La pagina nera


NELL’EX STUDIO
DI SCULTORE LAVO
AUTO A TUTTE L’ORE

Con le sue pregiate cave di marmo, Carrara ha richiamato molti artisti: oltre a Michelangelo, tra gli altri, lo scultore Bertel Thorvaldsen.
Suo il fregio con l’Ingresso trionfale di Alessandro Magno a Babilonia: la prima versione è al Quirinale, una delle repliche, in parte, nella città toscana.
Là, in quello che fu di certo un suo laboratorio, oggi si fa tutt’altro: la struttura è leggibile ma ormai è una rimessa, e il muro di cinta il regno dei “writers”.

di Fabio Isman

La capitale del marmo: Carrara (Massa-Carrara) e le sue cave. Per la prima volta Michelangelo ci approda nel novembre 1497, per scegliere il materiale della Pietà vaticana: su un cavallo grigio, con in tasca quindici ducati e tre carlini. Ne era fornitore lo scalpellino Matteo Cuccarello. In più viaggi, l’artista trascorrerà complessivamente un paio d’anni sulle Alpi apuane; per l’ultima volta, nel 1523: poi, delegherà la scelta del marmo ai collaboratori. La cava a cielo aperto 46, o Polvaccio, si chiama pure con il suo nome: molto del marmo statuario da lui utilizzato proveniva proprio da qui. Nel terzo viaggio, del 1505, ha mille ducati in saccoccia: gli occorre parecchio materiale, per la monumentale tomba di Giulio II, papa Della Rovere. Il soggiorno è più lungo: da aprile a fine anno. E, per esaudirlo, i carraresi devono costituire una società apposita. Estratto invece dalla cava 79, o Carbonera, il monolite dell’attuale Foro italico a Roma, che mostra ancora la scritta «Dux»: un blocco lungo 18 metri e pesante 300 tonnellate, portato a valle con trenta paia di buoi, e poi per mare fino a Fiumicino e di lì a Roma, risalendo il Tevere, nel 1932. 

Dopo Michelangelo, a Carrara approdano tanti altri artisti. Baccio Bandinelli, per esempio, che verso il 1520 scolpisce una gigantesca statua di Andrea Doria come Nettuno: resta un abbozzo, che il marchese Alberico I Cybo-Malaspina usa per abbellire la fontana del Gigante, accanto al duomo della città. E in cima alla cava Fantiscritti di Giuseppe Miraglia, c’era un’edicola romana larga un metro, con tre piccole figure: Ercole, Giove e Dioniso, che le ha dato il nome. Nel dialetto locale, infatti, “fanti” significa ragazzi; nel 1863, l’edicola è stata staccata; ora è custodita all’Accademia di belle arti, dopo il duomo l’edificio principale di Carrara, perché era il castello dei suoi signori. Oltre a quella di Buonarroti, reca incise le firme di Giambologna e Canova, allora si usava così: “fantiscritti” (molti visitatori della cava, come i celebri artisti, lasciavano i loro nomi scolpiti sull’edicola a testimonianza della loro presenza). In città, insegnerà all’Accademia pure Luigi Bartolini (1777-1850), che diverrà lo scultore della famiglia Bonaparte. 

Vi giunge anche Bertel Thorvaldsen (1770-1844); qui, anzi, trova il suo più fido aiutante, e quindi erede, Luigi Bienaimé, della cui famiglia è ospite: prima in una loro villa che non c’è più, poi in una palazzina del centro storico, in via Verdi. Spiega la storica dell’arte Luisa Passeggia: «La sua presenza porta alla creazione di una vera e propria manifattura tra Roma e Carrara, con l’impiego di una folta schiera di scultori apuani». Ne sappiamo alcuni nomi: Gérard Hubert e numerosi carraresi come Raggi, Livi, Bogazzi, Gaeti, Tacca, Bardi, Moisè, Vaccà, Franzoni, Babboni, naturalmente accanto a Bienaimé, Giuliano Finelli e Pietro Tenerani, impegnati nello studio romano di Thorvaldsen situato in uno dei locali delle rimesse Barberini, e in quelli che poi lo seguiranno.


L’ex studio di Bertel Thorvaldsen a Carrara, ora occupato da un’officina dove si lavano le auto.


L’esterno dell’autolavaggio, ex studio di Bertel Thorvaldsen, coperto dai writers.

Un inventario dei beni del maestro, del 1844, elenca anche «trentacinque lastre del Trionfo di Alessandro che occupavano tutto il pavimento sul lato sinistro» del suo studio romano: le ritroveremo poi anche nell’atelier di via delle Colonnette 38. Un fregio di complicatissima esistenza e collocazione. In un carteggio di Tenerani con lo zio, che è stato ritrovato di recente, la studiosa Alberta Campitelli ha scoperto che «l’esecuzione fu affidata interamente agli aiuti, a eccezione degli ultimi ritocchi ». Tenerani, dice Passeggia, appare entusiasta; per eseguire il fregio, chiede allo zio «d’inviargli quanti Giovani Scultori ed abbozzatori capaci si trovino che fossino anche venti, e fissargli subito una buona giornata adeguata al merito»; dieci anni dopo, però, l’idillio con il maestro è finito: infatti, lo definisce gretto e opportunista, «fa uso di giovani abili»; ma questa è un’altra storia. 

Torniamo al fregio. La prima versione, con l’Ingresso trionfale di Alessandro Magno a Babilonia, è commissionata, nel 1812, per il Quirinale: quando è riallestito dopo l’arrivo dei francesi; la vediamo ancora nel salone delle Dame. Qualcuno, come Romain Colomb, cugino di Stendhal, la valuta il capolavoro dell’artista; mentre Paul Valéry ne loda la compostezza greca in contrasto con le fisionomie italiane. L’opera piace moltissimo anche a Napoleone: ne ordina una versione in marmo per il tempio della Gloria a Parigi; ma la sua disfatta arriva prima che sia consegnata. Così, nel 1818, l’opera è rilevata dal conte Giovanni Battista Sommariva per decorare la sua Villa Carlotta sul lago di Como, a Tremezzo. Le trentatré lastre di marmo giungono in dieci anni e vengono collocate nel 1829, con un “postilla”: l’ultima, raffigura infatti lo scultore, che presenta l’opera stessa a Sommariva. 

Altre repliche note sono vendute a Eugène de Beauharnais per il palazzo a Monaco e alla famiglia BethmannHollweg di Francoforte sul Meno per il loro parco; una è nella sala di lettura della Biblioteca nazionale di Napoli, a Palazzo reale, che era già un salone dell’appartamento delle Feste. Un’altra, creata da Pietro Galli, è al Thorvaldsens Museum di Copenaghen; e una ancora è accanto, nel castello di Christiansborg: ricostruita dopo un incendio nel 1884. La realizza, a Carrara, lo studio Lazzerini (attivo dal 1670 al 1942), opera che Passeggia ha approfondito in un volume pubblicato pochi anni fa(*): nel 1887, una parte dei rilievi «restarono in Livorno nei magazzini del signor Shepherd oltre due mesi per mancanza di vapori danesi». La riproduzione è analoga all’esemplare che il principe Alessandro Torlonia aveva voluto per la sua villa su via Nomentana: comunica allo scultore, nel 1835, le dimensioni della sala da pranzo, ellittica, cui era destinato. 

Ma parte del fregio rimane pure a Carrara: sulla facciata del palazzetto di due piani e cinque finestre in via Verdi, dove la accompagnano otto medaglioni, o piccole effigi, di altre famose composizioni di Thorvaldsen. Nello stabile già dei Bienaimé, lo scultore vive parecchi dei suoi giorni carraresi; e l’insieme dei rilievi è collocato forse dal suo allievo Luigi Bienaimé, che diventa il principale collaboratore e capo dello studio a Roma, o forse dal fratello Pietro Antonio; anche se reperire una fonte è quanto mai difficile: quasi nessuno ne parla. Insieme ai gessi e ai calchi in terracotta del demolito palazzo Monterosso a Marina di Carrara, dei Bienaimé, poi conservati dai discendenti, e con quelli collocati, già dall’Ottocento, all’Accademia di belle arti, racconta Gerardo de Simone che vi insegna, costituiscono i più prestigiosi segni della memoria dell’artista, nella città toscana che amò tantissimo. 

Nel salone che ora è la biblioteca dell’istituto, a Palazzo del principe, ha avuto forse il suo primo studio. 

Poi, si è trasferito proprio di fronte a questo palazzetto dove viveva e ora si vede una parte del lunghissimo fregio: al numero 13/a. La struttura si “legge” ancora benissimo: un capannone tutto finestrato, con il tetto spiovente, alto quanto bastava per realizzarvi anche le opere più ingombranti. Ormai è un’officina in cui si lavano le automobili. Fabio Cucurnia spiega: 

«Ho questo autolavaggio da undici anni; sì, qualche persona anziana mi ha raccontato che, una volta, era un laboratorio». Il muro di cinta è stato abbellito dai “writers”, arte contemporanea, anche con alcune divertenti vacche; l’esercizio si chiama Il siluro. Lo studio di Thorvaldsen, ma anche la sua memoria sono, così, belli e silurati.


Dietro il murale con divertenti vacche, l’officina si chiama Il siluro. La memoria dell’artista e del suo studio sono belli e silurati


Bertel Thorvaldsen, fregio con l’Ingresso trionfale di Alessandro Magno a Babilonia (1812), palazzo del Quirinale, salone delle Dame.


Una replica del fregio di Bertel Thorvaldsen sulla facciata del palazzetto in via Verdi a Carrara, già dei Bienaimé, dove lo scultore vive a lungo durante la sua permanenza nella città toscana. Sulla facciata anche otto medaglioni dell’artista.

(*) L. Passeggia, Lo studio Lazzerini. Viaggio a Carrara in tre secoli di storia, Pisa 2012.

ART E DOSSIER N. 356
ART E DOSSIER N. 356
LUGLIO-AGOSTO 2018
In questo numero: ESTATE AL MUSEO La Rubenshuis di Anversa, il Museo diocesano di Feltre. I RESTAURI E LE SCOPERTE Pisa: gli affreschi restaurati; Pontormo: un nome per un ritratto. IN MOSTRA Christo a Londra, W.E. Smith a Bologna, Matisse ad Aosta, Kupka a Parigi, La collezione Agrati a Milano, Traiano a Roma.Direttore: Philippe Daverio