Grandi mostre. 6
Traiano e l’impero a Roma

“COMMENTARII”DI MARMO

A conclusione delle celebrazioni dei 1900 anni dalla morte di Traiano (53-117), una grande mostra celebra le gesta dell’“optimus princeps” che portò il dominio dell’Urbe alla sua massima estensione territoriale.
Ha un ruolo preminente la celebre colonna coclide che sorge nel Foro di Traiano, testimonianza delle due campagne imperiali per la conquista della Dacia.

Sergio Rinaldi Tufi

Si è celebrato l’anno scorso il millenovecentesimo anniversario della morte di Traiano, ma qualche manifestazione è ancora in corso, come la grande mostra Traiano. Costruire l’impero, creare l’Europa, aperta fino al 16 settembre. Un tributo in certo senso dovuto all’“optimus princeps” che portò l’impero al massimo dell’estensione: con la sua maggiore impresa, la conquista della Dacia (corrispondente in gran parte all’attuale Romania), la già stupefacente lunghezza del confine, o “limes”, salì da 9.564 a 10.159 chilometri. I daci erano un’antica popolazione indoeuropea che, sulla riva sinistra del Danubio, aveva trovato con il re Burebista (I secolo a.C.), e poi soprattutto con Decebalo, unità e coesione, dando filo da torcere a Domiziano fra l’85 e l’89 d.C. Una seria minaccia: Traiano la affrontò con due durissime guerre nel 101-102 e nel 105-106 d.C. Non era in gioco, del resto, solo la sicurezza dei confini: erano nel mirino anche le risorse minerarie del paese e le ingentissime ricchezze del tesoro del re. 

Di quelle guerre resta un singolare tipo di documentazione: sono perdute in gran parte le opere letterarie che le raccontavano, a partire dai Commentarii del “princeps” stesso (ispirati a quelli di Cesare sulla guerra gallica), ma è conservata la narrazione per immagini nel fregio della Colonna traiana. È lungo 200 metri e si avvolge a spirale attorno al fusto alto 29,78 metri, cioè 100 piedi romani; se si considera anche la base, i metri di altezza sono 39,83. Misure a parte, ci si ricollega all’uso, noto nel mondo antico, di rivestire in certe occasioni le colonne dei templi con lunghi drappi dipinti. È l’unico monumento conservato per intero del nuovo Foro - il più grande dei Fori imperiali - che l’architetto di fiducia Apollodoro di Damasco realizzò sbancando parte del Quirinale: sul taglio furono poi costruiti proprio i Mercati traianei, che ora ospitano la mostra di cui si diceva. 

Si diceva anche della base. È ornata di armi daciche, fra le quali si affacciano estrosi strumenti a fiato, alcuni a forma di dragone, certo concepiti per eseguire musiche guerresche. Qui era anche l’iscrizione con la dedica del monumento; all’interno, si conservavano in urne d’oro le ceneri del “princeps” e della moglie Plotina.


La Colonna traiana (inaugurata nel 113 d.C.), nel Foro omonimo, a Roma.

Marce, tagli di boschi, lavori nei campi, costruzione di accampamenti, battaglie, discorsi, assedi


Ma veniamo al fregio, ai Commentarii di marmo: un marmo lunense (cioè di Carrara) il cui candore è così suggestivo che sembra strano che questi rilievi (e, si sa, le sculture antiche in genere) in origine fossero policromi. Non è noto il nome dell’autore, o meglio del grande coordinatore di una serie di esecutori: Bianchi Bandinelli parlava di “Maestro delle imprese di Traiano”, mentre secondo alcuni il maestro era lo stesso Apollodoro. Questo Maestro conosce gli schemi iconografici della scultura classica ed ellenistica: il capo delle operazioni (Traiano, che compare una sessantina di volte), in veste di oratore, che parla con i collaboratori e con le truppe; i soldati che avanzano e combattono; i soccombenti che cadendo poggiano un ginocchio a terra, e così via. Ma lo stesso Maestro si permette anche di ridurre le proporzioni dei vari tipi di sfondo (paesaggi, foreste, architetture), incurante delle dimensioni reali, ma attento alla comprensibilità dei dettagli, che al suo pubblico dicevano ovviamente molto più che a noi. Anche perché, mentre per noi è obbligata la visione dal basso, la colonna era in origine compresa fra una basilica e due biblioteche (parti dell’enorme complesso forense), dalle cui terrazze il fregio era certo più leggibile. 

Marce, tagli di boschi, lavori nei campi, costruzione di accampamenti, battaglie, discorsi, assedi: i temi talvolta ritornano, ma in maniera mai ripetitiva, in un’alternanza di scene statiche e di scene di movimento che qualcuno ha messo a confronto con le tecniche del montaggio cinematografico. 

La prima scena significativa è il passaggio del Danubio, nel 101 d.C., su ponti di barche. Equipaggiati con la corazza “segmentata” propria del periodo, e preceduti dai portatori di insegne, i soldati marciano su barche affiancate e su spruzzi d’acqua: il modo in cui questi sono raffigurati conferma che, per il Maestro, farci capire bene la situazione è più importante che rispettare le proporzioni. Poco dopo, ormai su suolo dacico, colpo di scena: di fronte a Traiano, un uomo cade scompostamente dal mulo. Probabilmente è un “omen”, un prodigio-presagio: nella storiografia antica succede talvolta che un incidente iniziale, anche trascurabile, venga presentato come un qualcosa che assorbe in sé ogni negatività, funzionando come augurio per il prosieguo delle operazioni.


Immagini dalla decorazione della Colonna traiana. I legionari lavorano nei campi.


Avvio della prima campagna di Dacia: incidente con uomo che cade da un mulo al passaggio del Danubio, al cospetto dell’imperatore.

il dio protettore del Danubio (barba fluente, corona di canne sul capo) sembra osservare i romani che varcano il fiume.


Traiano a colloquio con uno dei suoi generali, Licinio Sura.

Non c’è esclusione di colpi: delle molte scene di battaglia, alcune appaiono particolarmente crudeli. La crudeltà del resto fa parte della storia dell’uomo, dai re assiri all’Isis: variano i “media”, dai marmi scolpiti ai video trasmessi via web. C’è la reiterata esibizione delle teste mozzate dei nemici: per esempio in una sorta di pausa fra le varie fasi della prima grande battaglia, quella che (secondo le scarse fonti superstiti) si svolse nella località di Tapae lungo l’avanzata verso la capitale dacica Sarmizegetusa in Transilvania. Fra legionari che eseguono la “testudo” (cioè dispongono compattamente gli scudi sulle loro teste per difendersi da chi tenta di colpirli dall’alto) e truppe che si lanciano in un nuovo attacco, due soldati mostrano all’imperatore e ai suoi generali teste di Daci. 

Ma la guerra non è solo violenza e crudeltà: i dialoghi fra Traiano e i collaboratori costituiscono intense pause di riflessione. La scena di colloquio più nota è quella con un personaggio identificato come Licinio Sura, nobile di origine spagnola molto ascoltato dall’imperatore, pure spagnolo. 

Oltre ai combattimenti veri e propri, notevole rilevanza assume quello che oggi definiremmo il genio militare: particolarmente accurate le costruzioni di fortezze, con i soldati che lavorano alacremente indossando la corazza, con le armi a portata di mano. Ma la realizzazione più significativa del genio è un grande ponte sul Danubio, di cui riparleremo. 

Sia i romani, sia i daci ricorrono ad alleanze. Fra i più stretti collaboratori di Traiano c’è un africano, Lusio Quieto, principe berbero di una tribù della Mauretania (area corrispondente a parti degli attuali Marocco e Algeria) mai sottomessa a Roma. L’individuazione di Lusio fra i personaggi raffigurati non è sicurissima, ma è molto ben rappresentata la presenza delle sue truppe: cavalieri lanciati contro il nemico, caratterizzati dalle elaborate acconciature dei lunghi capelli crespi e da piccoli scudi di forma circolare. Altrettanto riconoscibili, sempre nel corso della prima guerra, i cavalieri sarmati alleati di Decebalo, che li coinvolse, insieme con altre popolazioni, in un tentativo di attacco a sorpresa fuori dalla Transilvania, teatro principale delle operazioni: cavalieri interamente coperti, come pure i loro cavalli, da armature squamate. Si combatté sul basso corso del Danubio, e i romani ebbero la meglio: a questa vittoria (e alla guerra nel suo complesso) è dedicato il grande Tropaeum Traiani costruito nella località oggi detta Adamclisi in Dobrugia. 

Le operazioni della prima guerra si concludono con la presa di Sarmizegetusa e con l’imposizione a Decebalo di una serie di condizioni (disarmo, ma non solo) accettate ma poi disattese. Traiano decide dunque una nuova spedizione in grande stile, e stavolta la Colonna non la racconta dal momento dell’attraversamento del Danubio, ma addirittura dal momento della partenza dall’Italia. Da dove esattamente? Quasi certamente da Ancona, perché nella scena della Colonna che raffigura la flotta che si accinge a salpare (di notte, in quanto si vedono addetti che tendono torce) è raffigurato probabilmente uno scorcio del porto dell’antica città dorica, con un arco sormontato da statue (quello dedicato a Traiano in occasione della ristrutturazione del porto stesso, e successivamente rifatto, acquisendo l’aspetto che oggi vediamo) e con un tempio sulla sommità dell’altura retrostante, individuabile con quello di Venere che si trovava dove oggi è la cattedrale di San Ciriaco: sotto la chiesa ne restano avanzi. Un altro tempio raffigurato più in basso potrebbe essere quello del mitico fondatore Diomede, citato dalle fonti ma finora non individuato. 

Al di là dell’Adriatico, nella Colonna si raffigurano varie tappe in cui sono forse da riconoscere città e località della Dalmazia e della Mesia, attraverso le attuali Croazia, Bosnia-Erzegovina, Serbia: sicuramente è ben riconoscibile il punto di arrivo, Pontes, che prende il nome dalla grande opera di Apollodoro di Damasco costruita nell’intervallo fra le due guerre. L’aspetto è chiaro: struttura in legno poggiante su piloni in muratura (di alcuni, peraltro, si vedono ancora alcuni resti nel letto del fiume). Prima opera del genere costruita sul basso Danubio, era anche, con i suoi 1135 metri, il ponte più lungo del mondo antico; conduceva, sulla riva opposta, alla fortezza di Drobeta (oggi Turnu Severin). 

I daci, che con Burebista e Decebalo avevano trovato forza e coesione, entrando in collisione con l’Urbe avevano subìto un brusco arresto nel loro sviluppo. La sconfitta si avvicinava: la seconda guerra decisa da Traiano, dopo il passaggio del ponte di Apollodoro, viene narrata in modo non molto dissimile dalla prima, ma la raffigurazione degli episodi finali comporta una vera impennata emotiva. Quando ormai la capitolazione di Sarmizegetusa appare imminente, gruppi di daci decidono di farla finita. Alcuni incendiano i loro villaggi, altri attingono il veleno da un grande recipiente e lo distribuiscono con disperata e composta ritualità. È un crudele contrasto con la scena che mostra invece i romani con i loro muli stracarichi degli ingentissimi tesori saccheggiati. Culmine narrativo, poco oltre, è il suicidio di Decebalo, che si taglia la gola mentre accorre un gruppo di soldati romani: si conserva nel museo di Filippi, in Grecia, la stele funeraria di uno di loro, Tiberio Claudio Massimo, che nell’iscrizione si autodefinisce “captor Decebali” e snocciola la sua carriera di fedelissimo di Traiano. Fino alla fine: lo seguì anche nella sfortunata campagna d’Oriente iniziata nel 115 e finita nel 117 con la morte dell’imperatore.


Culmine narrativo è il suicidio di Decebalo, che si taglia la gola mentre accorre un gruppo di soldati romani


I romani vincitori portano via il loro bottino.


Scena di suicidio collettivo dei daci;

IN MOSTRA

La mostra Traiano. Costruire l’Impero, creare l’Europa, ideata da Claudio Parisi Presicce e a cura di Marina Milella, Simone Pastor e Lucrezia Ungaro, in corso fino al 16 settembre ai Mercati di Traiano - Museo dei Fori imperiali (www.mercatiditraiano.it, www.traianus.it) è uno degli eventi conclusivi delle celebrazioni del 2017 per i millenovecento anni dalla morte dell’imperatore di origine ispanica. Il percorso espositivo, articolato in sette sezioni, include sculture, ritratti, decorazioni architettoniche, monete, calchi della Colonna traiana, filmati, oltre a una mano colossale e a una testa ritratto dell’imperatore di grandi dimensioni provenienti dai magazzini del museo. Catalogo De Luca.


il suicidio di Decebalo.

ART E DOSSIER N. 356
ART E DOSSIER N. 356
LUGLIO-AGOSTO 2018
In questo numero: ESTATE AL MUSEO La Rubenshuis di Anversa, il Museo diocesano di Feltre. I RESTAURI E LE SCOPERTE Pisa: gli affreschi restaurati; Pontormo: un nome per un ritratto. IN MOSTRA Christo a Londra, W.E. Smith a Bologna, Matisse ad Aosta, Kupka a Parigi, La collezione Agrati a Milano, Traiano a Roma.Direttore: Philippe Daverio