Outsiders


MONACO, BUDDISTA,
SURREALISTA

di Alfredo Accatino

Un viaggio alternativo nell’arte del Novecento, alla riscoperta di grandi artisti, di opere e storie spesso dimenticate: Harue Koga

Sapete cos’è una faglia? È la frattura che avviene in un corpo roccioso quando il materiale, sottoposto a sforzo, per esempio a causa di un terremoto, supera il limite elastico e raggiunge il punto di rottura. Così terreni che originariamente sono alla stessa quota vengono a trovarsi a livelli differenti, e terreni diversi per età e caratteristiche litologiche spesso vengono messi a contatto. Ebbene, alla fine del periodo Meiji (1868-1912), alle soglie del nuovo secolo, era proprio ciò che stava succedendo in Giappone. Da una parte della spaccatura la tradizione, dall’altra, l’innovazione. E chi si trovava in mezzo, rimaneva schiacciato. Il progresso era incarnato dalla tecnologia, che l’Occidente sbatteva in faccia con tracotanza a tutte le altre nazioni nelle grandi esposizioni internazionali. Un’innovazione che la “ragione di Stato” imperiale aveva compreso come scelta ineluttabile, e che aveva imposto in pochi anni con la forza, arrivando addirittura a prendere a cannonate, nella battaglia di Shiroyama, gli ultimi samurai ribelli, l’antica aristocrazia, che si lanciarono contro l’esercito, armati solo di spade e archi.

In un quarto di secolo forze armate, industria pesante, trasporti, ma anche gli stili di vita avevano compiuto un balzo in avanti inimmaginabile, trasformando un paese feudale e agricolo in una delle grandi potenze economiche del proprio tempo. Ma se il business rende più semplice accettare i cambiamenti, molto più duro è invece essere accettati come progressisti in un campo come le arti visive, rimaste immutate per centinaia di anni. Fu questa l’opera di un manipolo di arditi pionieri, tra artisti, architetti, fotografi e designer, limitati per numero, osteggiati dalla cultura dominante, di elevatissima qualità. La loro vita nel periodo compreso tra il primo e il secondo conflitto mondiale fu difficile, proprio perché volevano ricollegarsi a linguaggi e valori stranieri, anzi “universali”, che negavano però le radici artistiche stesse della nazione, e quindi erano considerati ostili. Di conseguenza, erano malvisti in patria, e come spesso succede, sottovalutati all’estero.

Bravi ragazzi, ma un po’ sempliciotti, accusati di inserire caoticamente nelle proprie composizioni, codici delle avanguardie e riferimenti al mondo occidentale. A ben vedere quello che fa oggi chiunque, grazie alla rete e alla condivisione dei saperi, ricreando e ricomponendo, sino a dargli nuova forma, informazioni, idee, immagini. Ora, mettetevi nei panni di un giovane, figlio del capo sacerdote di un antico tempio buddista, che anziché seguire le orme paterne, come prevede la tradizione, gira per il porto di Tokyo facendo incetta di riviste occidentali di arte, moda o tecnologia, che ritaglia, conserva, riassembla. Non per cercare di scoprire l’arte classica, ma per ricreare direttamente il clima delle avanguardie. Ecco, questa è la storia di un giovane, divenuto monaco buddista, che ha superato da orientale le convenzioni occidentali. Ed è una storia triste e breve che ha accomunato chi come lui, proprio in quegli anni, e penso a pittori quali Narashige Koide o Ryusei Kishida, o al poeta Ryunosuke Akutagawa, morti troppo giovani, ha provato a unire nel segno dell’arte il pensiero umano.

Harue Koga nasce nel 1895 come Yoshio Koga a Kurume, sull’isola di Kyˉushˉu, nell’area subtropicale del Giappone. Suo padre, sacerdote del celebre tempio buddista Zenpuku- ji, possiede una notevole quantità di libri e incisioni. Ed è proprio guardando quel mondo “ricreato” che si avvicina, sin da bambino, alla pittura. Nel 1912 quando con l’imperatore Yoshihito inizia il periodo Taishˉo, Koga abbandona la scuola tradizionale e si trasferisce a Tokyo per studiare arte, frequentando l’istituto della Japan Painting Society (Taiheiyogakai) e corsi di acquerello e pittura. A venti anni, nel 1915, il suicidio del suo coinquilino lo sconvolge e influenzerà i suoi passi successivi. Un episodio che viene ripreso da tutte le biografie, mai realmente chiarito, che vorrei un giorno comprendere meglio.

Pochi mesi dopo, frutto di una crisi profonda, sceglie di entrare nel sacerdozio buddista, dove sarà ribattezzato Harue. Cerca di essere come il padre, di seguire le sue orme, tanto che nel 1916 si iscrive all’università per studiare teologia. Ma non riuscirà a essere come il padre. Nel 1917 organizza la sua prima esposizione. Nel 1918 abbandona il corso di teologia e decide di concentrarsi solo sulla pittura. Dopo una crisi e una ricerca di sé durata diversi anni, la nascita e poi la morte del suo unico figlio lo portano a realizzare due dei primi capolavori Inumazione (1922), che vinse il premio d’arte Nika del 1922, e Servizio buddista (1923). La pittura diventa la sua unica ragione di vita, tanto da fargli fondare con altri dodici artisti un gruppo d’arte d’avanguardia denominato Action. Nel 1923 si trova a Ueno (quartiere di Tokyo) durante il Grande terremoto di Kantˉo, la più grande catastrofe naturale mai accaduta in Giappone che provoca circa centossessantamila morti.


Trucco fuori dalla finestra (1930), Kamakura e Hayama (Giappone), Museum of Modern Art.

Con il lutto del figlio finisce anche il suo matrimonio. Ma la vita continua ad accanirsi. Si lega a un’altra donna, va a vivere con lei, solo per vederla morire di malattia l’anno successivo.
La sua opera, nel caos della quotidianità, guarda però migliaia di chilometri lontano dalle proprie miserie. È un buddista innamorato dell’Occidente, fortemente influenzato dalle avanguardie europee. Prima dal cubicubismo e da Léger, poi dal fotomontaggio di matrice Bauhaus, quindi dagli studi di Paul Klee, suggestionato dai quali crea, tra il 1926 e il 1929, una serie di magiche opere di stile infantile come La luna e fiori (1926) e Fuochi d’artificio (1927), nel quale si abbandona al mistero.
Come il Giappone anche lui brucia le tappe. Diventa dada, per poi approdare alla cultura metafisica di de Chirico, al surrealismo, senza disdegnare un approccio pop, che lo porterà a collaborare con riviste e fogli satirici (“Tokyo Puck”), le più pronte ad accogliere lo stile occidentale, ma anche a realizzare raffinate cover per riviste d’arte (“Bungei Jidai”, L’epoca della letteratura). Insomma, fu un eclettico, spiazzante, ascetico transgender, tanto che Jack Eskola, che gli ha dedicato un volume lo definisce il «David Bowie della pittura giapponese».
In Mare (1929-1931), l’opera che mi ha fulminato al primo sguardo, e che poi mi ha condotto a lui, i pezzi della sua vita si completano. Ci sono frammenti delle riviste scientifiche tedesche (un dirigibile, alcuni macchinari stilizzati e un sottomarino tagliato per rivelare il suo funzionamento) che l’artista aveva recuperato al porto da ragazzo. E c’è la bellezza balneare di una rivista di moda o di una cartolina. Sembra la Marianne della Rivoluzione francese. Una donna che ritornerà in un’altra opera di altissimo livello, Trucco fuori dalla finestra del 1930.
Se visti isolatamente, i singoli motivi, di per sé, appaiono chiari e semplici, diverso è quando sono posti in contrapposizione e diventa difficile coglierne il significato nel contesto.

Da tre anni i protagonisti di queste due pagine, sono loro, gli Outsiders. Alcune di queste storie, e altre ancora, sono state raccontate da Alfredo Accatino in un fortunato libro pubblicato da Giunti nel 2017, Outsiders. Ed è a loro che abbiamo deciso, da questo numero, di intitolare la rubrica.

ART E DOSSIER N. 358
ART E DOSSIER N. 358
OTTOBRE 2018
In questo numero: TINTORETTO 500 ANNI Philippe Daverio: Il pittore e gli architetti. PRERAFFAELLITI Elizabeth Siddal, Borea di Waterhouse. IN MOSTRA Licini a Venezia, Surrealisti a Pisa, Arte e magia a Rovigo, Burne-Jones a Londra, Courbet a Ferrara. Direttore: Philippe Daverio