiti sono riquadrate negli angoli e negli spigoli da strisce di granito scuro, ripreso poi anche nelle coperture, in un continuo gioco di incontri, incastri e intersezioni di linee.


Un esempio dell’architettura tradizionale che circonda oggi il museo.

Eppure, anche questa perfetta regolarità geometrica è contraddetta da minuti, improvvisi movimenti: così, entro il generale gioco di simmetrie, su un’ampia parete pentagonale può aprirsi una finestra esagonale in una posizione decentrata; o sulla sommità di alcuni tetti, uno dei due spioventi si allunga a formare, per l’intera lunghezza dell’edificio, un lucernario; oppure la parte superiore (un parallelepipedo cavo) di una delle tre “torri” a croce - quella centrale che accoglie l’atrio del museo - si presenta ruotata di quarantacinque gradi rispetto alle altre perché elevata su un tamburo composto da quattro triangoli invece che da quattro elementi quadrati. Queste variazioni formali trovano la loro primaria ragion d’essere non tanto nell’estro progettuale, quanto nella necessità di ricavare fonti di luce diretta per gli interni: è così che nel gioco cromatico dei materiali irrompe la neutra trasparenza del vetro, funzionale alla policromia negli interni.


Oculi rifiniti da cornici che sembrano “quadri” dove protagonista è il paesaggio


Finestra a forma di oculo geometrico.

Con la geometria, la luce è l’altro tema fondamentale dell’architettura di Pei: come in molti altri suoi edifici, essa non è mai una forza libera di penetrare e pervadere le strutture, bensì sempre orientata, franta, sfumata, perfino adombrata, materiale immateriale da combinare cromaticamente con gli altri, fattore dominante nell’atmosfera degli spazi interni. Inoltre, la destinazione stessa del complesso architettonico a museo impone, per la conservazione dei reperti, di trovare soluzioni per una luce diffusa e indiretta. I molteplici lucernari variamente disposti nei singoli edifici rispondono a questa esigenza, trovando nella variazione di forme e materiali la chiave interpretativa ottimale: le superfici vetrate sono a volte lasciate nude e a volte coperte da frangisole lignei, affinché la luce venga filtrata e uniformemente rifratta dalle pareti bianche, a loro volta rivestite (o anche solo incorniciate) nelle sale espositive col medesimo legno, presente anche nelle teche. Il vero trionfo dei giochi di luce si ha però negli atri, nei corridoi, nelle scale e in generale in tutti gli ambienti di collegamento o disimpegno, ove le pareti sono bianche oppure, se comunicanti con i cortili, i giardini e gli stagni, talora interamente composte da vetrate.

La scenografia spaziale interna si fonda sulle aperture degli ambienti verso l’esterno attraverso finestre, perlopiù in forma di oculi geometrici, che rappresentano un’innovazione rispetto alle tradizionali finestre cinesi, spesso concave e chiuse da grate. 


Particolare del corridoio laterale dell’atrio d’ingresso.

Oculi rifiniti da cornici che sembrano “quadri” dove protagonista è il paesaggio, parte integrante dell’essenza intima di tale architettura. Il capolavoro formale di quest’opera è senza dubbio l’atrio d’ingresso, a pianta ottagonale, corrispondente alla più piccola delle tre “torri”, in cui le linee e le forme si intersecano senza sosta, ascendendo e restringendosi fino alla sommità del camino di luce. Più che altrove, in questo ambiente i frangisole lignei giocano un ruolo prima di tutto cromatico e secondariamente funzionale, creando un ritmo dinamico nell’alternanza tra cornici nere e tamponamenti bianchi. In questo gioco compositivo entrano anche le lame di luce create dalle finestre non schermate, che proiettano sulle pareti forme diverse a seconda delle ore del giorno, mentre sullo scuro pavimento a specchio la geometria variabile dei corpi tridimensionali viene ricondotta alla bidimensionalità in un disegno di quadrati inscritti e ruotati l’uno nell’altro.

La perfetta consonanza estetica che Pei è riuscito a instaurare tra la nuova ala del Suzhou Museum e il contesto urbano riesce a inserire armonicamente nella cultura architettonica cinese un complesso i cui modelli di riferimento sono in larga parte occidentali, statunitensi, ma con uno spiccato interesse per talune esperienze del Novecento europeo.

Se dunque le trasparenze ottenute tramite l’uso del vetro rimandano alla lezione di Ludwig Mies van der Rohe, l’accentuato geometrismo ricorda il neoplasticismo olandese reinterpretato nella semplice bicromia bianco/grigio, mentre le cornici scure che sottolineano angoli e spigoli dei volumi ricordano il Palais Stoclet di Josef Hoffmann a Woluwe-Saint-Pierre (Belgio), ma anche le Prairie Houses di Frank Lloyd Wright (ispirate a loro volta alla tradizione giapponese).


L’idea così proposta della geometria quale fondamentale principio ordinatore, infine, può avvicinare (pur con tutte le differenze del caso) il Suzhou Museum all’opera di Louis Isadore Kahn, echeggiata anche nella netta distinzione tra spazi serventi e spazi serviti.

Tutte queste suggestioni sono qui reinterpretate in una sintesi originale, che riesce a trovare un dialogo felice con il più antico contesto urbano e paesaggistico tradizionale: una capacità che forse Pei ha avuto modo di acquisire proprio osservando l’opera di Wright e delle sue architetture «organiche», secondo la celebre definizione coniata da Bruno Zevi. La conoscenza diretta della sua opera è stata una fonte d’ispirazione potente per l’architetto cinese, tanto più che vi ritrovava molti elementi di una cultura architettonica affine, quella nipponica. Della sua prolifica produzione, certamente è la capacità di stabilire un dialogo armonico con il contesto urbano e paesaggistico una delle lezioni che Pei assimila e rielabora in maniera originale, declinandola in particolare nelle sue opere più tarde: si pensi per esempio al Miho Museum (1997), perfettamente calato nel contesto naturale nei dintorni di Shigaraki (Kyoto) e in cui sono anticipate alcune soluzioni poi riprese e sviluppate a Suzhou, a sua volta imprescindibile punto di partenza per la riflessione sul Museo d’arte islamica (2008) di Doha (Emirati Arabi). A differenza del modello wrightiano, che cerca un costante dialogo tra interno ed esterno, quello di Pei è ciò che potremmo definire “organicismo culturale” che trova nel dialogo con la cultura figurativa e architettonica in cui opera la propria fonte principale: perché l’architettura è sempre, prima di tutto, un’ambientazione culturale.

Suzhou Museum
Suzhou (Cina)
www.szmuseum.com

ART E DOSSIER N. 359
ART E DOSSIER N. 359
NOVEMBRE 2018
In questo numero: Laboratorio futuro - Gli scenari di Adelita Husni-Bey; Nuovi spazi per l'arte - In Cina, nelle Fiandre, in Lucchesia; Medioevo inquieto - Maria protettrice: un'iconografia fortunata In mostra: Picasso a Milano; Chagall a Mantova; Ghiglia a Viareggio; l'Oceania a Londra; Brouwer a Oudenaarde; da Tiziano a Van Dyck a Treviso.Direttore: Philippe Daverio