Non c’è esclusione di colpi: delle molte scene di battaglia, alcune appaiono particolarmente crudeli. La crudeltà del resto fa parte della storia dell’uomo, dai re assiri all’Isis: variano i “media”, dai marmi scolpiti ai video trasmessi via web. C’è la reiterata esibizione delle teste mozzate dei nemici: per esempio in una sorta di pausa fra le varie fasi della prima grande battaglia, quella che (secondo le scarse fonti superstiti) si svolse nella località di Tapae lungo l’avanzata verso la capitale dacica Sarmizegetusa in Transilvania. Fra legionari che eseguono la “testudo” (cioè dispongono compattamente gli scudi sulle loro teste per difendersi da chi tenta di colpirli dall’alto) e truppe che si lanciano in un nuovo attacco, due soldati mostrano all’imperatore e ai suoi generali teste di Daci.
Ma la guerra non è solo violenza e crudeltà: i dialoghi fra Traiano e i collaboratori costituiscono intense pause di riflessione. La scena di colloquio più nota è quella con un personaggio identificato come Licinio Sura, nobile di origine spagnola molto ascoltato dall’imperatore, pure spagnolo.
Oltre ai combattimenti veri e propri, notevole rilevanza assume quello che oggi definiremmo il genio militare: particolarmente accurate le costruzioni di fortezze, con i soldati che lavorano alacremente indossando la corazza, con le armi a portata di mano. Ma la realizzazione più significativa del genio è un grande ponte sul Danubio, di cui riparleremo.
Sia i romani, sia i daci ricorrono ad alleanze. Fra i più stretti collaboratori di Traiano c’è un africano, Lusio Quieto, principe berbero di una tribù della Mauretania (area corrispondente a parti degli attuali Marocco e Algeria) mai sottomessa a Roma. L’individuazione di Lusio fra i personaggi raffigurati non è sicurissima, ma è molto ben rappresentata la presenza delle sue truppe: cavalieri lanciati contro il nemico, caratterizzati dalle elaborate acconciature dei lunghi capelli crespi e da piccoli scudi di forma circolare. Altrettanto riconoscibili, sempre nel corso della prima guerra, i cavalieri sarmati alleati di Decebalo, che li coinvolse, insieme con altre popolazioni, in un tentativo di attacco a sorpresa fuori dalla Transilvania, teatro principale delle operazioni: cavalieri interamente coperti, come pure i loro cavalli, da armature squamate. Si combatté sul basso corso del Danubio, e i romani ebbero la meglio: a questa vittoria (e alla guerra nel suo complesso) è dedicato il grande Tropaeum Traiani costruito nella località oggi detta Adamclisi in Dobrugia.
Le operazioni della prima guerra si concludono con la presa di Sarmizegetusa e con l’imposizione a Decebalo di una serie di condizioni (disarmo, ma non solo) accettate ma poi disattese. Traiano decide dunque una nuova spedizione in grande stile, e stavolta la Colonna non la racconta dal momento dell’attraversamento del Danubio, ma addirittura dal momento della partenza dall’Italia. Da dove esattamente? Quasi certamente da Ancona, perché nella scena della Colonna che raffigura la flotta che si accinge a salpare (di notte, in quanto si vedono addetti che tendono torce) è raffigurato probabilmente uno scorcio del porto dell’antica città dorica, con un arco sormontato da statue (quello dedicato a Traiano in occasione della ristrutturazione del porto stesso, e successivamente rifatto, acquisendo l’aspetto che oggi vediamo) e con un tempio sulla sommità dell’altura retrostante, individuabile con quello di Venere che si trovava dove oggi è la cattedrale di San Ciriaco: sotto la chiesa ne restano avanzi. Un altro tempio raffigurato più in basso potrebbe essere quello del mitico fondatore Diomede, citato dalle fonti ma finora non individuato.
Al di là dell’Adriatico, nella Colonna si raffigurano varie tappe in cui sono forse da riconoscere città e località della Dalmazia e della Mesia, attraverso le attuali Croazia, Bosnia-Erzegovina, Serbia: sicuramente è ben riconoscibile il punto di arrivo, Pontes, che prende il nome dalla grande opera di Apollodoro di Damasco costruita nell’intervallo fra le due guerre. L’aspetto è chiaro: struttura in legno poggiante su piloni in muratura (di alcuni, peraltro, si vedono ancora alcuni resti nel letto del fiume). Prima opera del genere costruita sul basso Danubio, era anche, con i suoi 1135 metri, il ponte più lungo del mondo antico; conduceva, sulla riva opposta, alla fortezza di Drobeta (oggi Turnu Severin).
I daci, che con Burebista e Decebalo avevano trovato forza e coesione, entrando in collisione con l’Urbe avevano subìto un brusco arresto nel loro sviluppo. La sconfitta si avvicinava: la seconda guerra decisa da Traiano, dopo il passaggio del ponte di Apollodoro, viene narrata in modo non molto dissimile dalla prima, ma la raffigurazione degli episodi finali comporta una vera impennata emotiva. Quando ormai la capitolazione di Sarmizegetusa appare imminente, gruppi di daci decidono di farla finita. Alcuni incendiano i loro villaggi, altri attingono il veleno da un grande recipiente e lo distribuiscono con disperata e composta ritualità. È un crudele contrasto con la scena che mostra invece i romani con i loro muli stracarichi degli ingentissimi tesori saccheggiati. Culmine narrativo, poco oltre, è il suicidio di Decebalo, che si taglia la gola mentre accorre un gruppo di soldati romani: si conserva nel museo di Filippi, in Grecia, la stele funeraria di uno di loro, Tiberio Claudio Massimo, che nell’iscrizione si autodefinisce “captor Decebali” e snocciola la sua carriera di fedelissimo di Traiano. Fino alla fine: lo seguì anche nella sfortunata campagna d’Oriente iniziata nel 115 e finita nel 117 con la morte dell’imperatore.